Luigi Capuana - Opera Omnia >>  Le appassionate




 

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I

TORTURA



Com'era avvenuto?
Non avrebbe saputo dirlo neppur lei. Insidia, aggressione!... Qualcosa di vigliacco e di brutale... Un'infamia!
E al ricordo di quell'istante in cui la violenza del cognato aveva impresso a tradimento un bollo di fuoco nelle sue carni di moglie immacolata, ella agonizzava senza tregua, senza poterne dire una sola parola a nessuno, all'infuori che al crocifisso a piè del quale s'era buttata, protestando per la propria innocenza, sciogliendosi in lagrime nel buio della camera, la terribile notte seguita alla sera della violazione, quando le era parso d'impazzire, di morire..., e non era né impazzita, né morta!
Com'era avvenuto?
Se lo domandava spesso, tentando d'illudersi per non piú ricordarsene, per non piú crederci; per ottenere, almeno cosí, un momento di riposo in quello straziante travaglio del sangue, dei nervi, dell'intelligenza che tornavano a ribellarsi contro l'oltraggio, quasi continuasse tuttavia l'opera sua vituperosa; indignata di se stessa quando credeva che la volontà non reagisse abbastanza da scancellarle dalla memoria l'orribile impressione; irritata contro tutti perché non la soccorrevano, anche ignorando la causa dell'incessante tortura... Non si accorgevano che soffriva?
In certe giornate, allorché il cielo era coperto, o la pioggia scrosciava sui vetri del salottino dove ella tentava di distrarsi ora leggendo, ora applicandosi a un lavorino manuale, sentiva, ahimè!, invadersi a poco a poco da una specie di fascino che la forzava a ricordare, a rappresentarsi fino i minuti particolari dell'atrocissima scena. I grandi occhi neri le si dilatavano enormemente sul volto pallido e affilato; le mani scarne e bianchissime brancicavano i bracciuoli della poltrona dov'ella si distendeva con l'abbandono di persona morta; e mentre le labbra aride articolavano di tanto in tanto parole inintelligibili e sconnesse, quell'altra stanza che prima serviva da salottino, i mobili, i quadri, gli oggetti d'arte sparsi allora qua e là su le pareti e negli angoli, il tavolino tondo, il lume dalla ventola giapponese, le si rizzavano rapidamente attorno con la solidità del vero; quasi fossero ancora là, e non li avesse ella dispersi due giorni dopo, perché sparisse anche ogni inanimato testimone dell'incredibile onta...
Ma... e la sua debolezza non ci aveva concorso per nulla? Ma... e non c'era stato dalla parte di lei un cieco assentimento di sensi?... Oh, no! Oh, no!... Ella non sospettava; non diffidava... Il fratello di suo marito!... Sarebbe stato un delitto.
Colui parlava quasi sottovoce, stranamente commosso, seduto di rimpetto; ed ella agitava il largo ventaglio nero, senza guardarlo in viso, sorridendo di quel ch'egli diceva e del modo con cui lo diceva, distratta, nell'intimità dell'ora tarda o da una canzone che saliva inattesamente dalla via e si allontanava affievolendosi, o dal rumore di una carrozza che passava di corsa; il silenzio, poco dopo, rendeva piú dolce e piú intimo il conversare, lasciando un po' di libertà all'immaginazione e non obbligando a rispondere.
Durava da parecchie settimane. Nella lontananza del marito, egli era venuto piú di frequente, anche per affari... Come sospettare?... Come diffidare?... Mai una parola, mai un'occhiata, mai un gesto che potesse metterla in guardia!
Si era levato da sedere continuando a parlare, facendo qualche passo su e giú davanti a lei, con certi sguardi che le avevano dato un senso di meraviglia e le erano parsi un po' buffi in quel momento... E a un tratto... Ella si dibatteva, come se quelle labbra le ricercassero di nuovo il viso, il collo, le mani che si difendevano: - No! No! No! - Ed era soggiaciuta per l'annientamento d'ogni forza, vinta da un immenso stupore, quasi fosse stata non già vittima, ma testimone di quel delitto!... E si era rizzata, ravviandosi istintivamente i voluminosi capelli disordinatisi nella breve lotta, cercando con lo sguardo lui che era scappato via come un ladro, lui che ella avrebbe voluto chiamare in soccorso, tanto quell'infamia le pareva incredibile! Cosí rizzavasi ora, ogni volta che l'allucinazione la vinceva; e cosí riportava istintivamente le mani al capo per ravviarsi i capelli alla rinascente sensazione del disordine di allora. E rivedevasi ritta in mezzo al salottino, come si era vista in quel momento nello specchio di faccia, senza riconoscersi, atterrita di quel fantasma pallido e sconvolto che non si moveva, là, non parlava, e pareva non respirasse neppure... E compreso l'orrore ch'era stato consumato - e non si poteva piú cancellare - aveva nascosto le improvvise vampe del volto tra le mani diacce e convulse.
- Lui!... Lui!... Il fratello di mio marito! - Barcollava, come allora ch'era andata tentoni per le stanze buie fino alla camera da letto; e, come allora, i singhiozzi e il pianto tornavano a farle nodo alla gola:
- Lui!... Lui!... Il fratello di mio marito!

La mattina, quando s'era trovata ancora piangente, accoccolata come una mendicante sul pavimento, con la testa appoggiata alla sponda del letto, le mani avviticchiate attorno ai ginocchi; al barlume dell'alba, penetrato nella camera dai cristalli rimasti aperti, la prima sensazione che le aveva dato la coscienza di se stessa era stata un invincibile ribrezzo dei vestiti che trovavasi in dosso; poi, una pazza paura che non le si fossero appiccicati alle carni per perpetuare la sua onta. Rapidamente s'era spogliata, strappando i bottoni, i ganci, ogni cosa che faceva intoppo; e rivestitasi in fretta, aveva spinto coi piedi fuori della stanza quel mucchio di roba e di biancheria, quasi fosse stato un sudiciume da potere appestar l'aria.
Era rimasta tutta la giornata chiusa in camera, scusandosi con un'emicrania, senza voler vedere nessuno, neppure la sua bambina venuta a picchiar all'uscio colle manine, chiamando: - Mamma! Mamma! - Ed era rimasta lí, buttata sul letto, col volto affondato nei guanciali, al buio, smaniante di urlare forte, forte, forte, perché il marito lontano la sentisse, turandosi nello stesso tempo con le mani la bocca, per impedire che qualche grido non le sfuggisse mentre si sentiva soffocare.
E quando suo marito sarebbe tornato? Oh, non ci voleva pensare! Sarebbe morta, prima. Non si sentiva già morire? Ed era bene.
Al terrore di quel prossimo arrivo, all'idea di sentir sovrapporre ai baci maledetti i dolci e affettuosi baci di lui, brividi acuti le correvano per le ossa. Dio!... Non si sarebbe accorto subito?
Intanto ella, no, non poteva accusare, non doveva... Quell'infamia era cosí enorme, che nessuno l'avrebbe creduta, - Un fratello! - e meno di tutti suo marito... In certi momenti riusciva forse a prestarsi fede ella stessa? Non le pareva d'essere sotto l'incubo d'un cattivo sogno, mostruoso prodotto dell'immaginazione malata?... Ed era una realtà!
Sentendo che egli aspettava in salotto - aveva avuto la temerità di tornare e chiedere di parlarle! - tremante e convulsa era sbalzata dal letto, senza sapere quel che intendesse fare; e si era strascinata fin là, arrestandosi in mezzo all'uscio per appoggiarsi e non cadere. Egli le si era buttato ai piedi, soffocato dai singhiozzi:
- Perdonami, Teresa, perdonami!... Parto... Non ci vedremo piú... Ero pazzo!... Ho orrore di me... Perdonami... Ti ho amata... Da due anni... Mi ero allontanato di casa tua per questo... Perdonami!
- Andate via... Neppure Iddio può perdonarvi!... Andate via! -
Rantoli piú che parole, fremiti di odio, che ne rendevano irriconoscibile la voce.
- Teresa!... Risparmiamogli un inutile dolore... -
Non aveva soggiunto altro, implorando. Ed ella, nel vederlo andar via col passo malfermo d'un uomo a cui traballasse il terreno sotto i piedi, gli avea ripetuto: - Andate, andate!... - Maledizione, sputo di disprezzo, dove si riversava tutta l'ambascia del suo povero cuore avvelenato per sempre!

E al ritorno del marito?
Voleva essere forte, per non tradirsi con la menoma esitanza o col piú lieve movimento delle labbra e degli occhi... Perciò parlava spesso del ritorno del babbo alla bambina, tenendola sulle ginocchia, accarezzandola; quasi l'innocente creatura, incapace di mentire, dovesse poi, occorrendo, testimoniare in favore della mamma!... Ma stringendo al petto la figliuolina che le fissava in viso, un po' meravigliata, i begli occhi azzurri, e pareva tentasse di penetrarne, a quelle eccessive carezze, le nascoste intenzioni; come piú l'ora dell'annunziato ritorno si avvicinava, come piú il momento della terribile prova diventava imminente, ella si sentiva di giorno in giorno assai meno rassicurata, assai meno forte. E allorché il marito le scrisse che sarebbe stato trattenuto ancora una settimana dagli affari, respirò alleviata; senza curarsi che il ritardo prolungasse la tortura dell'incertezza, illudendosi di doversi sentire tanto piú coraggiosa e piú forte, quanto meglio si fosse preparata e assuefatta al terribile colpo di quell'incontro.
Si occupava soltanto di lui. Nel salottino, rinnovato da cima a fondo e che gli avrebbe procurato una sorpresa, le pareva di amarlo con maggior tenerezza, quasi con ineffabile pietà materna; giacché ora le accadeva di chiamar piú facilmente: «Figliuolo mio!» colui che, datole cuore, nome, agiatezza, e rimasto modello di marito innamorato della moglie, sapeva mettere nell'intima affezione coniugale tutte le delicatezze dell'affetto fraterno e l'alta devozione della vera amicizia. Si occupava soltanto di lui; voleva occuparsi unicamente di lui, anche per scacciar via l'immagine di quell'altro, del colpevole, che talvolta la faceva sobbalzare, pallida d'indignazione, come nel punto ch'egli le aveva balbettato ai piedi: «Perdonami, Teresa! Ti amavo, da due anni!»
Da due anni?... Ah!... Intendeva forse che ella doveva essersene già accorta?... E per ciò aveva supposto...? Le lagrime, che allora le sgorgavano dagli occhi, le bruciavano il viso:
- Miserabile!... Miserabile! -
E almeno aveva ancora la forza di sdegnarsi! E almeno poteva ancora buttargli in faccia, quasi fosse stato presente, quel feroce: «Miserabile!» che le scoppiava simile a un fulmine dalle labbra contratte.
Ma tosto che le parve di sentir dentro di sé un accenno, un preavviso di cui le sue stesse viscere inconsapevolmente provavano nausea; ma quella mattina, seguita a una mortale nottata d'insonnia, in cui l'accenno, il sospetto era divenuto certezza per lei, si era d'un colpo sentita annientare, quasi le sue membra avessero voluto sciogliersi, disgregarsi, disperdersi, per uccidere l'empio germe vitale da cui sarebbe accusata al marito, alla figlia, a tutti, spietatamente, inesorabilmente... Oh, Signore!... Era mai possibile? Quella mattina ella respinse in modo brusco anche la bambina che voleva saltarle al collo per darle il buon giorno. Sbalordita, atterrita, neppur capiva il significato delle parole che andava pronunziando interrottamente, ad alta voce, come una pazza, torcendosi le mani, appoggiata al letto colle gambe irrigidite, puntando i piedi sul tappeto.
Era mai possibile?... Oh, Signore!
Poi, si era sentita inattesamente tranquilla, con disperato abbandono alla fatalità dei casi umani e un lontano, quasi fanciullesco, luccicore di speranza...
- Dio, con un miracolo, Dio solo potrà salvarmi! -

Al rumore dei propri passi nell'oscurità silenziosa e vuota della chiesa, le era parso che qualcuno l'avesse inseguita fin dov'era corsa a chiedere consigli e conforti al vecchio confessore. Da due giorni la ragione le vacillava. Uno spaventevole suggerimento le brontolava insistentemente nell'orecchio; e non gli aveva dato ascolto per paura, per viltà, quantunque la morte le sembrasse liberazione e anche espiazione. Ma non sapeva, non poteva... Ora sarebbero stati due delitti in uno... No! No!
In un angolo, perduta nell'ombra, una donna in ginocchio e colla testa appoggiata alla balaustrata di marmo che chiudeva la cappella, pareva singhiozzasse pregando. A lei però non riusciva né di pregare, né di piangere; le lagrime le si erano disseccate dentro gli occhi. Ebete, simile a un accusato che paventi l'apparire del giudice da cui dovrà essere condannato, attendeva seduta che il vecchio confessore, già fatto avvisare, giungesse; e intanto si distraeva, guardando fisso quella figura di donna curva sul marmo della balaustrata, provandone una viva compassione. Quando colei, levatasi in piedi e pregato un istante col volto verso l'immagine dell'altare, - Madonna o santo, non si distingueva bene - era sparita via silenziosamente, simile a un fantasma doloroso, ella era rimasta sola, sopraffatta dal terrore di quella oscurità, di quel silenzio, di quelle statue biancheggianti nell'ombra, di quelle lampade agonizzanti nel misterioso fondo dell'abside... Ma n'era uscita consolata, alleggerita dal peso enorme che le schiacciava il petto, rassegnata a tutte le conseguenze del volere di Dio.
Una voce piena di dolcezza e di pietà le aveva detto: - No, tu non sarai rea, tacendo. Poiché la tua coscienza non può rimproverarsi niente, poiché hai trovato niente in fondo al tuo cuore da doverne chiedere perdono a quel Dio che legge i piú nascosti abissi dell'uomo; va, tu sei ancora pura e innocente anche al cospetto di tuo marito; e faresti molto male, e ne saresti responsabile innanzi agli uomini e innanzi a Dio, se ti lasciassi fuggir di bocca quel che ormai dovrà rimanere un triste segreto fra Dio e te! -
Che gentile carezza al viso l'aria fresca della via! Il cielo pallido ancora degli ultimi riflessi del crepuscolo, e lucente alto, fra i tetti nereggianti, con limpidezza profonda, come corrispondeva alla mite luce che le sorrideva nell'animo dal vero cielo della parola divina! E come sentivasi dolcemente stanca, in quella deliziosa convalescenza dello spirito, che la rendeva immemore e meravigliata di poter passare lieta anche lei, tra la gente lieta dei marciapiedi! E che fretta di trovarsi in casa per abbracciare la bambina! Da due giorni, povera creatura, doveva essere afflitta di vedersi cosí poco baciata e abbracciata!
Camminava svelta e leggiera. Tutto era finito; non ci era piú da temere. Il miracolo che doveva salvarla era dunque avvenuto?
Nell'avvicinarsi a casa, però, ecco qualcosa che le saliva, le saliva lentamente dal profondo del cuore; ed ecco di nuovo quel cieco terrore di cui le pareva d'essersi sbarazzata lassú, nella penombra e nel silenzio della chiesa, dietro la grata del confessionario.
Sí, avrebbe taciuto... Sí, avrebbe mentito... Ma se suo marito tardava ancora?
Accelerando sempre piú il passo di mano in mano che quel terrore riprendeva intero possesso di lei, era arrivata a piè della scala, ansante, con le ginocchia fiacche, peggio che se avesse fatto una gran corsa; e dovette reggersi al ferro della ringhiera per montar gli scalini, e poi fermarsi un momento dietro l'uscio per riaversi e ricomporsi prima di suonare il campanello.
La bambina le era venuta incontro saltellante, agitando il telegramma del babbo. Teresa lo aveva mezzo strappato per aprirlo; e lettolo, si era lasciata cascare sulla seggiola, trattenendo a stento le lagrime, coprendo di baci la testina bionda che le domandava:
- È del babbo? Verrà domani?
- Sí, sí, domani!... -
La gioia della bambina le dilaniava il cuore.
- Domani!

Forte della sua innocenza, durante l'interminabile nottata ella si era ripetuta una dietro l'altra, per fissarle meglio nel cuore, tutte le confortanti parole del vecchio sacerdote; e aveva invocato dal cielo il coraggio di risparmiare al marito l'immeritato strazio di quell'onta. Neppure la sua bambina doveva un giorno arrossire, quantunque a torto, della povera mamma! Dio certamente avrebbe impedito che quest'altra creatura, per la quale ella non avrebbe potuto mai avere viscere di madre - lo sentiva, mai! mai! - venisse viva alla luce.
Le ore scorrevano con tormentosa lentezza sul quadrante dell'orologio che ella osservava a intervalli; le pareva intanto che le sue preghiere, nella vasta calma della notte, dovevano piú facilmente arrivare lassú. E già si sentiva ascoltata, già si sentiva consolata di nuovo.
- Perché doveva repugnarle mentire? Non era per buon fine? Come facevano dunque quelle altre che mentivano a fronte alta, a cuor leggiero, tradendo? Infine... se non le fosse riuscito, se quegli per caso si fosse accorto... Ebbene, che poteva farci? Avrebbe parlato, avrebbe confessato... sí, sí! Era forse meglio... Soltanto le otto e mezzo? Altre otto ore di agonia! -
Si voltava e si rivoltava nel letto, tastandosi spesso la fronte che le bruciava, tentando invano di distrarsi, di non pensare; e brancicava furiosamente le lenzuola quando l'immagine di quell'altro, scacciata via o tenuta lontana un pezzo, tornava ad assalirla come un invasamento, parlando dal profondo delle viscere di lei; irridendola quasi col mandarle a traverso lo spazio, dall'oceano che egli forse in quel momento traversava, le infami parole: «Ti amavo! Da due anni!» Non avrebbe taciuto mai?
Era rimasta a letto fino a tardi, incapace di fare lo sforzo di levarsi, quasi, restando immobile, potesse anche ritardare la corsa del treno con cui suo marito tornava; poi s'era alzata tutt'a a un tratto, irrigidendosi contro ogni impressione capace di infiacchirle l'animo, improvvisamente risoluta di affrontare faccia a faccia il pericolo. Con la cipria rosea e colorandosi lievemente le labbra sbiadite, aveva scancellato dal volto qualunque traccia di pallore; e provava, come una attrice la parte da recitare, quel che avrebbe dovuto fare e quel che avrebbe dovuto dire all'arrivo di lui... Sarebbe stato un attimo, ma le tardava che già non fosse passato!
Perciò andò incontro al marito franca, sorridente, - col cuore, sí, un po' agitato, mordendosi le labbra - e gli stese le mani sicura; e non tremò tra le braccia di lui, e resistette all'impressione di quei caldi baci con l'alterezza della innocenza. Era commossa nel vederselo dinanzi gentile, buono, affettuoso, qual era partito; e si stupiva che il fingere e il mentire non costassero insomma maggiore sforzo. Soltanto quando il marito, alla vista della trasposizione e dei mutamenti da lei fatti nel salottino, le domandò perché non glien'avesse scritto mai niente, ella, con qualche imbarazzo e alzando le spalle, rispose:
- Capriccio. Non sdegnartene, Giulio -.
In verità n'era malcontento. Non gli pareva di ritrovarsi in casa propria; quasi avesse fatto uno sgombero egli che odiava gli sgomberi. Viveva da sette anni in quella casa. La sua felicità era nata e cresciuta là, in quelle stanze ariose, fra quei mobili che avevano veduto e sentito, quasi persone vive e di famiglia, tutto quel che piú intimamente lo interessava e gli era caro, sin dal primo giorno dopo il viaggio di nozze.
- Volevo farti una sorpresa - ella aggiunse, esitante...
Giulio sorrise. Infine, mobili e oggetti d'arte avevano solamente mutato di posto, dalle altre stanze nel nuovo salottino; e la loro disposizione era cosí gentile e intonata che poco dopo egli non provava piú il cattivo effetto della prima impressione. La bambina, arrampicataglisi su le ginocchia, lo accarezzava, lo baciava, aggrappata al collo, chiamandolo: - Babbino bello... Babbino caro. - Intanto, fra i baci e le carezze, egli osservava sua moglie:
- Sei un po' dimagrita...
- Ti pare?
- E un po' pallida. Non sei stata ammalata, spero.
- Ho avuto l'emicrania... -
Rispondeva tranquilla, senza abbassare gli occhi sotto quegli sguardi che la scrutavano, anzi interrogava alla sua volta:
- Tu però mi sembri pensieroso. Che hai?
- La partenza di Carlo...
- È partito?... Per dove?
- Come? Tu non sai?... Carlo è partito per l'America, improvvisamente. Non disse niente neppure a te?
Lo sforzo di fingere la rendeva quasi sincera. A quel nome, un leggiero brivido le era passato per la schiena; ma, subito rimessasi, ella mostrava di ascoltare con curiosità e meraviglia il marito che le raccontava l'improvvisa partenza del fratello.
- Risoluzione inesplicabile... Temo che qualche grosso affare non gli sia andato male... M'informerò, senza destar sospetti... Ne sono molto impressionato.
- Tornerà presto.
- Dice che non tornerà piú!...
Ella ebbe un senso di sollievo, e deviò il discorso.
- I tuoi affari vanno bene?
- Benissimo -.
La bambina, presa in quel punto una mano alla mamma e mettendola in quella del babbo, gli diceva ridendo:
- Non vedi?... La mamma vuol essere baciata anche lei!

Ogni apparenza era salva, ogni ragione di timore sparita; ella avrebbe potuto viver tranquilla, seppellendo nel piú profondo del petto quel terribile segreto, ed ecco che la sua tortura ricominciava piú atroce. Con la irritazione contro l'incestuosa creatura che le palpitava in seno e non le dava nessuna delle sofferenze provate nella prima gravidanza, Teresa era divenuta cosí nervosa, cosí eccitabile, che ogni insignificante contrarietà le produceva strani scoppi di stizza, seguiti spesso spesso da sfoghi di singhiozzi e di pianto.
- Ma che ti senti insomma? Sei malata - le ripeteva suo marito.
- Non dire cosí; è peggio! - rispondeva, piena di rabbia e di vergogna.
Una mattina che Giulio, turbato e tenendola per le mani, aveva insistito piú del solito perché parlasse, Teresa gli si era buttata al collo piangente, stringendolo forte, premendo con la faccia sulla spalla di lui.
- Non lo capisci? Tu sei malata...
- No! no!
E quasi gli aveva morso il collo, spaurita, sentendosi salire alle labbra la terribile rivelazione che la strozzava.
- No... No... È per la bambina... Ho il cuore grosso... Che so io?...
E gli era cascata quasi in convulsione tra le braccia. Giulio, spaventato, aveva mandato subito pel dottore. Il dottore, dopo poche interrogazioni e osservazioni, s'era messo a sorridere; e nell'andar via gli avea raccomandato:
- Bisogna che la signora stia molto calma. Le conseguenze d'un aborto potrebbero essere gravi -.
Ella era rimasta sdraiata sulla poltrona, con tale abbattimento di forze da non poter tenere nemmeno semiaperti gli occhi; e mentre il marito la confortava, lieto del male passeggero, pregandola di riguardarsi, giusta le raccomandazioni del dottore, lagrime silenziose le scorrevano sul bianco volto, e le mani ghiaccie le tremavano stringendo la mano di lui.
- Mi hai fatto paura! - egli le diceva, asciugandole la faccia, accarezzandola, dandole lievi baci sulla fronte... - Mi hai fatto paura, sai? -
Ma Teresa non rispondeva, immobile, sfinita; e pensava fisso a quell'aborto che sarebbe stato la sua salvezza, se fosse davvero avvenuto. E ruminando cattivi propositi contrariamente alle raccomandazioni del dottore, vedeva passare, quasi in sogno, una minuscola cassetta funebre portata via di nascosto da un uomo vestito di nero, come ben si addiceva alla trista cosa lí racchiusa... E le pareva che quell'uomo vestito di nero, con quella funebre cassetta sotto braccio, andasse, andasse, andasse... e si perdesse lontano, in una nebbia fitta, mentre le viscere dilaniate le doloravano ancora.
Non avveniva cosí. Il suo fragile corpo diveniva piú resistente e piú forte, il tormento dell'animo prendeva maggior vigore. E intanto non solo ella non si riguardava, ma commetteva imprudenze; s'affaticava, si stancava, si esponeva a serii pericoli, e senza approdare nulla! Cosí, di giorno in giorno, mentre il seno le si arrotondava con la piú benigna e piú sana gestazione che mai donna potesse desiderare, un odio sordo la invadeva contro quell'ostinato germe che voleva vivere per forza e crescere e venire alla luce...
E picchiando sul proprio seno, intendeva schiacciare il capo dell'invisibile nemico lí dentro nascosto, finché inorridita di quel soffio di pazzia che le aveva attraversato il cervello, non s'arrestava e non cadeva in ginocchio invocando il perdono di Dio, e dell'innocente creaturina.
- Era ingiusta. Non doveva risentire solo colei il peso dell'infamia altrui, né scontarne la pena! -

Poco dopo la bambina s'era ammalata gravemente. Teresa avea voluto restare notte e giorno al capezzale della inferma. Preghiere non erano valse, né minacce del marito per indurla a rimuoversi di là. Il rimorso le lacerava il cuore. Ella rammentava con spavento la vile menzogna:
- È per la bambina... Ho il cuore grosso... Che so io?...
E il ricordo di queste parole le si mutava in terribile rimprovero, quasi avesse buttata cosí una cattiva sorte addosso alla creaturina che ora smaniava nel letto riarsa dalla febbre, tra la vita e la morte...
- Oh, lei stessa la uccideva! La bambina avrebbe espiato, vittima pura, l'infame delitto di quell'uomo!... -
E credendo d'assistere all'agonia della creatura che era stata la sua gioia, la sua superbia di madre immacolata e felice, si sentiva intanto sussultar nel seno quell'altra con festoso anelare alla luce, con vivo senso d'allegrezza pel vicino sprigionamento. E presso il capezzale dove le pareva che l'alito freddo della morte gelasse il sudore sul viso sfigurito della sofferente, ecco il fantasma di colui - dello scomparso - che le si ripresentava dinanzi con umile aria di preghiera: «Ti amavo, da due anni. Per questo m'ero allontanato da casa tua!» Perché se lo sentiva cosí pertinace nell'orecchio? Perché il di lei pensiero vi si fissava dispettosamente, con una specie di sdegnosa compiacenza? E quando, Signore!, quando? Ora che la sua figliuolina era all'estremo, ora che ella avrebbe dato volentieri in olocausto la propria inutile e triste vita, pur di sviare il pericolo da quel capo diletto!
Il Signore era stato misericordioso; non le aveva preso la bambina! Teresa riviveva con lei. E al rifiorire del roseo colore sulle guancine dimagrite, le fioriva in cuore una nuova dolcezza di maternità, un senso di pace che neppure quei rapidi sussulti del seno riuscivano a turbare.
- La sua bambina era salva! -
Si sentiva felice; non odiava piú, con l'istessa intensità di prima, l'altra creatura che già si faceva sentire maggiormente col grave pondo e coi vaganti dolorini, preludi di un'altra fase di tortura...
Sí, di un'altra fase di tortura. La infelice non poteva pensare, senza raccapriccio, alla continua presenza di quell'insultante testimone della ignominia di lei, di quella menzogna, di quell'inganno vivente che sarebbe stato di continuo sotto i suoi occhi, e ch'ella non avrebbe mai potuto, mai!, tenere come sangue e carne sua!... E allorché il marito la rimproverava dolcemente, non vedendole preparar nulla pel prossimo arrivo del figliolino tanto desiderato - egli credeva con certezza che sarebbe stato un figliuolo - Teresa gli rispondeva:
- Chi sa quel che accadrà? -
Presentimento e mal augurio. S'era fissata nell'idea di dover morire soprapparto insieme con la creatura da nascere; e se ne rallegrava, provando pure un indefinito terrore di quel momento, e non per sé, ma per coloro che sarebbero rimasti, il marito e la bambina. E se la teneva stretta al seno per ore intere, accarezzandola, baciandola, quasi già fosse orfanella, dicendole cose strane che la bambina non capiva:
- Se me ne andassi?... Se non tornassi piú?
- Saresti cattiva.
- Non vorresti piú bene alla mamma?
- Dovresti portarmi con te.
- Oh, no, figliolina mia! -
La bambina, impressionata da questi discorsi, la denunciò al babbo:
- La mamma dice che se n'andrà, che non tornerà piú -.
Giulio impallidí. La persistenza di quel presentimento gli aveva dato nel cuore.
- La mamma è una sciocchina! - disse, tentando di scioglier la mano da quella di sua moglie.
Teresa lo trattenne.
- Hai ragione: sono una sciocca! -
Provava insolite tenerezze anche per lui. Spesso gli gettava le braccia al collo, guardandolo fisso negli occhi, muta, quasi per compensarlo; vergognosa di non poter essere sincera e di dover tacere, lei, lei che non gli aveva mai nascosto un sentimento, un pensiero, com'egli a lei!
E non potergli dir: «Taci!» quando le parlava del bambino che sarebbe stato il colmo della loro felicità coniugale! Ah, se egli avesse saputo!...
Giulio intanto progettava di dare il nome di Carlo al nascituro, per ricordo del fratello creduto morto da che non scriveva piú e non se n'era potuto aver notizia né dai consoli, né dalla legazione... Il mistero lo tormentava.
- Cosí buono! Di carattere un po' chiuso, un po' fantastico, ma docile nella stessa impetuosità. Qualche passione malaugurata! - rifletteva talvolta.
Ed ella tremava nel sentirglielo ripetere.
- A che stillarti il cervello? - gli rispondeva con durezza.
Ma si riprendeva subito:
- È tuo fratello; hai ragione... Al bambino però, se sarà un bambino, daremo il nome di tuo padre. Non ti pare piú giusto? -

Negli ultimi quattro mesi era frequentemente ritornata dal confessore, ogni volta che si era sentita a estremo di forze. E il marito, lasciandole pienissima libertà, la canzonava un pochino, senza cattive intenzioni, credente anche lui, quantunque troppo distratto dal rimescolio degli affari.
In quella chiesa dove tante volte aveva dato pienissimo sfogo al proprio cuore, ella trovava sempre il balsamo che le addolciva la piaga, e gliela rendeva sopportabile, se non riusciva a guarirla. Ribellioni, indignazioni, tetri propositi, tutto si ammansiva, si acchetava in lei alla voce consolante che le parlava in nome del Signore. Un'intima corrispondenza si stabiliva allora tra lei e Dio.
- Egli solo sapeva la verità!... Egli solo poteva giudicarla e compatirla! -
E, una o due volte, si era sorpresa con parole di preghiera, con invocazioni di perdono sulle labbra anche in favore di colui che le aveva fatto tanto male.
- Era morto? O espiava terribilmente il delitto di un istante?... -
Là, in chiesa, poteva pensarci senza che la coscienza le si rivoltasse, senza che un'ondata d'odio e d'orrore le si sollevasse nel petto.
- Dovete perdonare anche voi, figliuola mia! - le ripeteva il confessore. E dietro il confessionario, a piè dell'altare, le riusciva facile. Ma da lí a poco, in casa, ai primi sussulti del seno, non sapeva, non poteva piú!
In quell'ultima settimana, con la fissazione di dover presto morire, un senso piú vasto di pace e di serenità la penetrava tutta, una tenerezza di distacco e di rimpianto, che involgeva persone e cose e le gonfiava gli occhi di lagrime. Non ne parlava per non rattristare anticipatamente suo marito. Si sforzava anzi di mostrarsi allegra; e preparava il corredino, quantunque lo credesse inutile, e la sola vista di quelle fasce, di quei pannilini, di quelle camicette, di quelle cuffiettine le desse i brividi... Ma il suo Giulio n'era contento; voleva apparir contenta anche lei.
Acuti dolori l'avevano tormentata fin dalla mattina, senza che n'avesse detto niente al marito. La morte, invocata e aspettata, ora le metteva spavento; e le pareva di allontanarla con l'illudersi che quelli che la incalzavano, la incalzavano non fossero i dolori prenunzi del parto. Andava da una stanza all'altra, appoggiandosi alle pareti e ai mobili nelle strette che si rinnovavano sempre piú forti, intestata di avvertire il marito soltanto all'ultimo, quando non avrebbe piú potuto nascondergli le sofferenze. A un tratto aveva gridato:
- Giulio! Giulio! -
E gli s'era aggrappata al collo, baciandolo desolatamente con le labbra diacce:
- Giulio!... Muoio! Giulio!

Neppure allora era morta! Si tastava tutta, tastava le coperte del letto, per convincersi d'essere ancora in vita, per accertarsi che proprio suo marito accarezzasse e baciasse il bambino ignudo, vagente tra le mani della levatrice. Girava gli occhi attorno, stupita che il presentimento l'avesse ingannata; con tale confusione nella mente, e tal'indicibile prostrazione di forze da credere di sognare, o di vedere ogni cosa a traverso una nebbiolina leggera, in mezzo alla quale si muovevano silenziosamente le persone, mormorando parole a voce bassa e che ella non riusciva ad afferrare.
- Forse si muore in questo modo! - pensava.
Al destarsi dal sonno riparatore che l'aveva vinta, allo scorgere a piè del letto il marito in amorosa contemplazione del neonato, che riposava coperto d'un velo di tulle; al: - Come ti senti? - di Giulio, a cui dalla commozione e dalla gioia tremava la voce, ella lo fissò spalancando gli occhi, sorridendogli inconsapevolmente. Sentiva intanto dentro di sé un'oppressione non mai provata, uno strazio nuovo: la barbara violazione del cuore materno, che le rendeva repugnante la bella creaturina dormente lí accosto.
- Guardalo... Che bocciuolo di rosa! -
Giulio non si era contentato di sollevare il velo di tulle da una parte; ma, spinte le mani sotto il guanciale dove il piccino era adagiato, lo aveva deposto delicatamente a fianco della mamma, perché potesse ammirarlo, senza scomodarsi.
Ella si trasse un po' indietro e serrò gli occhi...
- Che hai, Teresa! Ti vien male?
- Allontana cotesto guanciale... Mi opprime il respiro... E questa coperta... -
Non era vero. Voleva soltanto, a ogni costo, evitar di baciare il piccino; avrebbe voluto, se fosse stato possibile, impedire egualmente che suo marito lo baciasse...
Quelle carni rosee non gli avrebbero dato alle labbra una sensazione rivelatrice?... A lei poi... sarebbe parso di baciare... Oh no... mai, quantunque il suo cuore di madre la invitasse intanto e la spingesse!... Avrebbe voluto, almeno, che qualche tregua si fosse stabilita tra la innocente creaturina e lei; ma nel tempo istesso che parte di lei cosí desiderava e voleva, l'altra parte, la piú orgogliosa, si tirava indietro, s'adontava di quel desiderio, si ribellava a quella volontà e cercava di paralizzarla! Voleva forse baciare...?
E restava là, cogli occhi serrati, inerte, sotto lo spasimo della chiusa tortura; pensando con terrore che finalmente, una volta o l'altra, doveva vincere la ripugnanza per non dar nell'occhio al marito. E inorridiva dell'inevitabile contatto che le avrebbe fatto risentire piú immediata la violenza patita.
La mattina che dinanzi al marito non poté fare a meno di baciare il figliolino prima di tentare di dargli la poppa, appena sfiorate con le labbra quelle carni delicate, Teresa gettò un urlo e cadde in deliquio.

Si era immaginata che dando il bambino a balia, avrebbe dovuto sentirsi alleviata, sollevata; invece era peggio. Giulio parlava continuamente del piccino. Ogni due o tre giorni le proponeva una scarrozzata fuori porta, fino alla cascina della balia. La figliuola, anche lei, rammentava in ogni istante il fratellino con cui avrebbe voluto già fare il chiasso insieme. Cosí l'odiata creaturina, quantunque lontana, riempiva la casa di sé piú che se fosse stata presente... E poi...
- Come?... Perché ora?... - ella si domandava, spaventata.
E poi, qualcosa di strano, di mostruoso cominciava ad avvenire dentro di lei...
- Come?... Perché ora?... Dio! Dio! -
Quell'altro, lo scomparso, tornava a poco a poco a farsi risentire, dimessamente al suo solito, supplichevole: «T'amavo! Da due anni!...»
- Come?... E lei, lei piú non se ne offendeva?... E lei stava ad ascoltare, mezza indignata, sí, ma pari a chi lascerebbesi forse commuovere, se colui avesse insistito? -
Ahimè! Nella solitudine in cui volentieri rimaneva per lunghe ore della giornata, il ripetio di quel: «Ti amavo!... Da due anni!» diveniva sempre piú insinuante e piú forte... E all'allucinazione del suono delle parole, s'univa quella della figura, alta, bruna, dal viso serio, dallo sguardo quasi severo e contenuto a stento... E qualcosa si ridestava in tutto il suo corpo con lento brulichio di sensazioni e di vibrazioni, qualcosa rimasto a germogliare nell'oscurità feconda, e che usciva fuori a un tratto, e si espandeva e fioriva... Questo le pareva piú abbietto della prima violazione del suo corpo...
- No! No! No! - protestava sdegnata, come in quel triste istante, in quella sera, - No! No! -
Inutile! «Ti amavo da due anni!» E lei non se n'era mai accorta!... Quanto avea dovuto soffrire colui! Che tormenti e che lotte, povero giovane! E si era esiliato per lei! E aveva abbandonato tutto... per lei... per espiare la colpa d'un istante! - ella pensava trasognata, quasi un'influenza esteriore le spingesse la povera mente verso quel punto e ve la tenesse fissata. E riscuotendosi tutt'a a un tratto, guardava attorno atterrita, feroce contro colui, riboccante di sprezzo di se stessa, con cosí tragico pallore sul viso, e sguardi cosí smarriti, che Giulio tornava a impensierirsi.
La gravidanza ora non c'entrava piú. Certe stranezze del carattere di sua moglie diventavano addirittura inesplicabili. Non la riconosceva!
Nei momenti, nei giorni ch'ella tentava di rifugiarsi in lui per vincere il tristo demone, egli la vedeva sempre agitata, eccessiva in quei baci ed abbracci piú da amante che da moglie, e affatto diversa da quella ch'era stata fin allora.
Poi, ella mostrò improvvisamente desiderio di lanciarsi fuori della cerchia intima e tranquilla che li aveva accolti tant'anni, ignari quasi ed ignorati, paghi e contenti della felicità di amarsi e di sentirsi amati fra le consapevoli pareti dove non giungeva nessun rumore della vita cittadina. E a quegli scatti di sensazioni, a quei capricci di passeggiate, di visite, di teatri, di feste, che lo meravigliavano assai, Giulio cominciò a temere che la gravidanza non avesse lasciato in lei qualche funesto germe d'esaltazione nervosa...
Il dottore, ripetutamente consultato senza che Teresa ne sapesse nulla, era stato d'ugual parere. Avevano fissato insieme un metodo di cura abilmente combinato: viaggi, bagni, regime ricostituente... Ed ella aveva subito acconsentito, lietissima... Capiva che già v'era qualcosa di guasto dentro di sé, di affievolito per lo meno. Lo stesso confessore non le consigliava di distrarsi, di fuggire la solitudine, perché in questa il demonio conduce meglio il suo scellerato lavoro di tentazione?
Era andata piú volte ad accusarsi, ingenuamente, chiedendo perdono a Dio della sua debolezza, implorando la forza di resistere; e confessore e dottore, quasi d'accordo, le ripetevano: - Si distragga!
- Ma che posso farci?... Il nemico è accovacciato qui, nel mio interno! -
Da un mese ella dormiva soltanto a brevi intervalli; poi le palpebre le si ritiravano in su.
Doveva svegliare ogni volta il marito? E il nemico la sopraffaceva.

Andati per vedere il bambino, avevano trovato la balia piangente.
- Signora mia, non vuol poppare.
- Da quando? - domandò Giulio.
- Da ier sera dopo le otto. Alle quattro aveva poppato benissimo -.
Giulio disse:
- Non è nulla... Riportiamolo in città -.
Fingeva di non essere turbato, per rassicurare Teresa che teneva fissi gli occhi su la culla dove il bambino, col viso pallido, i labbrini violacei semi aperti e le manine increspate, dormiva.
Che triste ritorno! Ella si era rovesciata in fondo al legno, muta, stringendo una mano di Giulio. La balia seduta dirimpetto, canticchiando sotto voce, cullava il piccino; e la bambina, su le ginocchia del babbo, stringendogli le braccia attorno al collo e appoggiandogli la testina alla spalla, ora guardava lui, ora la mamma, e non osava rompere il silenzio. Solo Giulio, che invece avrebbe voluto piangere, tanto aveva il cuore ingrossato, ripeteva di tratto in tratto, monotonamente:
- Non sarà nulla! Non sarà nulla! -
Alle prime parole della balia, Teresa aveva avuto un sussulto
- Se il bambino morisse! -
E il malvagio istintivo movimento era stato subito seguito da un senso di ribrezzo e di orrore. Poi, in casa, attorno al lettuccio del bambino, quando già si poteva leggere in viso al dottore il destino della povera creaturina, la brutale preoccupazione della propria salvezza aveva preso di nuovo il sopravvento, snaturata, senza pietà. Sentendosi quasi affogare, la infelice s'aggrappava a tutto. Pur di salvarsi lei, che doveva importarle degli altri?... Perciò s'irritava contro suo marito che, inconsolabile, forsennato, pregava, scongiurava il dottore con insistenza bambinesca, quasi lo credesse padrone della vita e della morte e capace di fare un miracolo!... Il maleficio le pareva legato a quel filo di esistenza che non voleva spegnersi, che non volevano lasciar spegnere... lui specialmente, suo marito!... Ed ella vibrava tutta, si sentiva tirare, strizzare tutta; vedeva fiammelle. E immediatamente, senza stacco, cadeva in grande prostrazione, mutata di punto in bianco, con le lagrime agli occhi per quella creaturina agonizzante; stupita che poco prima avesse potuto desiderare e affrettare coi voti l'empio scioglimento.
- Ma sí, ma sí!... Lo voleva! Aveva sofferto troppo!... Non resisteva piú! -
E vedendo il marito chino sul lettuccio, dolorosamente intento a spiare il mancante respiro del figliolino, si sentiva spinta ad afferrarlo per un braccio e strapparlo di là, e urlargli una terribile parola. Il sangue le affluiva al cervello, le martellava le tempia, un violentissimo tremito tornava a scoterle la persona.
- Giulio!... Giulio!... -
Voltandosi al grido sommesso, egli l'avea vista accostare cautamente, in punta di piedi, con gli sguardi smarriti e un dito sulle labbra.
- Lascialo andare, Giulio!... Lascialo andare!... -
E lo tirava via dolcemente, sorridendo triste, scuotendo la testa con movimento significativo...
- Teresa! Teresa mia! - balbettò Giulio, non comprendendo ancora tutta la sua sventura da quegli occhi smarriti, da quelle parole incoerenti.
- Lascialo andare... Ti vorrò piú bene... Vorrò bene a te solo. A te solo - ripeteva la misera pazza, tirandolo pel vestito: - A te solo! -

Sei mesi dopo, al ritorno della ragione, ella credeva di aver fatto un lungo sogno orrendo, e lo raccontava al marito, domandandogli a intervalli:
- Ho sognato, è vero?
- Sí, hai sognato - egli rispondeva fremendo. - Abbiamo sognato tutti! - soggiunse all'ultimo.
E pensava quasi con invidia al fratello che avea cessato di sognare, uccidendosi in Australia.

Roma, maggio 1889.



II

POVERO DOTTORE!



- Ebbene, trovala tu! - aveva risposto Lorenzo.
E un mese dopo suo padre, aiutato da un canonico amico di famiglia, scovava la ragazza in un paesetto vicino, a Niscemi.
- Figlia unica, bellina, educata bene, con discretissima dote... Vedrai. Sarai contento -.
Quella gioia del buon vecchio, che lo guardava con gli occhi luccicanti di tenerezza, intanto che si aggirava per la stanza fregandosi le mani, arzillo, meno curvo di prima, quasi il prossimo matrimonio del figliuolo gli avesse già levato una diecina di anni di su le spalle; quel «Vedrai. Sarai contento» pronunziato con accento commosso, era stato l'ultima spinta per Lorenzo che esitava.
A lui, studioso, amante della vita appartata e senza sopraccapi domestici, il celibato non dispiaceva punto; e la casa non gli pareva fredda e vuota come a suo padre. Don Giacomo invece, dopo la morte della moglie e della sorella, si credeva dimezzato, ridotto alle mani di una grullaccia di serva che faceva prendere il bruciaticcio al desinare e non spolverava mai, né levava mai un ragnatelo.
- Posso mandarla via? È cresciuta in casa... Mi sono già abituato a lei. Una persona nuova mi farebbe cattiva impressione...
- Lo sappiamo! Per questo si va a Niscemi - gli rispondeva il canonico, mentre la carrozza correva, sbalzando fra un nembo di polvere, per lo stradone. - È vero, dottore? -
Lorenzo, muto e pensieroso, accennava di sí col capo e continuava a fumare, guardando le colline che fuggivano dietro gli sportelli, e le pianticine selvatiche, e gli alberi bianchi di polvere fiancheggianti la strada, e che soffocavano a quel sole. Il paesaggio, stranamente cupo, gli riempiva il cuore di tristezza irrequieta.
Perché si era lasciato indurre? Perché?...

Ma appena vide la ragazza e passò un'ora in quel salotto rimesso a nuovo per l'occasione, seduto sul canapè con lei da un lato e don Paolino, il padre di lei, dall'altro; dopo la prima impressione, un po' sfavorevole, del futuro suocero, lungo, magro, nero come il pepe, con muso e occhietti da furetto, Lorenzo si sentí rassicurato. Quella figurina bionda e minutina che lo guardava sorridendo, ingenuamente curiosa, che lo interrogava e gli rispondeva quasi lo avesse conosciuto da gran tempo, e che diveniva piú rossa in viso s'egli le rivolgeva la parola, gli era riuscita subito una graditissima sorpresa.
- Non è mai stato a Niscemi?
- No.
- Che gliene sembra? Già, per lei abituato alle grandi città...
- Mi piace; è un bel posto -.
Ella parlava con dolcezza gentile, senz'affettazione, ritta sulla vita, cacciandosi indietro di tanto in tanto una ciocca di capelli che le ricadeva su la fronte, umettando spesso i labbrini rossi con un rapido movimento della lingua; assai piú bella ora che il color naturale ritornato lasciava scorgere tutta la delicatezza della bianca pelle della faccia.
Don Paolino volle che sua figlia cantasse qualche cosa: - La «Casta diva», la musica delle musiche!... Dico bene, eh? Musica delle musiche!
- Che idea!... Ma questi signori scapperanno via...
- Questi signori ti compatiranno. Lo sanno che non sei la Patti...
- Benedetto babbo!... Mi costringi a certe cattive figure!...
Invece Lorenzo era meravigliato, sentendole cantare squisitamente la bella romanza del Perrotta: «Sogno gentil, tu fuggi...»
- Brava! Brava davvero!
- Non mi canzoni, per giunta - rispose Concettina.
Il canonico e don Paolino parlavano di interessi, in disparte.
- Bisogna contare soltanto sulla dote materna. Per ora, non posso disfarmi di questo po' di miseria che mi basta appena per vivucchiare... Dopo morto, se rimarrà tuttavia qualche cencio... -
Il canonico scrollava il capo
- Sempre lo stesso!... Donnaiuolo! Non v'accorgete che siete vecchio? -
Don Giacomo intanto covava amorosamente con gli occhi il figliuolo e Concettina che ragionavano di musica e delle sorelle di carità presso le quali ella era stata educata. Non perdeva una parola, né un movimento di quelle due creature che gli parevano fatte proprio a posta l'una per l'altra. Se non fosse stato sconveniente, gli avrebbe detto: - Abbracciatevi! - tanto non capiva nella pelle.
- Ora mi resta soltanto vedermi ballare su le ginocchia un nipotino e sentirmi chiamare: «Nonno!» Dopo, farò posto agli altri... Me ne andrò col cuore in pace -.

Non finiva di parlare della nuorina:
- Un angelo! Mi pare mill'anni d'averla per casa cosí allegra e chiacchierina!
- Infatti, è un po' troppo vivace, - rispose Lorenzo, che era tornato piú volte a Niscemi e aveva passato parecchie giornate con la fidanzata.
- Meglio - lo interruppe il padre.
Lorenzo non osava contrariarlo; quella franchezza di maniere, però tanto insolita in una ragazza di provincia, lo rendeva perplesso. E quando Concettina diceva a don Paolino certe cose che una figliuola non avrebbe dovuto mai dire, Lorenzo diventava serio, si turbava.
- È ingenuità? È leggerezza di civettuola che vuole far colpo? È...
Non sapeva spiegarselo. In certi momenti arrivava fino a sospettare che dentro quella figurina apparentemente buona, sincera, gentile, si nascondesse un carattere un po' cattivo, un po' viziato; e aveva paura dell'avvenire. Massime quando la figurina gentile riprendeva il sopravvento, ed egli si sentiva a poco a poco legare come non credeva fosse possibile; massime quando un fremito di piacere gli correva rapidamente da capo a piè, pensando che fra non molto quella personcina bionda e delicata, quegli occhi di un meraviglioso azzurro cupo, quei labbrini cosí rossi che parevano dipinti col minio, sarebbero stati suoi, proprio suoi!
Quando era lontano, nel silenzio della sua camera o davanti i suoi libri, riflettendo, vedeva avvicinarsi con isgomento il tempo fissato per le nozze. E siccome, all'opposto, Concettina a ogni nuova visita di lui diventava sempre piú espansiva, Lorenzo non riusciva a persuadersi che tutto quell'affetto fosse realmente sentito; e si pentiva di essere stato troppo condiscendente col padre. Infatti il giorno ch'ella gli prese una mano e gliela strinse forte forte tra le sue, dicendogli: - Come ti voglio bene! Come ti voglio bene! - Lorenzo rimase un po' male, quantunque si sforzasse a sorriderle.
E un'altra sera fu peggio. Si trovavano sulla terrazza, al buio; egli stava per congedarsi:
- Passeranno due o tre settimane prima che io possa ritornare; gli ammalati mi chiamano...
- Ah! - esclamò Concettina.
E tutt'a a un tratto, gli buttò le braccia al collo: - Perché non mi hai dato mai un bacio? -
E lo baciò, tremante.
Lorenzo era tornato in Caltagirone mezzo stordito da quel bacio e da quelle parole pronunciate con vocina piena di lagrime:
- Che strana ragazza!... Non è la moglie che ci voleva per me... È troppo nervosa! -
E, l'ultima notte di scapolo passata nella cameretta dove aveva dormito fin da ragazzo, gli parve di sentir morire dolorosamente qualcosa d'intimo, la miglior parte di se stesso, la sua bella libertà di giovane solitario e studioso; e gli parve che il lettino, il tavolino ingombro di libri scientifici, i mobili, i quadri delle pareti, tutti gli ripetessero un malinconico addio con quei ricordi che dileguavano come scacciati via dalla vita nuova che cominciava per lui. Aperse la finestra su la città sepolta nel sonno, e fra il buio di quella notte senza stelle, alla dubbia luce dei fanali che agonizzavano in mezzo alla nebbia, provò una stretta al cuore.
- Perché si era lasciato indurre? Perché?... - Tornava a domandarselo con dispetto.

Il giorno delle nozze, il padre vedendolo triste e muto, prima che arrivassero gli invitati e mentre Concettina si abbigliava, gli domandò:
- Non ti senti bene?
- Benissimo.
- Insomma?
- L'emozione, forse!... -
E si sforzò di prendere un'aria allegra. Quel giorno fin Concettina gli pareva meno bella del solito, meno aggraziata, impacciata nel suo abito bianco a strascico, sotto il velo e la ghirlanda di fiori d'arancio.
Piú tardi però, quando fra l'ombra delle cortine del gran letto nuziale, sul candore dei guanciali vide quella bionda testina dagli occhi scintillanti, dalle labbra semiaperte a un sorriso, dalle gote di un incarnato cosí vivo che la bianca pelle pareva macchiata, ristette un momento a guardarla; poi si slanciò pel corsello, dalla parte di lei. Concettina, dando un gridino, si era coperto il volto con le mani, agitatissima da quell'ultima commozione di ragazza. Lorenzo gliele allontanò delicatamente - non facevano punto resistenza - e, agitato anche lui, lui che non credeva di amarla, lui che l'avea sposata soltanto per far piacere al babbo, l'andava baciando e ribaciando sulle labbra, ripetendole sottovoce
- Ti voglio bene! Ti voglio bene!
- Ah!... Ce n'è voluto per strapparti queste parole! Cattivo!... -
Ella lo rimproverava teneramente, mentre Lorenzo sorrideva soddisfatto, orgoglioso, rimescolato da un turbamento profondo e soave.
- Ti chiedo perdono, con questi baci... Mi perdoni?
- Sí, sí! -
E gli accarezzava la testa colle manine, passandogli le dita fra i capelli:
- Sí, sí!... Tu hai avuto ragione di essere un tantino diffidente; ci siamo conosciuti cosí poco!... E poi, tu eri felice da scapolo... Avevi molto da perdere sposandomi, e niente da guadagnare... Lasciamelo dire; è la verità. Ma io... io ti amavo anche prima di conoscerti, sin dal momento in cui seppi che, forse, saresti stato il mio liberatore... Soffrivo tanto con mio padre! Immensamente. Non puoi neanche immaginarlo... E quando ti vidi la prima volta...
Concettina s'interruppe accorgendosi che Lorenzo non la baciava piú e che anzi tentava di svincolarsi.
- Che hai?
- Niente. Parla, continua a parlare, - rispose Lorenzo con voce affiochita, dominandosi a stento. Aveva accostato l'orecchio a quel petto ansante, e premeva la guancia su la tela finissima della camicia che gli dava in quel punto una cattiva sensazione di cosa diaccia.
- Parla, parla!... Voglio ascoltare i battiti del tuo cuore... Lasciami sentire, direttamente, quanto mi vuoi bene... Lasciami sentire...
- Oh, Lorenzo!
E chiuse gli occhi, con soave abbandono di tutta la persona, quasi naufragasse in un mare di ineffabile dolcezza. Lorenzo continuava ad ascoltare, trattenendo il respiro:
- Oh, Dio!... Possibile?... Quei borbottii!... Quei gorgoglii dei polmoni!... No, non era possibile!...
- Spaventato dalla trista scoperta, non prestando fede ai propri sensi, si rizzò su la vita.
Allora Concettina riaprí gli occhi, stirando le braccia, quasi si destasse da lungo sonno.
- Hai avuto la risposta?... Sei contento? -
E sorrideva, mentre Lorenzo sentiva piegarsi le gambe sotto, e il letto, le cortine, la bionda testa di lei, tutto gli traballava attorno vertiginosamente.
- No, non può essere!... Me ne sarei accorto prima!... -
Fece uno sforzo e si chinò avidamente su lei, coprendola di baci corti e spessi, tenendo stretta fra le palme quella faccina un po' magra e affilata, che diventava bellissima sorridendo, come appunto allora, affondata nei guanciali, con gli occhi azzurri che sembravano due stelle, i dentini affacciati appena appena fra le labbra della bocchina piú stretta di un anello e che gli andava ripetendo:
- Hai avuto la risposta? Sei contento? -

- È stato un orribile sogno? Gli pareva; ma aveva paura di accertarsene, ora che sapeva di amarla, ora che era sicuro d'essere amato, ora che la intimità gli aveva fatto apprezzare il grande valore del tesoro posseduto... Vedendosela venire incontro nella terrazza, a braccio del suocero che voleva la sua parte, anche lui, della cara nuorina; vedendola fresca, rosea, allegra, Lorenzo trasalí dalla gioia:
- Chè! chè! È stata una sciocca allucinazione di dottore -.
E la prese per le mani.
- Geloso! - gli disse il padre, spingendogli Concettina fra le braccia. Ma ella si voltò ad abbracciare il suocero, ridendo come una bimba, saltellando:
- Lo faremo arrabbiare spesso cosí. È vero? -
A Caltagirone, la casa fredda e vuota, dove il povero vecchio si aggirava da parecchi anni come una mosca senza capo, gli parve piena a un tratto quando vi arrivò la nuorina; e gli parve tiepida, scaldata dall'affetto di que' due figliuoli che sembravano due innamorati non ancora sposini. I terrazzini vedovi e tristi si pararono, in poche settimane, di trofei di verde e di fiori: e tutte quelle stanze in fila, mesi addietro malinconiche e sciatte, coi mobili coperti di polvere e i cristalli appannati, schiacciate dalla desolazione del silenzio quasi mai interrotto, ripresero a sorridere meglio di una volta, con quella rondinina che andava lesta attorno, osservando tutto, badando a tutto, e che pareva avesse fatto ringiovanire la vecchia serva.
Pel salotto vibravano spesso le corde del pianoforte, specialmente quando Lorenzo, tornato dalle sue visite agli ammalati, andava a sdraiarsi su la poltrona fumando, con una gamba accavalciata all'altra, gli occhi socchiusi, intanto che Concettina canticchiava, volgendo la bionda testina per guardarlo e sorridergli, tutta inebbriata di musica. Lorenzo veniva riafferrato qualche volta dalle diffidenze, dai terrori dell'avvenire... Ed ecco, allora si consolava; la sua vita tranquilla, casalinga, studiosa non era mutata in niente, aveva anzi qualcosa di piú intimo, di piú elevato.
Concettina si sentiva pienamente felice:
- Sono entrata nel paradiso! -
E se le tornava in mente quel che aveva sofferto stando col padre - al tempo che questi le trascinava in casa, senza ritegno, senza rispetto per la sua dignità di ragazza, le donnacce che andava a scovare chi sa dove, e che gli mettevano a soqquadro ogni cosa e gli mangiavano gli occhi - ella scoteva nervosamente la testa, per fugare quei ricordi che le facevano male; contenta, nella tristezza, che il babbo fosse venuto a visitarla una o due volte soltanto:
- Ora è padrone di tirarsi dietro quante donnacce vuole, e profanare la camera dove è morta quella santa della mamma!... Ma non voglio pensarci! - Perciò le pareva che la sua salute, invece di peggiorare, rifiorisse.
- Ti senti bene? - le domandava qualche volta Lorenzo, agitato dal sospetto che tornava a morderlo di tanto in tanto.
- Benissimo - ella rispondeva. - Non sono mai stata cosí bene. E non era vero. Da qualche tempo in qua sentiva un malessere indefinibile e non osava, un po' per pudore, un po' per delicatezza, confessarlo al marito: fiacchezza per tutta la persona, difficoltà nel respirare e nel digerire; dolori qua e là nel petto; peso, affanno, durante la notte, che le impedivano di dormire.
- Non sarà niente! -
Si confortava cosí. Se suo marito la guardava fisso, con occhio scrutatore, allorquando il tristo sospetto gli si riaffacciava, ella si sforzava di apparire piú vegeta, piú allegra.
- Non sarà niente! - ripeteva da sé.

Una mattina però, dopo parecchie nottate insonni, non aveva potuto levarsi da letto. Lorenzo, uscito di casa per tempo, rientrava dalle visite ai suoi malati.
- Concettina è indisposta - gli disse don Giacomo.
E gli sorridevano gli occhi: il nipotino arrivava! Ma vedendo impallidire il figlio e cacciarsi le mani fra i capelli, rimase di sasso.
Don Giacomo, che non aveva osato entrare in camera della nuora, si aggirava dietro l'uscio, aspettando che Lorenzo venisse fuori.
- Che è, insomma? -
Lorenzo, lasciatosi cadere su la seggiola accanto al tavolino, col capo fra le mani, singhiozzava:
- La colpa è mia. Egoista! Sí, la colpa è mia -.
Non rispondeva altro a quel povero vecchio che piangeva con lui senza sapere perché. E quando, interrottamente, torcendosi le mani, poté accennargli qualcosa, don Giacomo tentò di dargli coraggio:
- Esageri. Faremo un consulto a Catania, a Napoli, se occorre... Perché desolarsi a questo modo? -
Finché Concettina non s'accorse della gravezza del male, non fu niente; i rimedi ordinati da Lorenzo le recarono qualche sollievo, ed ella tornò a sguizzare per la casa, gaia, leggera, quantunque un po' insospettita delle cure e dei riguardi che si vedeva prodigati; nervosa talvolta, e con accessi di tristezza che parevano strani fino a lei medesima.
Cantava piú spesso, per distrarsi; ma, la romanza del Perrotta da lei preferita, ricordo della prima visita di Lorenzo, ora la commuoveva fortemente, quasi sentisse cantarla da un'altra persona. Quelle note avevano mutato accento, espressione, significato; le parevano un lamento, un sospiro di anima in pena; e un giorno non poté arrivare alla fine:
- Mi fa male. Mi fa piangere.
- E tu non cantarla! - le disse Lorenzo, dolcemente. - Bisogna che tu stia tranquilla. Dovresti evitare qualunque scossa violenta. L'affaccendarti per casa come fai... -
Concettina, ancora vibrante di quella commozione, gli si era seduta sulle ginocchia e gli accarezzava la barba, guardandolo negli occhi, intanto che egli continuava:
- Sei troppo gracile... Questa che sarebbe soltanto una piccola indisposizione per un'altra, per te, capisci? Diventa quasi una cosa grave... Sí, sí -.
Ella negava, spingendo indietro la testa:
No, no. Mi credi malaticcia?...
- Non dico questo, ma...
- Vuoi saperlo? Le medicine devi serbarle pei tuoi malati. Io non ne prenderò piú! Mi curerò da me!... Mi credo dottoressa anch'io! Ecco; i miei rimedi sono questi baci... E questi altri qui -.
E lo baciava a riprese, cedendo tutt'a a un tratto alla smaniosa tenerezza che da una settimana la tormentava:
- Ti vorrei sempre al fianco, come in questo momento! Già odio quei cattivi dei malati che non guariscono mai, e ti rubano a me da mattina a sera... Non mi sembri piú mio -.

Nelle belle giornate primaverili, andavano a passeggiare alla villa comunale. Ella gli si stringeva al braccio fortemente, per sentir meglio e fargli sentire il contatto. Camminavano a passi lenti, parlando poco; si fermavano ad ammirare una pianticina fiorita, a guardare o ad ascoltare un cardellino che trillava dondolandosi sul ramo di una siepe; passavano in rivista le figurine in rilievo dei vasi di terra cotta, prezioso lavoro del Vaccaro.
Oh, voleva saturarsi di sole e d'aria pura fra tutto quel verde, lungo quei viali che salivano, scendevano, serpeggiavano, cosí deserti da fare pietà!
E tornati su, alla vista del paesaggio che si apriva lí davanti, con la pianura verde distesa laggiú, con l'Etna in fondo, e a destra quella fuga di colline nereggianti di uliveti, ella dilatava i polmoni, quantunque un respiro largo già le riuscisse penoso.
- Che bellezza! Non mi moverei mai piú di qui!... Ma tu dov'hai la testa? -
Che poteva risponderle? Doveva confessarle il martirio di seguire giorno per giorno, ora per ora, col suo sguardo di medico, i terribili progressi del male nel delicato organismo che non poteva opporgli resistenza? Doveva confessarle gli incessanti rimorsi che lo straziavano perché lui, dottore, lo aveva trascurato sin dal primo giorno?...
- Per egoismo! Cosa imperdonabile. Vero delitto! -
Ed ecco che le carezze, i baci e gli abbracci, le intense gioie di innamorati alle quali si erano abbandonati spensieratamente, gioiosamente, come se egli, l'egoista! avesse ignorato che la povera creatura doveva piú prestamente restarne infranta, ecco, gli si mutavano tutti in angosce, in dilaniamenti...
- Me li merito! Merito anche peggio! -
In certi momenti però, vinto dalla stanchezza di quella lunga dissimulazione, tentava d'illudersi:
- La natura fa talvolta miracoli che stupiscono gli scienziati. Chi sa?... -
E osava sperare. Ma una notte Concettina lo svegliò con un grido
- Lorenzo! Lorenzo! -
E al vederla seduta sul letto, co' capelli sciolti, atterrita dallo sbocco di sangue rosseggiante sul guanciale, Lorenzo non sperò piú.
Allora, per la prima volta, anche Concettina capí chiaramente di che si trattava. E gli si aggrappò al collo, piangente, con gli occhi smarriti dal terrore:
- Lorenzo mio, dammi aiuto. Non voglio morire!
- Non è niente - le ripeteva Lorenzo.
Ma ella leggeva la sua sentenza in quegli sguardi desolati, in quel volto terreo e contratto dallo spasimo interno.
- Mia madre è morta di questo male... Dovrò morire cosí anch'io? Oh, no, non voglio morire!... Sono felice, Lorenzo mio. Non voglio morire! - esclamava, straziante.

Una tristezza quasi di lutto si addensò nella casa. Lorenzo, il povero vecchio di suo padre e la serva, istupiditi da quel silenzio pauroso, parevano tre ombre, tre anime del purgatorio raggirantisi per un luogo di pena.
- Chi l'avrebbe sospettato? - smaniava don Giacomo. - Quel fior di salute! E l'ho costretto io a sposare costei! Ma come sospettare? -
Concettina se ne stava in camera, rannicchiata nella poltrona tenendo socchiusi gli occhi, tossendo, ansimando, arsa dalla febbre che ormai non la lasciava piú, estenuata da sudorini ghiacci che le imperlavano la fronte bianca come cera, e si osservava continuamente le manine scarne. Voleva Lorenzo sempre accanto, agitata da terribile gelosia dell'avvenire, quand'ella non sarebbe stata piú là, come la sua povera mamma... E perciò voleva portarselo con sé, per continuare ad amarlo ed esserne amata nella tomba, nell'altra vita, eternamente.
- Baciami! Baciami! - gli diceva a ogni momento.
Lorenzo esitava: quella continua eccitazione dei nervi agevolava la potenza del male.
- Hai paura?... Ti faccio schifo?... - strillava Concettina, con voce strozzata da un gruppo di pianto.
- Vuoi ucciderti, per forza? - balbettava l'infelice.
Ella gli s'attaccava alle labbra con labbra scolorite e febbrili, stringendogli attorno al collo i braccini stecchiti: ed erano baci caldi, violenti, interminabili; cosí intendeva inoculare il proprio male al marito. La notte, se lo teneva abbracciato stretto stretto, fiato contro fiato, per compenetrarlo con la febbre che la struggeva, con quel sudore mortale che le agghiacciava il corpo e ch'ella voleva assolutamente fosse mortale anche per lui. E se Lorenzo resisteva a quei capricci di malata, ella dava in istrilli, in pianti, cadeva in crisi nervose che lo atterrivano, quasi dovesse spirargli allora allora tra le braccia.
In quei momenti era spietata:
- Ah, tu non m'ami piú!... Sei stanco di me... Me ne accorgo -.
Lorenzo la supplicava a mani giunte e con le lagrime agli occhi.
- Sí, me n'accorgo. Ti son diventata insopportabile. Ti par mill'anni di liberarti di questo cadavere... Mi odii, forse...
- Concettina!
- Non puoi ingannarmi; ti leggo nell'anima. Che infamia! Ti ho adorato piú di Dio; ti ho dato tutta la mia vita, tutta; muoio... di amore... per te; e tu intanto!... Ingrato! Ingrato!... E portava alla faccia sbiancata e macilente le scarne mani, scotendo desolatamente il capo, finché non veniva presa da un colpo di tosse che le facea perdere il respiro e la lasciava abbattuta, sfinita, tra i guanciali che la sorreggevano da ogni lato. Lorenzo, ginocchioni, piú pallido di lei, tentava di farle ingoiare un cucchiaio di calmante:
- Per amor mio, per amore di te stessa! Vuoi proprio ucciderti con questi eccessi? -
Vedendoselo ai piedi; sentendo quella voce piena di angoscia e che le rimescolava il cuore, ella si rizzava, e lo guardava, lo guardava, vinta da pietà di donna innamorata, capace di qualunque sacrificio.
- Perdonami, - gli diceva, - perdonami!... No, non toccarmi, non baciarmi. Sono appestata; allontanati!... Tu devi vivere... Vivi. Lasciami morire qui, abbandonata. Mi basterà vederti, sentirti parlare... Dimmi però che mi vuoi bene ancora, come prima. Proprio come prima?...
- Anche piú!
- Allora... giurami che quando sarò morta tu non amerai nessun'altra donna.
- Te lo giuro.
-... Che seguiterai a dormire in questa camera, in quel letto, con quella stessa biancheria...
- Te lo giuro!
- Ah, se tu mentissi!... Vieni, fatti piú accosto... Dammi un bacio, uno solo! Sono diventata brutta, lo so senz'essermi vista allo specchio... Ma ti voglio tanto bene! Tu sei mio, è vero, Lorenzo?
- Tutto tuo, anima e corpo.
- Ripetilo, ripetilo.
- Tutto tuo, anima e corpo.
- Grazie. Come mi fanno bene queste parole!... Ah, se potessi risanare! Ah, se potessi almeno continuare a vivere in questo stato, a costo di penare il doppio, venti, cento volte piú!
- Guarirai; ogni speranza non è perduta. Senza questi terrori, senza questi eccessi...
- Sarò buona, starò tranquilla; vedrai. Ti ubbidirò come una cagnolina... Lasciati baciare... Non ti faccio ribrezzo, è vero? No. Stringimi forte al cuore... -

Queste tregue duravano appena un giorno, qualche volta soltanto poche ore; poi la fissazione la riprendeva. Fra il bianco delle pareti, alla luce del giorno che penetrava dalle ampie vetrate con tutti gli splendori del maggio, in quel silenzio di ore ed ore, interrotto soltanto dal sommesso rammarichio di lei o dagli schianti di tosse che, di tratto in tratto, pareva dovessero soffocarla; quella figura squallida, da gli occhi infossati e diventati piú grandi nel volto rimpicciolito, dai capelli spettinati che conservavano tuttavia i loro bagliori di oro filato, affondata fra i guanciali nella poltrona, perché a letto non ci voleva piú stare, oh!, era spettacolo pietosissimo.
Lorenzo non doveva muoversi dalla camera dove ella non voleva vedere altri visi, neppure quello del suocero. Già invecchiato, quasi tutto incanutito durante quei terribili mesi, il povero Lorenzo non si riconosceva piú. Ed ella se lo divorava, silenziosa, con sguardi lampeggianti di fascino maligno. Voleva portarselo via con sé; voleva rapirlo a quell'altra che forse attendeva impaziente di gettarglisi tra le braccia, piena di salute, bella, amante e trionfante, tale da scancellargli dalla memoria ogni traccia di lei. No, colei non lo avrebbe avuto. Non lo avrebbe avuto! Se ne sarebbero andati assieme, abbracciati nella morte come nella vita. Suo era, e colei non lo avrebbe avuto, no, no!
E per non lasciarselo sfuggire, per paura che il male non gli si fosse attaccato abbastanza, tornava a baciarlo, a ribaciarlo, su la bocca, su le gote, sul collo, sugli occhi, sui capelli; talvolta lo mordeva, con furore di belva...
- Ah!... Ti ho fatto male?... -
E subito lo baciava dove lo aveva morso, per attutirgli il dolore. Intanto egli doveva asciugarsi il viso coi fazzoletti tutti impregnati del sudore di lei; intanto doveva bere nello stesso bicchiere, dal lato dov'ella avea accostato le labbra... No; non volea lasciare la sua cara preda a quell'altra!
Infatti Lorenzo che davvero si sentiva morire a poco a poco, ora le si avvicinava con indefinito terrore superstizioso, pensando
- I miei presentimenti, ecco, si avverano! -
L'attesa della catastrofe, inevitabile, lo teneva invasato. E il giorno ch'ella gli disse: - Mi sento meglio - Lorenzo le prestò fede, tanto aveva bisogno d'illudersi.
- Mi sento bene, quasi guarita improvvisamente. È effetto di questa bella giornata? Di questo sole? -
Ridiventata buona, gentile, affettuosa come nei primi giorni, scherzava anche intorno alla sua malattia:
- Alla fine vinco io...? Doveva essere cosí! Ho una gran forza dalla mia parte: l'amore!
- Ne hai un'altra: la gioventú -.
E ne risero insieme.
Quel giorno Concettina volle rivedere il povero don Giacomo, e gli chiese perdono di essere stata cattiva con lui: - Quando si è malati non si ha coscienza di quel che si fa. Oggi che sto meglio, vede? -
Don Giacomo però non fu ingannato dall'apparenza:
- Ahimè! La lucerna dà gli ultimi guizzi. Bisogna chiamare il prete, se pur si fa a tempo! -

A un tratto, ella si sentí mancare; il debole filo che la teneva attaccata alla vita stava già per spezzarsi. Si abbandonò su la poltrona, guardando Lorenzo con sguardi d'invidia feroce:
- Egli restava?... Non andava via con lei? - Gli accennò, col capo:
- Senti: spingi la poltrona verso il terrazzino; apri la imposta; voglio vedere la città e la campagna, per l'ultima volta... Affrettati... Affrettati... -
Lorenzo ubbidí, macchinalmente.
- Guarda quel campanile... -
Lorenzo guardava, sbalordito.
- Ricordati che lo hai veduto l'ultima volta con me... E quelle colline... quegli alberi!... Ricordati, ricordati... che prima di morire li abbiamo guardati insieme... e che io ti ho detto: «Guarda, guarda!...» E quei pini di Santa Maria di Gesú... lí a manca... dove spesso siamo andati a passeggiare, ricordati!... Ricordati!... -
Lorenzo, trasognato, rispondeva di sí con la voce e col capo. Quel campanile, quelle colline, quegli alberi, quei pini di Santa Maria di Gesú se li sentiva imprimere negli occhi quasi per una malía che lo invadeva... Non avrebbe piú veduto altro che quelli!... Sempre!... Sempre!... Sempre!...
E Concettina, attiratolo al petto con sforzo supremo, cercando le labbra di lui che la reggeva per la vita:
- Muori con me!... Muori con me!... - balbettava.

Roma, novembre 1882.



III

RAFFINATEZZA



Renato la guardava sorridendo, tra incredulo e meravigliato, intanto ch'ella, a occhi bassi, mordendosi lievemente le labbra, apriva e chiudeva il ventaglio, quasi mortificata del silenzio di lui. Alla viva luce del sole, tra i riflessi verdi del prato, quella bruna carnagione prendeva toni dorati sulle guance e nella dolce attaccatura della gola; e i grandi occhi nerissimi, su quel viso scarno e strano, davano un'espressione piú provocante al nasino un po' rivolto in su e alle labbra tumide e fresche, che si chiazzavano di macchioline bianche sotto la irrequieta pressione dei dentini.
Ella sentiva, senza vederli, quegli sguardi che la ricercavano tutta; e la personcina alta e minuta si agitava impaziente, oppressa da tale insistenza. Finalmente alzò gli occhi, timida...
- Non mi crede?...
- Ma, sí... Ma, sí!...
- Perché dunque sorride cosí? Già il torto è mio... Avrei dovuto avvertirla subito... prima di accettare l'invito... -
E nella voce turbata le tremolava qualcosa che pareva pianto.
Allora Renato non sorrise piú, impacciato alla sua volta. Le prese una mano, si mise carezzevolmente sotto il braccio quel braccino magro, serrato nella manica attillata del vestito nero; e, riprendendo a passeggiare, le andava parlando all'orecchio, tra uno sbuffo di fumo e l'altro della sua sigaretta:
- Oh, non insisto piú!... Torneremo, non occorre neppur dirlo, torneremo però qualche altra volta alla Cagnola... a passare insieme una mezza giornata... No?
- A che scopo? Ecco, questo significa che lei non mi ha creduto. Perché si ostina a non credermi?...
- Al contrario! Certe cose non si discutono; si aspettano, si lasciano venire al momento opportuno, è vero? E se non arrivano... Intanto, per oggi, mi sento compensato abbastanza da questa dolce passeggiata da innamorati. La gente (ahimè, a torto!) deve crederci proprio due innamorati. Infatti, vede?, quell'uomo fermato sotto gli alberi sta a guardarci da un pezzo, masticando la sua invidia insieme col mozzicone di sigaro che non vuole accendersi -.
E voltando il capo, ella rideva a scossettine portando la punta del ventaglio alle labbra, piegando un po' il busto slanciato; rideva, ma quasi per tentar di distrarsi da riflessioni penose che le esitavano ancora sul volto.
Quell'uomo fermato sotto gli alberi, dopo averli seguiti con lo sguardo lungo il sentiero del prato, era andato a sedersi dirimpetto a loro, divorandoseli con certi occhi sgranati, dal tavolino dove mangiava solo, col tovagliolo appiccato al colletto. Luigia e Renato, a metà di pranzo, messisi di buon umore, gli ridevano quasi in faccia, facendolo arrossire coll'imboccarsi a vicenda pezzettini di fritto o di arrosto, se colui si fermava a guardarli piú balordamente incantato.
- Intanto non mangia proprio niente.
- Mangio poco. E non è il miglior modo per ingrassare.
- Ah!... Tu lo vuoi? - disse a un tratto Renato, che non ne poteva piú di quell'imbecille. E, alzatosi da sedere, diede un bel bacio a Luigia che non ebbe tempo di schermirsi.
Per istrada, nell'oscurità della notte, mentre il tranvai a vapore si allontanava gettando rapidi spruzzi di luce rossastra su le siepi e su i campi, essi ridevano ancora del viso sbalordito di quel povero imbecille allorché avea visto quel bacio. Poi, nella intimità del ritorno a piedi, stringendo il braccio di Renato con abbandono, incoraggiata dal buio, ella era tornata a scusarsi.
- Non ci faccio una bella figura, lo capisco. Ma..., infine, non ho voluto mostrarmi piú virtuosa che non sono. Però voi uomini non potete capirlo. È altra cosa per voi... -
Renato la lasciava dire, accarezzandole una manina. L'accento sbiaditamente veneziano dava un fascino deliziosissimo a quella facile parola che risuonava nell'oscurità, fra il lieve stropiccio dei piedi sulle foglie secche del viale, e andava a perdersi nel gran silenzio della campagna cosí pieno di vaghi rumori. Renato la lasciava dire, non ancora ben persuaso; anzi acceso e smanioso del possesso di quella magrolina assai piú ora, che non quando l'aveva adocchiata al terrazzino del secondo piano della casa accanto, raccolta nella veste da camera di tela cruda, larga e ondeggiante, col braccio che usciva ignudo dalla manica rovesciata, poggiato col gomito su la ringhiera; braccio magro, coperto da peluria che dava un tono quasi bronzino alla pelle bruna. La lasciava dire non ancora ben persuaso, ma nello stesso tempo, per raffinatezza di scapolo, contento di quella resistenza cosí inattesa e cosí franca. Era piccante! Ah, la bella bruttina, come aveva già cominciato a chiamarla, diventava qualcosa di ghiotto fra la trivialità dei soliti incontri! E per ciò, quasi senza accorgersene, quando furono vicini a casa tornò a insistere, scherzando:
- Chiedo soltanto il favore di dar un'occhiatina al suo nidicino del secondo piano...
- È impossibile. Non vuol persuadersene?
- Soltanto un'occhiatina, per figurarmela nel suo vero ambiente quando la sento canticchiare con vocina di falsetto... Non vuol permettere neppur questo? Allora venga a bere un bicchierino di Kümmel o di Chartreuse a casa mia, qui, a due passi... Non è un gran sacrifizio.
- Impossibile!... -
Ella lo supplicava con gli occhi improvvisamente gonfi di lagrime, stringendogli forte la mano, alla luce del lampione sotto cui s'erano fermati:
- Non mi offendo di quest'insistenza. È cosa naturalissima. Il torto è mio -.
Renato la interruppe: - Buona notte.
- È in collera?
- Niente affatto -.
Il tono brusco della voce però lo smentiva.

Il fascino di quella svelta personcina, dai grandi occhi neri nel viso magro, era stato piú forte della stizza. E cosí egli s'era lasciato riprendere, indolentemente. Promise, da gentiluomo, che non ne avrebbe piú riparlato, ed ebbe l'onestà di confessarle che una relazione seria, com'ella desiderava, non era possibile.
- Ci vedremo frequentemente, da camerati, da giovinotti... Eh? -
Ella non rispose né sí, né no, esitante
- Ho paura di annoiarlo... -
Invece, Renato era tutto contento quando la vedeva entrare improvvisamente in quella camera di scapolo ch'ella irraggiava dei suoi sorrisi, faceva echeggiare delle sue risatine somiglianti a gorgheggi, e che riempiva e agitava con gentile irrequietezza di ragazza nervosa.
Intanto ch'egli preparava la solita tazza di caffè, Luigia andava da un tavolino all'altro rovistando libri, disegni, svolgendo grosse pagine di album.
- Tutte queste belle donnine sono state sue amanti? -
Renato non rispondeva, affettando discrezione.
- Tanto a me può dirlo. Non ho nessuna ragione di essere gelosa. Come sono belle! Ah, l'esser bella dev'essere una grande soddisfazione! Se io fossi bella, come questa qui per esempio, farei disperare parecchia gente, parecchia!
- È cosí cattiva?
- No: ma la bellezza è una forza -.
Renato le assicurò ch'ella aveva qualcosa di meglio della bellezza, quel che di attraente, di simpatico che spesso la bellezza non ha.
- So benissimo che sono brutta, ma so pure che non sono antipatica... Questo cappello alla Rubens, con questa gran piuma, mi dà un'aria bizzarra... Sciocca! Lo dico da me!...
E scoppiò a ridere voltando le spalle, con una smorfietta, allo specchio davanti a cui si era fermata per provarsi il cappello.
- Capelli pochi e cortini. Che disperazione! E cosí ribelli! Non c'è pettine che riesca a domarli. Già, mi ci confondo poco. Ho ben altro da fare!... Che delizia questa camera cosí grande e cosí piena di luce. La mia è un bugigattolo da aggirarvisi appena. Mi è cara però; è piena di ricordi!
-... Dolci?
- Tristissimi. Quante lagrime, quante sofferenze, quando riarsa e stroncata dalla febbre dovevo lavorare tutto il giorno, per settimane, per mesi, rompendomi la schiena, sostentandomi di solo pane!... Non voglio neppur rammentarmelo!...
- E ora?
- Ora? Vivucchio, lavorando sempre, orgogliosa di non essermi mai avvilita. Piuttosto un tonfo nel naviglio. C'è mancato poco, un mese fa! Qualche volta ci ripenso sul serio... Infine!...
Quegli occhioni neri prendevano un'espressione indefinibile, allorché ella parlava di morire. Ne ragionava tranquillamente, senza affettazione, come di cosa da dover accadere un giorno o l'altro, quando si è tanto disgraziati a questo mondo, quando non si ha neppure un cane che ci voglia bene o che ci sia legato da un legame qualunque!
Sua madre era morta. Suo padre... Un giorno (non poteva dimenticarlo, aveva appena sette anni) un'amica della mamma che la conduceva a spasso, le aveva additato un signore alto, bruno, bell'uomo, che entrava in un caffè. - Va', digli: babbo, dammi un bacio! - Ed era entrata in quel caffè e s'era accostata a quell'uomo veduto allora per la prima volta e gli aveva detto, tremando: - Babbo, dammi un bacio. - Quel signore, baciatala, accarezzatala e compratele delle chicche, le aveva detto: - Va' va'! - E non lo aveva piú riveduto. E non ne aveva piú saputo notizia!...
- Ma perché le racconto queste malinconie? Addio, addio... Scappo.
- Senza pagar nulla?... -
Renato se la fece sedere sui ginocchi, vincendone la riluttanza
- Voglio il mio obolo, il mio solito bacio...
- Mi lasci andare!... -
E quando la Luigia non fu piú lí, egli rimase pensoso, sotto un'impressione che non sapeva spiegarsi, affatto nuova per lui. Era strano. Quel corpicino magro non lo turbava piú. La viva sensazione di quei baci era già diventata qualcosa di puro, di spirituale. Gli pareva quasi impossibile. E come lo metteva di buon umore ogni visita della bella bruttina! Sotto quell'apparente allegria però, chi sa quali e quanti dolori!
Infatti, in certi giorni, lo sforzo della poverina era troppo evidente. Quegli occhi avevano pianto; quel pallore, che il suo solito sorriso non riusciva a velare, raccontava miserie ch'ella nascondeva pudicamente e altieramente in fondo al cuore.
Renato la prendeva tra le braccia, con aria di scherzo: - Via, confessati all'amico, al camerata. Se ti occorresse, per caso, qualche sommettina.
- No, no, grazie; in verità, non mi occorre niente. Com'è buono! -
Intenerita, gli stringeva tutte e due le mani ripetendo: - No, no, grazie! - con voce turbata.
- Se mai, ecco, le prometto che ricorrerò a lei, piuttosto che ad altra persona. Ma spero che non avvenga. Ci mancherebbe solo questo! Pur troppo, io abuso della sua gentilezza, da vera sfacciata... No, no, grazie! Grazie! -
Renato non insistette per delicatezza. E da quel giorno in poi, la invitò a pranzo piú frequentemente.
Luigia, però, aveva capito subito; e due o tre volte aveva rifiutato, col pretesto di un precedente invito di un'amica. Ma egli, rimasto a spiarla, l'aveva vista rimanere in casa fino a sera tardi; e il lume s'era spento presto dietro i cristalli della cameretta al secondo piano. E quella sera Renato non aveva avuto voglia di desinare neppur lui, pensando alla poverina che forse era andata a letto senza aver messo niente dentro lo stomaco.

Si trovavano quasi tutte le sere, alle otto precise, all'angolo di via Larga, come due amanti. Ella gli andava incontro sorridente, infilandosi un guanto, frettolosa:
- L'ho fatto aspettar troppo? E, presisi a braccetto, passeggiavano per le vie fuori mano, lentamente, fermandosi davanti le vetrine. Ella gli raccontava minutamente le sue occupazioni della giornata; Renato la interrogava intorno al passato, in modo però da non sembrare indiscreto...
- Oh, non posso piú avere segreti per lei! - ella rispondeva.
Quella sera erano andati a rannicchiarsi in un angolo del caffè Gnocchi, presso il teatro Dal Verme, caffè mezzo deserto. E Luigia aveva parlato, per ore, squisitamente, con abilità di narratrice che lo stupiva, facendogli sfilare sotto gli occhi i ricordi della lieta fanciullezza e della triste gioventú, passata fra i riflessi verdastri della Laguna, quando sua madre viveva ancora...
- Bella mia madre! Non le somiglio affatto -.
E avea continuato, appoggiando l'espressiva testina bruna sul rosso della spalliera di velluto, accostandosi a Renato con piú intimità, quando venne il momento di parlare di... quell'altro.
- Fuggita con lui dalla casa della zia, andammo a Padova, poi a Milano... Sin dai primi mesi, egli fu costretto a lasciarmi sola, per via degli affari. Prima mi scriveva spesso; poi, a lunghi intervalli; poi non mi scriveva piú. Arrivava e partiva all'improvviso, facendomi anche soffrire... Mi bastava cosí poco, che anche di quel nulla sarei vissuta contenta. Una sera, in un ballo, apersi gli occhi!... C'era un'altra di mezzo. Il sangue mi diè un tuffo. Mi sentii impazzire, e le allungai uno schiaffo, in mezzo al ballo, all'improvviso. Fui eccessiva, si. Ma, dopo, non mi umiliai? Non gli chiesi perdono? Gli volevo bene a quell'uomo... Gli volevo bene davvero!
Eran tornati a casa silenziosi, affrettando il passo.
- Forse ho fatto male, raccontandole la mia brutta storia.
- Anzi, te ne sono gratissimo, proprio.
- Non lo dice per cortesia?
E per la prima volta, nel separarsi, gli tese le labbra col piú strano dei sorrisi di quel suo stranissimo viso di bella bruttina. Quel viso pareva livido sotto il pallore.

Una mattina Renato le annunziò:
- Vado via, per qualche tempo -.
Luigia era rimasta senza parola, interrogandolo con incredulo sguardo...
- Dice per chiasso?
- Oh, dispiace anche a me, tanto! Ma ti scriverò spesso. Puoi esser sicura che, vicino o lontano, sarò sempre amico affezionato e sincero.
- Quando? - ella domandò dopo un momento di silenzio.
- Fra una settimana.
- Ah!
I suoi occhioni neri s'erano dilatati dall'allegrezza:
- Avevo creduto che partisse subito. Fra una settimana? Passerà presto anch'essa, pur troppo!... -

Renato, in quei pochi giorni, se la vide venire in casa piú frequentemente, meno allegra, sí, ma con cordialità piú aperta. Restava a lungo sdraiata sul canapè o su una poltrona, con la faccia appoggiata a una mano, un piedino accavalciato sull'altro, e gli occhi ombrati dalle ciocche arruffate su la larga e bella fronte, fissi su lui. E se Renato andava a sedersele accanto e le prendeva una mano e le passava il braccio attorno alla vita, ella tentava di svincolarsi, ma fiaccamente, e finiva col lasciarsi baciare senza resistenza.
- Prendo anticipazioni per tutto il tempo che rimarrò lontano - egli diceva.
- Non dubiti: le manderò, ogni volta, mille baci per lettera...
- Ne preferisco dieci ora -.
Nelle solite passeggiate serali, Luigia gli si attaccava al braccio con abbandono:
- Non so affatto persuadermi che domani l'altro non ci troveremo piú insieme... Si rammenterà di me?... Ho qualcosa qui, nel cuore, e non riesco a metterlo fuori; un peso, una specie di rimorso. Mentre lei è stato cosí buono, cosí affettuoso, cosí sinceramente amico con me, io invece mi son mostrata quasi ingrata, cattiva. Almeno debbo esserle sembrata tale. È vero?
- Perché dici cosí? Hai torto -.
Allora, nei punti piú deserti delle vie, ella si fermava, guardandosi attorno, e gli saltava al collo, stringendolo al seno forte forte:
- E dire che, forse, non ci rivedremo piú!... È il mio maggior tormento -.

Appena Renato comprese che cosa significava quella trasformazione di Luigia, sentí una commozione mista di pietà che lo fece impallidire. Ah! La povera creatura voleva sdebitarsi a quel modo. No; lui, invece, lui le doveva gratitudine per tante sensazioni blande, per tanti sentimenti miti, per tante ore deliziose che gli avevano fatto riposare il corpo e lo spirito con ristoro completo. No, povera creatura! Cosí era stato troppo delizioso, troppo bello! Perché guastarlo? E la guardava intenerito, mentre camminavano senza scambiare una parola, tornando da Gorla con quel plenilunio di giugno, ridente su la vasta campagna addormentata.
Era l'ultima sera che Renato restava in Milano. Perciò ella aveva voluto accompagnarlo su, rassegnata al proprio sacrifizio. Nel togliersi il cappellino tremava. Poi si era seduta sul canapè, passandosi nervosamente le mani su la faccia.
- Ci rivedremo un'altra volta?
- Perché no? Fra quattro mesi.
- Oh, in quattro mesi chi sa quante cose accadranno! Potrò anche morire -.
Si erano presi per mano; ma non si davano neppure un bacio, sorridendosi tristamente, con lunghi intervalli di silenzio.
- Che ore sono? - ella domandò.
- Le dodici e mezzo.
- Come s'è fatto tardi! -
Renato restava tuttavia seduto accanto a lei.
- Perché non si leva il soprabito?
- Vo' accompagnarti fino al portone di casa -.
Luigia stette un momento a fissarlo, sbarrando gli occhi, credendo di aver capito male; grosse lagrime le tremolavano irresolute sugli orli delle palpebre:
- È... per vendicarsi di me?
- No, no, cara! - disse Renato. - Tutt'altro! Tutt'altro! -
E le accarezzava il volto. Ella rideva e piangeva, e il petto le si allargava in un gran respiro di sollievo.

Roma, 9 febbraio 1883.



IV

CONVALESCENZA



Udito il lieve scricchiolio dell'uscio, Eugenio si voltò.
- Buon giorno - gli disse la pallida testina di donna che s'era affacciata tra i battenti semiaperti.
- Di già levata! - egli rispose freddamente.
La signora Viotti entrò, facendo un sol passo. Aveva un soave sorriso su le labbra e negli occhi, e scrollava la testa con lieve aria di rimprovero vedendolo rimanere là, invece d'accorrere ad abbracciarla e a sorreggerla.
Eugenio, infatti, era visibilmente contrariato dall'inattesa apparizione di quella pietosa figura di convalescente dal viso scarno, dalle occhiaie livide e infossate, dalla persona esile ed alta, avviluppata nell'ampia e pesante veste da camera.
- Ma, il dottore... - egli disse, alzandosi dalla poltrona e gettando il libro sul tavolino.
La signora scosse le spalle:
- Il dottore è uno sciocco -.
Presala per le mani ch'ella gli porgeva, Eugenio, un po' accigliato, la condusse lentamente presso la finestra:
- Potevi aspettare qualche altro giorno -.
La signora Viotti, senza punto badare al tono severo della voce, gli s'era gittata al collo e lo baciava e ribaciava:
- Come ti voglio bene! Quanto ti voglio bene! -
Non si sapeva frenare, e resisteva ai moti impazienti di lui che cercava di svincolarsi.
- Via, non fare il cattivo! - disse, scoccandogli un ultimo bacio, in distanza, nell'abbandonarsi, spossata dallo sforzo, su la poltrona. E rovesciata la testa, socchiudendo gli occhi, mormorava a fior di labbra:
- Sono felice; non voglio piú morire!... Siedi qui, non fare il cattivo -.
Era stato un colpo di pazzia. Se n'accorsero quasi subito, dopo quattro o cinque mesi della loro vita di amanti; ma si accorsero pure di non trovarsi in uguali condizioni, pur troppo! Mentre Eugenio, passato il primo bollore della passione, si staccava da lei mezzo annoiato, mezzo sazio, naturalmente, senza che la riflessione vi concorresse per nulla; la signora Viotti - che aveva abbandonato il marito da cui si sapeva adorata e che aveva adorato anche lei fino a sei mesi addietro, essendosi sposati per amore - la signora Viotti, all'opposto, si sentiva attaccare, di giorno in giorno piú strettamente, da uno di quei violenti legami pei quali la ragione non vale.
Da Treviglio, dove Eugenio trovavasi a villeggiatura a villa Savini, invitato da un amico, essi eran volati a nascondersi nell'immensità della capitale, in quell'elegante quartierino di via Modena, al terzo piano. E durante il primo mese, uscivano soltanto la sera, a braccetto, per passeggiare pei quartieri nuovi, baciandosi furtivamente lungo le vie solitarie, quasi in tutta la giornata gliene fosse mancato il tempo! E non facevano altro, Dio mio! Erano proprio insaziabili. Andando attorno posatamente, parlandosi all'orecchio e stringendosi le mani, ella gli ripeteva spesso:
- Mi par di sognare.
- Anche a me - rispondeva Eugenio.
Conosciutisi in una scampagnata, egli aveva avuto appena l'occasione di susurrarle qualche parola di semplice galanteria, senza nessun preconcetto, senza nessun'idea di far colpo, sapendo bene che quei due, marito e moglie, s'erano sposati per amore. Ma una sera, sul tardi, ritornando alla villa da una passeggiata faticosa, avvedutisi di esser rimasti molto indietro da la compagnia, eran diventati a un tratto silenziosi, impacciati di trovarsi cosí soli tra i filari dei gelsi che costeggiavano la via, sotto quel cielo senza luna, nella penombra della sera che invadeva tacitamente la campagna al leggiero stormire delle fronde.
In che modo i loro sguardi s'erano incontrati? In che modo era spuntato sulle labbra di tutti e due lo stesso sorriso pieno di stupore?... E in un baleno, ella gli si era buttata tra le braccia, singhiozzante:
- Che gran male mi avete fatto!... Mi sento impazzire! -
Eugenio, interdetto, turbato, rispose a stento:
- Ci chiamano!... -
Nella nottata però non poté chiuder occhio; quella voce singhiozzante, piena di tanta passione, gli aveva sconvolto cuore e cervello. Non credeva a se stesso:
- Amato fino a questo punto! -
E due mesi dopo, nelle loro passeggiate serali per le vie della nuova Roma essi ridevano ancora del terrore provato in camera di lei, a villa Savini quella volta che suo marito aveva dovuto correre da Treviglio a Milano per un affare urgentissimo. A notte avanzata, essi avevano udito un rumore, secco secco.
- Han chiuso l'uscio della stanza di passaggio! - ella balbettò, stringendogli un braccio, convulsa - Oh Dio! Saremo scoperti, tra le risa mal celate della servitú, tra le ipocrite indignazioni delle altre villeggianti!... E mio marito, quando saprà...! -
La signora Viotti si disperava, si torceva le mani, si strappava i capelli.
- Non può essere... Zitta!... Vo a vedere -.
E andato di là, per accertarsene coi propri occhi, Eugenio era subito tornato addietro pallidissimo, mordendosi i baffi... Terribile quarto d'ora! Smarrita, tremante da capo a piedi, vincendo ogni pudore, s'era levata anche lei, e presi per mano, barcollanti, erano andati insieme di là, dinanzi a quell'uscio fatale, per forzarlo a ogni costo!... E che infrenabile convulsione di risa, vedendolo ancora aperto com'egli, venendo, lo aveva lasciato!
- Ero cosí agitato, per te, da travedere fino a quel punto!
- Ed io, ricordi?, balbettai: «Un sorso d'acqua!» Quasi svenuta sulla poltrona, tremavo e ridevo!... -
Cosí riandavano spesso i piú lievi fatti del breve passato; ella senza nessun rimpianto di quel che, fuggendo, avea lasciato dietro di sé; egli senza nessun pensiero dell'avvenire quasi la loro felicità di amanti avesse dovuto durare eternamente!

Quando la signora Viotti, ammonita dal suo fino istinto, sorprese in Eugenio i primi sintomi di raffreddamento, rimase stordita come da un colpo di martello su la testa. Non pianse, non gli disse nulla. E messasi a osservarlo, dissimulando l'intensa ambascia, a ogni sintomo che le rendeva piú evidente la propria sciagura, si sentiva correre per tutto il corpo un veleno sottile sottile che le guastava il sangue rapidamente.
Da prima, Eugenio la vide deperire con indefinibile sentimento d'inquietudine:
- Che cosa ti senti?
- Io? Niente.
- Pure, mi sembra...
- T'inganni -.
Egli non insisteva. Sicuro del suo segreto, aspettava di poter scoprire qualcosa di simile nel cuore di lei; allora lo scioglimento della crisi sarebbe riuscito facilissimo. Né disperazioni, né lagrime; una stretta di mano, una parola di rimpianto per la felicità volata via... e festa! Il marito pronto a perdonarle e ad aprirle le braccia, non aveva scritto ultimamente a un amico perché s'interponesse? E questi s'era presentato alla signora con la gravità d'un diplomatico. Ella, sí, aveva avuto il torto di rispondere: - Non c'è perdono per una colpa come la mia! - Umile alterigia a sproposito. Dopo quella risposta però egli le aveva susurrato, abbracciandola: - T'amo piú di prima. Sei stata sublime!... - E aveva mentito.
Compresa finalmente la vera ragione di quel muto dolore, Eugenio provò un vivissimo senso di dispetto, come per una prepotenza, per una inqualificabile soverchieria. Ma non ebbe il coraggio di rinfacciargliela; e rodendosi dentro, diventava a ogni minima occasione e per futili pretesti incontentabile, stizzoso, continuamente aizzato da quel suo dispetto ingiustissimo - ne conveniva, qualche volta, internamente. E con tutto questo non gli riusciva di provocare un po' di resistenza, qualche scena da parte di lei! Ne arrabbiava.
La signora Viotti, zitta, rassegnata, deperiva intanto con incredibile rapidità, per quella vampa interna che le inaridiva il sangue e le struggeva le carni.
- Meglio lasciarmi morire! - aveva deciso.
Eugenio, per convenienza, per scrupolo anche, una mattina condusse in casa il dottore; ma la signora ricusò di riceverlo.
- Che dottore! Perché? - ella diceva sforzandosi di parere tranquilla. - Sto benissimo -.
E non si lamentava della sua sorte, neppure quand'era sola:
- Se Eugenio non mi ama piú, che posso farci? Forse son io che non ho saputo farmi amare durevolmente; forse, questo è il mio gastigo! E sia. L'amo, l'amerò fino al mio ultimo respiro. Voglio morir qui, in casa sua; non potrà scacciarmene morente! -
Poi cedette, per contentarlo. A ogni visita, ella guardava fisso il dottore; voleva leggergli sul volto la propria sentenza.
- Parli schietto: è cosa grave? - gli domandò una volta che Eugenio era assente.
Il dottore tentò di rispondere: - Ma... se...
- Non ho paura di morire - ella lo interruppe per farlo uscire dalle reticenze. - Sappia che se fossi in pericolo avrei importanti disposizioni da dare.
- Per cautela, provveda, - allora conchiuse il dottore.
- Ah!... Va bene - ella mormorò.
Avvertito dal dottore che lo aveva incontrato per le scale, Eugenio entrò da lei insolitamente commosso; e vedendo affondato nei guanciali il volto quasi irriconoscibile della bellissima donna un giorno amata, s'arrestò, quasi non lo avesse mai osservato fino a quel momento.
- Povera donna!... Se deve morire, muoia almeno credendosi ancora riamata! -
La signora Viotti lo guardava con occhi dolenti, da vittima invocante misericordia dal carnefice; e quegli sguardi lunghi, quasi addio pieno di strazio, parevano domandargli dimessamente: perché non m'ami piú?
Da quel giorno però Eugenio cominciò a sembrarle di bel nuovo mutato.
- Guarisci presto - le diceva, accarezzandole il volto dimagrito, ravviandole le ciocche di capelli arruffate su la fronte. - Siamo ne la bella stagione. Andremo in campagna, o a Sorrento come tu desideravi una volta. Cercheremo un nido, un paradiso di verdura e di sole, degno del nostro amore, degno di te... - Ella non rispondeva, non sorrideva neppure a quelle carezze e a quelle promesse, tuttavia incredula, decisa di lasciarsi divorare dalla gastrite. Ma da che Eugenio rimaneva giorno e notte in camera, presso il letto, dormicchiando spesso sopra il canapè, per esser piú pronto a somministrarle la medicina e a cambiarle le pezze ghiacciate alla testa; da che gli sentí ripetere, con lo stesso accento d'una volta, le dolci parole d'amore che l'avevano inebriata fino ad offuscarle la ragione, fino a spingerla ad abbandonare un marito cosí buono da perdonarla s'ella avesse accettato il perdono - quelle parole piene d'incanto che Eugenio non le aveva mai ripetute da un pezzo - ella pensava:
- Oh Dio!... Mi sono forse ingannata?... -
Eugenio medesimo in certi momenti non avrebbe saputo distinguere s'egli continuava a rappresentare una pietosa commedia o se diceva davvero. Il rimorso d'aver contribuito, quantunque involontariamente, alla distruzione di quell'innamorata creatura lo spingeva a esagerare:
- Poverina! Muoia almeno contenta.
- Senti - gli disse un giorno l'ammalata. - Debbo confessarti una cosa... -
Con le mani dimagrite, tremule per debolezza e che scottavano, gli aveva preso le sue e gliele stringeva forte: - Fatti piú accosto; posa la testa sul guanciale... Ascolta. Prima di morire, voglio confessarti...
- Eh!... Non siamo a questo punto.
- Forse -.
S'era arrestata per guardarlo da vicino nelle pupille; e gli passava una mano sulla guancia, con l'incerta carezza di persona rifinita dalla malattia.
- Ti vedevo cambiato. Credevo che tu non mi volessi piú bene e che ti fossi diventata peso insopportabile, dura catena...
- Ma...
- Lasciami dire. Non ti accusavo, non ti maledicevo. Vedi? Muoio per questo, e sarei morta disperata, se non te lo avessi fatto comprendere. Perdonami!... Ingannata dalle apparenze, ti calunniavo indegnamente... Perdonami! -
Su quel volto pallido e scarno, le lagrime scorrevano, sgorgando piú abbondanti dalle ciglia a ogni parola, a ogni frase, le scendevano fino alle labbra, ed ella se le beveva con voluttà, impedendo che Eugenio gliele asciugasse:
- No, lasciami piangere... È cosí dolce!... Lasciami morire cosí -.

Interrogando il dottore, egli era tormentato dall'ansia di vedere indovinato il proprio egoismo, la freddezza di cuore sopravvenuta. In alcuni momenti cercava di mentire fin con se medesimo, se l'intima voce della coscienza lo rimproverava, inesorabile, a ogni domanda con cui egli sperava di accertarsi che, presto o tardi, quella tortura sarebbe finita. E dopo tre eterne settimane passate presso la malata, giorno e notte, senza andare a respirare un soffio d'aria libera, si sfogava in soliloqui brutali:
- Farà morir di sfinimento anche me! -
E subito, quasi per ammenda, la povera ingannata che smaniava dalla febbre si vedeva sopraffatta da effusioni di carezze e di parole affettuosissime, che parevano scaturire dal piú profondo del cuore. Ed erano invece mera finzione, artifizio, per attutire la voce interna che insorgeva contro di lui. Aveva forse due anime? Vivevano insomma due diverse persone nel suo corpo, una buona e una cattiva? Egli non sapeva spiegarselo.
Il dottore intanto non si lasciava scappare affermazioni recise:
- La malattia, gravissima perché non curata in tempo, segue il suo corso; la signora può guarire, lentamente; ma... -
A quel ma lasciato cosí sospeso, Eugenio sentiva, suo malgrado, un po' di sollievo.
- Per certe anomale situazioni della vita, non c'è altra soluzione! - rifletteva freddamente. - Non l'ho provocata, né agevolata - aggiungeva subito per scusarsi con se stesso.
E spiava ogni sintomo, e notava ogni minimo cambiamento, aggirandosi smanioso attorno a quel letto dove la povera signora, riarsa dalla febbre, soffocava gli atroci dolori per non gridare, per risparmiargli l'angoscia di vederla soffrire, ora che si credeva ancora amata!
- Mi sento assai meglio, sai? -
E le visceri le si torcevano sotto la coperta, intanto ch'ella gli sorrideva e gli chiedeva baci.
La mattina che la signora Viotti, già convalescente, si affacciò allegra su l'uscio del salotto, augurando all'amante il buon giorno, Eugenio, di cattivo umore, non seppe neppure usarle la cortesia di alzarsi subito da sedere e andarle incontro.
- Sono felice; non voglio piú morire! - ella mormorava abbandonata deliziosamente su la poltrona.
Eugenio, in piedi, la guardava; e aveva su le labbra l'equivoco sorriso - quasi contrazione - di chi, non piú amante, vede ribadirsi la catena creduta già vicina a spezzarsi.

Mineo, 25 marzo 1885.



V

UN MELODRAMMA INEDITO



Parlavano del «Re vergine» e delle sue manie musicali. Merlini, wagnerista fanatico, gl'invidiava le rappresentazioni dei capolavori del maestro nel teatro di Monaco, delle quali re Luigi era stato spettatore unico, nella sala buia col palcoscenico inondato di luce - meravigliosa visione, spiritualizzata dall'onda orchestrale scaturente dal «golfo mistico», come il maestro lo chiamava - e non finiva di entusiasmarsi.
- Ho provato qualcosa di meglio, - disse Ludovico. - Stammi a sentire. Anni fa, viaggiavo solo, con l'animo terribilmente turbato. Una persona a me cara trovavasi in pericolo di morte; accorrevo in fretta al suo capezzale e temevo di non giungere in tempo. Figurati il mio stato! Il legno correva, sobbalzando per la strada ineguale e polverosa, ma non cosí celeremente come il mio cuore avrebbe voluto. Dove la strada saliva ripida e i cavalli rallentavano il passo, sentivo una pena, un tormento indicibile, quasi lo facessero a posta.
Il vetturino, vedendomi affacciare smaniosamente allo sportello, si scusava: «Siamo in salita; non posso ammazzare i poveri animali». Aveva ragione; quei poveri animali, già trafelati ed ansanti, dovevano correre, correre ancora, per molte ore. Poi, si tornava a volare. La strada era deserta; la serata bellissima. Gli ultimi crepuscoli sorridevano, tra dorati e rosei, sulle montagne lontane, e davano un'intonazione dolcemente serena alle campagne circostanti, mare di messi ondeggiante al venticello vespertino. Quel vasto silenzio campestre e quella pace immensa mi facevano rabbia. La vita si espandeva lí attorno con sí forte rigoglio, e con un tal senso di piena felicità, quasi in dolce assaporamento di se stessa, che io sentivo piú profonda nell'animo la desolazione della solitaria agonia di quella cara persona. E avrei voluto essere accanto a lei per consolarla negli estremi momenti ed esserne poi confortato! L'assistere alla morte di persone amate, diventa conforto ricordando.
Non volli piú guardare uno spettacolo che irrideva il mio grave dolore; chiusi gli occhi, e mi rannicchiai in fondo al legno, fantasticando, rimuginando, tornando a combinare miracoli di guarigione, che io medesimo riconoscevo affatto impossibili. Quando riapersi gli occhi, era già notte. La luna, rossiccia e apparentemente ingrandita, si levava dietro le montagne con maestosa lentezza fra le poche nuvole che filettavano l'orizzonte, su la cupa taciturnità della pianura fuggente a perdita d'occhio; l'aria era frizzante. Il vetturino cantava uno di quegli stornelli malinconici, monotoni, che paiono piangere di qualche cosa. Strana coincidenza! Esso mi richiamava in mente un'altra sera, un altro viaggio... Oh! Un sogno di sorrisi, di carezze, di baci, mentre il vetturino cantava, come ora, un monotono stornello, consimile, che pareva piangesse di qualche cosa. Non potendo dir: «Zitto!» a questo qui, tirai su i vetri del legno. Il canto m'arrivava all'orecchio egualmente, quantunque assai smorzato. Allora, per vincere la straziante impressione che mi pareva di malaugurio, presi a canticchiare anch'io. Che cosa? Non lo ricordo; reminiscenze musicali senza dubbio, le prime capitatemi alla memoria... Ed ecco quel che mi accadde; non lo dimenticherò piú, vivessi cent'anni.
La monotona melodia dello stornello già mi sembrava lontana, lontana, quasi m'arrivasse all'orecchio a traverso il gran silenzio notturno, trasportata dal vento; e mi eccitava grado grado, mi inebbriava talmente la fantasia, mi commoveva a tal punto che, poco dopo, non canticchiavo piú reminiscenze, ma facevo un'improvvisazione. Non sorridere. Io che non conosco una nota musicale, sí, improvvisavo musica nuova, bella, meravigliosa... N'ero stupito io medesimo, e l'ascoltavo quasi venisse cantata da un altro.
Cantata? Non è esatto; dovrei dire suonata e cantata a vicenda. Le mie labbra imitavano i vari strumenti di un'orchestra nelle loro riprese, nei loro intrecci; e poi la voce cantava, per ceder di nuovo ai violini, al flauto, ai bassi il lor posto negli accordi. Provavo l'assoluta illusione di quegli strumenti, la piena delizia di quel magnifico concerto, organico intreccio di voci e di suoni. E durante il godimento dell'incredibile sensazione, riflettevo che dovrebbe accadere la stessa cosa nella mente d'un maestro quando comincia a svilupparvisi la creazione musicale. Che ciò avvenisse nel mio cervello, ora non mi meravigliava piú. Orecchiante, m'ero dato nei concerti di musica classica una specie d'educazione; orecchiante, ero arrivato a gustare le astruse bellezze dei quartetti beethoveniani, delle sinfonie dei vecchi e nuovi maestri, dove l'idealità artistica ha raggiunto la piú alta manifestazione... Quelle sensazioni, assopite da tanto tempo, si ridestavano, forse, nello stato d'eccitamento nervoso in cui allora mi trovavo? E si mescolavano, si confondevano, si coordinavano, fino a diventare una specie d'organismo nuovo, da facilmente ingannarmi? No, te lo assicuro.
Avevo dimenticato ogni cosa: la cara persona agonizzante, la lentezza della corsa, l'impazienza di giungere. Quell'inattesa creazione m'assorbiva interamente; e l'essere attore cantante, orchestra e spettatore nello stesso punto, mi produceva qualcosa di cosí straordinario, di cosí ineffabile, che non avrei voluto, a ogni costo, sentirlo cessare.
Che cantavano quelle voci diverse? Che rispondevano quegli istrumenti? L'impressione, dapprima, era stata confusa, indefinita. Le voci cantavano ma non pronunziavano parole: soprano, contralto, tenore, baritono, basso, cori, erano quasi varietà di strumenti; giacché c'erano pure i cori, mirabilmente fusi con le altre voci e con l'orchestra... Allucinazione assurda, ma evidente quanto la stessa realtà; non puoi fartene un'idea.
A poco a poco però l'allucinazione divenne piú chiara, piú determinata, precisa. E vidi il teatro, o meglio la cicloide del palcoscenico, il sipario, i lumi della ribalta, i professori dell'orchestra ognuno al suo posto, con gli strumenti in mano e i leggii davanti; vidi la sedia vuota del direttore... e andai a sedermici, quasi facessi la cosa piú naturale del mondo. Scoppiò allora la sinfonia con alto grido polifonico, tormentosa, straziante, fra i lamenti dei violini e dell'oboe, i singhiozzi dei clarini e del flauto, gli schianti dei corni e degli oficleidi, i rulli insistenti del tamburo e i sordi colpi dei timballi e della gran cassa; frase grandiosa, terrificante, che si arrestò a un tratto. L'ho tutta qui, negli orecchi, quasi l'abbia sentita poco fa e non parecchi anni addietro. Potrei trascriverla, se sapessi...
- Peccato! - lo interruppe, ironicamente incredulo, il Merlini.
- Peccato davvero! - riprese Ludovico. - Sarebbe documento d'una rarissima esaltazione nervosa, di uno stato psicologico degno d'essere studiato. Ti giuro che non mi è mai accaduto di provare una commozione cosí sincera e cosí forte, come nell'assistere a quella rappresentazione certamente assai piú bella di tutte le solitarie rappresentazioni godute da Luigi di Baviera dal suo palco reale.
Egli, infine, assisteva all'opera d'un altro, rappresentata e interpretata da altri; semplice spettatore. Per poco che tu ed io avessimo dei milioni a nostra disposizione - fossero anche tolti in prestito dalla cassa di usurai compiacenti - potremmo cavarci lo stesso gusto e provare ugual godimento. Tutto l'oro del mondo però non potrebbe metterti nella circostanza di riprodurre un'allucinazione pari alla mia. Io stesso, per quanto mi ci sia provato, non son riuscito. Te lo confesso: sono stato cosí stupido da tentarlo parecchie volte, e alla fine ho riso di me...
Ma allora, oh, allora non ridevo! Fremevo, tremavo, mi sentivo venir meno dalla dolcezza, secondo le peripezie del fantastico dramma; perché, sí, c'era il dramma, c'erano i versi, tutto!
All'alzarsi del sipario, la scena rappresentava una camera gotica. In fondo, un bambino dormiva placidamente nella culla. La bellissima giovane, vestita a bruno, pallida e sofferente, che vi stava accosto, cantava una ninna-nanna; e l'orchestra ricamava su quella dolce melodia le cose piú soavi e piú tenere che orecchio umano avesse mai udite. Quella tradita, implorava che il suo bambino, fatto grande, non provasse il sentimento dell'amore, per non tradire anche lui, alla sua volta, come suo padre aveva tradito... Che singhiozzi, che lagrime in quella preghiera dal ritmo cullante! E che fremiti, che sprazzi di luce, che bagliori musicali, quando l'orchestra preannunziò la apparizione della fata protettrice della famiglia, la quale veniva per assicurare la madre derelitta dello adempimento del suo voto! Infatti il bambino, sotto la vigile protezione di quella fata, cresceva forte, valoroso, amante di imprese guerresche, ma tetragono contro l'amore. Accadeva però che la fata, standogli sempre vicina per proteggerlo, s'innamorava di lui. Egli aveva qualche coscienza della protettrice malia, e se ne adontava e apertamente mostrava all'innamorata dea di volerle resistere, insofferente di violenze, anche se provenienti dall'alto... Sublime duetto!... La passione strappava a colei smanianti, deliranti parole d'affetto contro le altiere risposte del bello e forte cavaliere... Invano. Ella, che lo aveva protetto contro l'amore, non riusciva ora, benché fata, a ispirargli amore per lei; e nella stretta finale del duetto, mentre il giovane protestava, maledicendo, contro la fatalità di quella protezione non chiesta, ella malediceva la propria immortalità che le impediva d'essere amata come una semplice umana creatura. E con lei maledicevano i violini, i flauti, le arpe; e con lui le trombe, i corni, i claroni; maledicevano fra pianti e singhiozzi, quasi anime viventi...
Io avevo le lagrime agli occhi, sopraffatto da alta pietà per quei due cosí diversi, e che cosí diversamente soffrivano.
La seconda parte cominciava con un gran preludio sinfonico. Alzatosi di nuovo il sipario, appariva una specie di Olimpo scandinavo, e il preludio trasmutavasi in un coro di tutte le divinità maschili e femminili, qualcosa d'immensamente sereno, vera rivelazione musicale dell'immortalità, dell'eterna giovinezza, dell'eterno sorriso degli esseri primordiali, creatori di ogni cosa esistente... Ed ecco la fata, che veniva a chiedere al gran padre degli dei il giuramento fatale, contro cui neppure la volontà del gran padre degli dei poteva valere. L'orchestra ansava nella trepidante aspettativa di quel giuro, che scoppiava di lí a poco come un fulmine. La fatalità era segnata!... - Rendimi mortale! - ella chiedeva...
Repentinamente la sua aureola si oscurava; la sua mutata spiritualità sentiva la pesantezza del corpo. E mentr'ella precipitava giú dal cielo in terra, nel cielo, quasi nulla di sinistro fosse accaduto, riprendeva l'immenso coro sereno dell'immortale felicità, dell'eterna giovinezza, dell'eterno sorriso degli esseri primordiali, creatori d'ogni cosa esistente...
- Giuro!... Rendimi mortale! - soggiunse Ludovico, tentando d'imitar con la voce l'espressione musicale di queste parole. - Cosa terribilmente grande!... Senti, son ghiaccio al solo ricordarlo!...
- Non ti burli di me? - disse Merlini.
- Non ho inventato nulla; è pura verità.
- Che mistero il cervello umano! Può darsi che tu sii stato pazzo in quei momenti.
- Pazzo di dolore? Forse - conchiuse Ludovico. - Infatti, quando l'allucinazione finí, e mi accorsi della carrozza che correva, correva, sobbalzando sempre, avevo il volto irrigato di lagrime, e mormoravo il nome di colei che, agonizzante, forse disperava di rivedermi! Albeggiava -.

Roma, 1888.



VI

AVVENTURA



Che te ne fai di te? Non ti si vede piú!
- Lavoro -.
I due pittori, che si eran voltati al crescente rumore d'un doppio galoppo, videro passare, come un lampo, quell'apparizione di donna a cavallo, seguita a breve distanza da un servitore in livrea.
- Divina! -
Alberto s'era alzato per seguirla con lo sguardo fino in fondo al viale.
- La conosci? - gli domandò il Giannuzzi.
- Sí... e no.
- È la Blichoff -.
Alberto si stropicciava nervosamente le mani, pallido, con gli occhi socchiusi e il respiro accelerato:
- Che hai? Ti senti male? - gli domandò l'amico.
Questa volta i cavalli tornavano al trotto, scalpitando su la ghiaia; e la Blichoff, rigidamente stretta nel busto dell'amazzone, bianca, con le labbra irrequiete e gli occhi nerissimi che pareva guardassero senza vedere, ripassando davanti a loro, accarezzava con la frusta il cavallo che inarcava il collo mordendo il freno.
- Che hai? - tornò a domandare il Giannuzzi. - Andiamo via! Alberto, afferrata la mano dell'amico, gliela stringeva forte.
- Mi fai male!... Tu soffri -.
E per mostrargli d'aver capito, il Giannuzzi soggiunse:
- Bada! costei è delle fatali, come io le chiamo, piú dee che donne; malanno! Sai tu la leggenda che si racconta di lei? È vergine, dicono, quantunque vedova di un vecchio milionario; ed è, dicono, scettica, altera, inaccessibile... Sarà vero? Chi può saperlo? Sono inverosimili coteste russe!... Hai ragione però: è proprio divina! Io che ho potuto avvicinarla...
- Tu?... Dove?...
- Nel mio studio. Voleva fatto il ritratto: la sola testa, su la tela grezza; capriccio d'artista. Oh, proprio divina, con quella glaciale alterezza!... Tenebre negli occhi, tenebre fitte e lampi. Caratteristica assai la linea delle labbra, lievemente ondulata, sottile sottile. Posava meglio d'una modella. Ma fu inutile; non riuscivo. Quando dovetti confessarle la mia inettitudine, mi ringraziò con un cenno del capo e andò via. Respirai, te lo giuro.
- Come t'invidio! -
E lo sguardo d'Alberto errava, fantasticante, ora sull'Arno che scorreva lento e limaccioso fra le larghe sponde, ora su le lontane macchie dei pini nereggianti nel cielo azzurro, oltre il Pignone.

- Capolavoro d'abbozzo! - ripeteva il Giannuzzi, ammirando.
- Oh! Tu intendi consolarmi...
- No... -
Quel bel corpo di donna, mezzo affondato tra la giubba d'una pelle di leone, già palpitava di vita, con le carni fine, candidissime, inondate di luce in mezzo al gran verde della serra, tra le larghe foglie delle piante esotiche rizzantisi attorno trionfalmente. E negli occhi cerchiati di azzurro, nuotanti in voluttuoso umidore; e nelle labbra semiaperte, avide di baciare e d'esser baciate; e nelle brevi narici rigonfie, aspiranti i forti profumi di quell'aria greve, c'era, proprio - accennato, sí, ma c'era - l'angoscioso desiderio di piaceri acri e nuovi, voluto esprimere dal pittore, isterica smania di donna che cerca di forzar la natura a ibridismi intentati. - Ma il quadro è secco - osservò il Giannuzzi, passando il dito su la tela. - Non vi lavori da un pezzo.
- Da tre mesi, da che l'ho vista la prima volta! -
E c'era un singhiozzo nella voce d'Alberto.
- Che pazzia!... Ti compiango -.

Sí, era proprio una pazzia: ma che farci? S'era sentito afferrare tutt'a a un tratto, alla prima occhiata, come da implacabile artiglio. Ed ora non osava confessare all'amico tutte le torture di quei tre mesi, tutti i deliri di quelle lunghe giornate, di quelle interminabili nottate insonni, con dinanzi agli occhi il divino fantasma che gli dava le vertigini dell'abisso, allettandolo, come sirena, verso le misteriose rive della morte. Cosí avrebbe riposato eternamente fra le tenebre silenziose, nella pace infinita, poi che gli era impossibile continuare a vivere senza possederla... Che! Possederla?... Oh! Gli sarebbe parso troppo, se gli fosse stato concesso starle vicino, sentirne la voce, essere accarezzato dagli sguardi e dal sorriso di lei, per pietà... Nient'altro!... Ma fin questo poco, questo nulla era assurdo!... Come illudersi? E con le mani scottanti ora si stringeva la fronte che gli pareva stesse per scoppiare, ora si premeva il cuore, che gli sbalzava dentro il petto sfrenatamente.
- Passerà! - egli disse all'amico, tentando di sviare il discorso. - Passerà! -
Era però ben convinto che non sarebbe passato, finché una sola delle sue fibre fosse stata capace di provare qualche lieve ombra di sensazione, finché una sola cellula del suo cervello fosse stata capace di pensare un'idea, di creare un fantasma d'immagine! E per ciò gli celava anche l'ultima sua vera pazzia, la lettera scritta alla Blichoff due giorni addietro, con cui le offriva, per un bacio, per un sol bacio, la vita!
- La vita, la giovinezza, l'avvenire, tutto, per un sol bacio!... -
E neppur gli pareva di pagarlo a bastanza. Attendeva stupidamente la risposta, angosciandosi all'idea che forse non sarebbe creduto. Non ricordava precisamente quel che aveva scritto nelle cinque fitte pagine della lettera; ma il cuore, tutto il suo cuore, si era riversato lí, sinceramente, semplicemente, con l'accento che non mentisce, con l'espressione che nessuno può raggiungere se la passione non la detta.
La stessa stranezza del patto gli pareva fatta a posta per tentare quella scettica o sazia...
- La vita, la giovinezza, l'avvenire, tutto per un sol bacio! Perché non gli avrebbe dovuto credere? -
Smaniava, attendendo; e nel tempo istesso disperava di quella risposta che avrebbe dovuto dirgli: «La vostra vita per un mio bacio? A questo patto, venite!»

Gli si annuvolarono gli occhi e cominciò a tremar tutto, la mattina che lesse nella risposta precisamente le parole: «A questo patto, venite!» Aveva letto bene? Non era un'allucinazione prodotta dal sottile profumo che impregnava quel foglio - il profumo di lei! - e che gli dava alla testa? Non voleva prestar fede, voleva impedire lo scoppio dell'immensa gioia che già sentiva fremersi per tutte le vene; temeva di morirne prima che annottasse.
E balbettava:
- No, non è vero!
Non è vero!... - abbandonato sopra il divano, anelante, con le braccia penzoloni, abbattuto da quell'insperata felicità; e guardando fissamente nello specchio di fronte, si vedeva pallido come un cadavere, con gli occhi smarriti...
- No, non è vero! -
Nello studio, silenzio profondo, penombra soave. Il gran quadro, i bozzetti, i disegni a penna, le stampe rare, le panoplie, gli strumenti barbari, le stoffe antiche, i vecchi mobili scolpiti, tutti i gingilli di bronzo e di porcellana sparsi disordinatamente qua e là, stavano assopiti nella grande quiete della sera che invadeva la stanza vasta e alta; quiete commovente, pietosa, quasi d'addio!... Soltanto la figura di donna ignuda, mezz'affondata tra la giubba d'una pelle di leone, soltanto quella pareva lo guardasse intentamente con occhi vibranti, cerchiati d'azzurro, invitandolo ai baci con le sottili labbra semiaperte, insistente, insistente, quasi dovesse lei, e non l'altra, prendergli la vita, la giovinezza, l'avvenire, tutto, in cambio d'un bacio, d'uno solo! «A questo patto, venite!»
Si alzò barcollante nel buio; e chiuso l'uscio, discese le scale, non accorgendosi neppure che erano al buio anch'esse; tanta luce gli rideva nel cuore!

Appena scorse, indistinta nell'oscurità, in fondo al gran viale alberato, la palazzina indicatagli, Alberto s'inoltrò in punta di piedi, trattenendo il respiro. Gli immani alberi attorno stormivano leggermente; nel cielo, di un nero d'inchiostro, brillavano poche stelle; e al loro scarso lume si vedevano i fumaioli rizzati fantasticamente sul tetto, quasi persone poste in sentinella, in strana lontananza; la quale pareva indietreggiasse, indietreggiasse, di mano in mano ch'egli, con andare di sonnambulo, inoltravasi, sopraffatto dall'improvviso terrore di esseri sovrumani - nascosti fra le siepi scure e fra i cespugli - della cui presenza gli pareva lo avvertisse quel brivido che gli formicolava per la persona.
La palazzina era lí, a pochi passi, silenziosa, con tutte le finestre chiuse; e le piante arrampicate serpeggiando alla facciata, sembravano larghi crepacci di vecchio edifizio lasciato in preda alla distruzione... Allora, senza far rumore, un usciolino s'era aperto; il bianco fantasma apparso sulla soglia aveva accennato con una mano; un mormorio di voce femminile s'era disperso, inintelligibile, nell'oscurità...
E Alberto, seguendo quel bianco fantasma di donna pel breve corridoio rischiarato da riflessi che scappavano da un uscio socchiuso, credeva proprio di sognare; e mentalmente pregava:
- È troppo bello, Signore! Non vorrei piú svegliarmi, Signore! -

Ella lo aveva spinto, tutt'a a un tratto, nella stanza illuminata, arrestandosi, mezza avvolta tra le tende dell'uscio, con vivissimo stupore negli occhi dilatati.
- E siete venuto?... A quel patto? -
Alberto non aveva forza di rispondere, intimidito da quegli sguardi che lo scrutavano, da quell'esotico accento che dava alla parola un'espressione piú efficace, quasi un significato nuovo e profondo, che nessuno avrebbe mai sospettato.
- A quel patto? -
Ella lo ripeteva con una specie di malvagia durezza nell'atteggiamento delle labbra e nella voce; diffidente, immobile fra le tende grige, quasi in mezzo a nube che dovesse, da lí a poco, avvolgerla e farla sparire dagli occhi di lui.
- Grazie! La ho vista da vicino... Ho inteso la sua voce... Mi basta!... Mi faccia morire!... Mi basta!... - balbettò, fissandola con supplichevole sguardo.
Tutto quel che provava era cosí assurdo, cosí incredibile e cosí immensamente dolce, da farlo soffrire piú di ogni tormento di desiderio, piú d'ogni smania di speranza, piú di ogni angoscia di disperazione in quei tre mesi provata.
- Sedete - ella disse, slanciandosi per allungarsi nella poltrona dirimpetto a lui. - Vi ho creduto. Vi conoscevo, da un pezzo, avendovi notato tra la folla; mi seguivate dovunque!... Vi ho creduto, perché ho visto prima i vostri sguardi... Sono una donna come le altre... ma fino a un certo punto. Un'altra, infatti, non avrebbe accettato; io sí. A qualunque altra mancherebbe il coraggio di dirvi: «Ecco un veleno che non perdona; bevete... e baciatemi!» Non mi avete proposto questo?
- Sí!...
- E se io non avessi risposto? Che avreste fatto?
- Non lo so -.
Alberto se la divorava con gli occhi, ancora incerto s'ella fosse davvero lí, stesa su quella poltrona. La veste da camera di seta cinese, spumeggiante di trine, le modellava talmente alcune parti del corpo da svelarne tutto il meraviglioso segreto delle linee, che qua e là si perdeva nell'ondeggiamento della stoffa. Quella voce cosí meravigliosamente melodiosa che poco prima era risuonata pel salottino con accento vibrante, ora quasi mormorava. Col capo indietro, le braccia distese lungo il corpo e le dita delle mani incrociate, ella lo guardava fisso e continuava:
- Non avete ben riflettuto, forse; siete però ancora in tempo. La vita è cosí bella!... Voi amate, almeno vi sembra... Dicono che sia cosí delizioso! Amare! Illudersi! Essere amata dovrebbe essere delizioso egualmente... Ma la certezza?... E poi, tutto questo dura appena un istante. Riflettete. Io sono donna: ho quella curiosità che rende fin perverse e crudeli... Ho accettato per mera curiosità. Se voi avete calcolato su la debolezza del mio cuore, vi siete ingannato. Ve lo dico prima; non voglio avere rimorsi. Non c'è un uomo al mondo finora che possa vantarsi di aver sfiorato con un bacio le mie labbra, le mie guance, una di queste mani; e ne sono orgogliosa. Siete cosí vanitosi, cosí meschini, tutti! Con voi, è un'altra faccenda. Chi sta per morire è quasi uno spirito, non è piú di questo mondo. Tra voi e me starebbe un segreto che nessuno potrebbe rompere. E bello; è strano... Mi avete tentato... Sareste il mio fidanzato eterno... Forse allora vi amerei... Vi dovrei esser grata di avermi fatto provare un sentimento ancora a me ignoto -.
S'era rizzata sul busto, sporgendosi verso di Alberto, affascinante, col bianco volto dagli occhi nerissimi sotto le nerissime sopracciglia, i neri capelli raccolti sul capo in un gran nodo e una lieve ombra di ricci folli su la fronte marmorea.
- È vero che è delizioso? -
E taceva, aspettando la risposta.
- Tanto - disse Alberto - che dare per questo la vita mi par niente!
- Riflettete...
- Ora?... È impossibile! -
Vedendola scattare in piedi, Alberto si alzò anche lui; ma non fece neppure un passo per seguirla verso l'armadietto d'ebano dov'era andata a prendere un bicchiere d'oro e una boccettina d'oro finamente cesellati...
- Il sapore è cattivo - ella disse, versando un liquido latteo. La sua mano non tremava; il suo viso era impassibile; se non che le balenava negli occhi la crudele curiosità della donna che non indietreggia davanti a nulla, quando è tentata dall'assurdo e vuol vedere... e vuol sapere...
Ma che importava? Alberto stese il braccio, guardando quelle labbra leggermente increspate, quasi frementi pel prossimo contatto del bacio.
- No - ella aggiunse subito, scostando la mano. - Riflettete... No... No! Rifle... -
S'era interrotta, vedendogli sorbire il liquido lentamente, senza nausea... E appena Alberto le rese il bicchiere, s'avanzò risoluta, severa, con gli occhi socchiusi: poi si arrestò immobile, offrendo le labbra impallidite, e attese... Lo lasciò fare... Uno, due, dieci, venti baci... senza ch'ella si scotesse, senza che accennasse a renderne uno! Il leggiero tremito di tutta la persona, il rapido battere delle palpebre abbassate erano l'unico indizio da cui Alberto poté capire che stringeva fra le braccia un corpo vivo!

Come poco prima, gl'immani alberi del viale stormivano leggermente; nel cielo, d'un nero d'inchiostro, brillavano poche stelle...
Con la testa vagellante, e il respiro affannato, Alberto si sentiva avvolto da una vampa, da capo a piedi... Appena scostatosi dall'uscio che s'era subito richiuso... Gli era parso?...
No; il bianco fantasma era di nuovo lí, accennante; di nuovo, un mormorio di voce femminile si perdeva inintelligibile nell'oscurità... Egli si lanciò per esalar su quelle labbra l'anima agonizzante:
- Addio!... Addio! - ripeteva, aspirando il respiro di lei.
Ella intanto, con fremito lieve della voce, dolcemente, gli mormorava all'orecchio:
- Oh, no, addio! A rivederci, amore! -

Napoli, maggio 1888.



VII

PRECOCITÀ



Le due ville - una intonacata di rosso alla pompeiana, l'altra ancora rustica, coi buchi per l'impalcatura che le crivellavano la facciata e servivan di nido ai piccioni domestici - erano situate proprio dirimpetto, a mezzo chilometro di distanza. Quella, in cima al colle folta di mandorli e di ulivi, quasi mostruoso fiore rosso, mezzo nascosto tra il fogliame verde cupo; questa, in pianura, nel centro del gran quadrato della vigna, dove i larghi viali fiancheggiati da alberetti si tagliavano in croce.
E tutte e due, l'una appostata sul colle, l'altra quasi sdraiata nella pianura, tacevano come sonnacchiose per nove mesi dell'anno, fino ai primi di settembre. Allora, una mattina, svegliavansi a un tratto rumorose, formicolanti di gente. Dai terrazzini spalancati e dall'alto delle terrazze, i nuovi arrivati sventolavano i fazzoletti, per darsi il saluto. Poi, quasi ogni giorno, dal colle e dalla pianura, risuonavano prolungati gridi d'invito, messi fuori alla contadina, con le mani attorno alla bocca, perché la voce vibrasse meglio:
- Oh... ooh... Venitee!... Si va al fiumee!
- Síii! Síii! -
E, da lí a poco, vedevansi muovere in mezzo alla vigna gli ombrellini bianchi, gialli, rossi dei signori Morello e delle loro tre figliuole; o pure arrivavano di lassú gli Artale, presi a braccetto, da quegli innamorati ch'erano tuttavia, dopo quattro anni di matrimonio; la signora Luisa, bruna, con aria indolente e un po' sentimentale; il signor Carlo, bel giovane, fumando sotto il gran cappello di paglia e sorridente alla moglie.
- Come fate per essere innamorati, anche dopo quattro anni? -
La signora Morello li accoglieva spesso con questo saluto.
- Come potremmo far di meglio? - rispondeva il signor Carlo.
- Un figliuolo, che Dio vi benedica!
- Ah, per questo c'è sempre tempo! -
Sembrava che i giovani sposi non avessero fretta davvero; quel figliuolo che, dopo quattro anni, non si decideva ancora a venire, li tormentava però tutti e due come una spina nel cuore; specie lui, che non vedeva l'ora di far saltare sulle ginocchia un bel marmocchio da continuare il casato.
E nel settembre, ogni volta che le due famiglie giungevano in campagna per la villeggiatura, la signora Morello, amante degli scherzi, si metteva a canzonarli:
- Pensateci, cari. In campagna riesce meglio -.
Se ci pensavano!

E quell'anno ci pensavano un po' piú alla vista della piccola China, la nipotina dei Morello venuta a villeggiare con le zie.
- Che bella bambina! -
- E come è buona! -
La signora Luisa se la divorava dai baci, non la lasciava un momento. E la bambina sorrideva a tutte quelle carezze, con strano sorriso di donnina seria. Alta, gracilina, col visino affilato, i capelli biondi tirati indietro e spioventi su le spalle, se ne stava ora sulle ginocchia della signora, ora tra quelle del signor Carlo che le diceva sovente:
- Vuoi rimanere con noi? -
Ella non rispondeva, ma gli levava in viso i begli e pensosi occhi cerulei, stringendosi leggermente nelle spalle, per significare a quel modo che non dipendeva da lei. Furono presto intimi, dopo un paio di giorni.
China andava a passare intiere giornate lassú; e, quando tornava dalla zia, non era cosí allegra e cosí vispa, come quando correva sotto gli alberi inseguendo lo zio - lo chiamava cosí - lanciandogli sassolini, se quegli le facea scappar di mano un grillo prigioniero o una farfalla.
- Voialtri la viziate - diceva la signora Morello, vedendole venire le lagrime agli occhi ogni volta che non le permetteva di tornar lassú insieme con gli Artale.
- Ma che viziare! È cosí savia! -

Una mattina il signor Carlo, sdraiato sull'erba all'ombra di un ulivo, mentre leggeva un romanzo se la vide comparire dinanzi tutta rossa e scalmanata. Arrivava di corsa, con quel gran sole, senza ombrellino!...
- Zio, zio, buon giorno! E Zitto. Non sanno nulla che son venuta fin qui.
- Sola?
- Ora conosco la via; non ho paura -.
Il signor Artale voleva sgridarla; ma la bambina era cosí bella in quell'atteggiamento supplichevole, che egli non n'ebbe il coraggio.
- Siedi qui... O meglio, andiamo su, in casa.
- No, no, zio! Seguita a leggere -.
Egli cavò di tasca un altro sigaro, lo accese, e sdraiatosi di nuovo sull'erba, col capo appoggiato al tronco dell'olivo, prima di riprendere la lettura le disse:
- E tu? Ti annoierai.
- No. Seguita a leggere -.
Gli si era seduta accanto, sgualcendo una manata di erbette strappate allora allora: e mentr'egli continuava a tener dietro alla balorda strampaleria di quel romanzo, la bambina, diventata seria, col visino che aveva già ripreso il color bianco naturale quasi smorto, lo guardava attentamente, insistentemente, come in ammirazione.
Di tratto in tratto, il signor Artale levava gli occhi dal libro; e, incontrandosi con quegli occhi cerulei fissati su lui e che non parevano di bambina di nove anni, le diceva:
- Ti annoi, è vero?
- No, zio -.
Ed egli si stupiva un po' di quella vocina turbata. Quel giorno China volle restare lassú:
- Almeno una settimana!... A voi le zie non diranno di no -.
Infatti non dissero di no. Ma la bambina non fu piú allegra come prima.
- Che hai? - le domandava la signora Artale.
- Niente. Perché?
- Non ti diverti. Stai seria seria.
- No, zia, t'inganni. Sto tanto volentieri quassú! -
I tratti del suo visino ovale tornavano ad animarsi soltanto allorché il signor Carlo le diceva:
- Andiamo a fare una giratina, intanto che la zia fa preparar la tavola -.
Ella gli saltava al collo, gli dava un bacio, e poi lo prendeva pel braccio, con una carezza, accostandosi al viso la mano di lui e tenendovela stretta stretta.
- Come si chiamano questi fiori gialli? - gli domandò una volta.
- Denti di leone?
- E questi altri?
- Bacia piede, se non sbaglio.
-... Mi vuoi bene, zio? - disse dopo un momento di silenzio.
- Certamente.
- E... alla zia vuoi bene molto?
- È mia moglie.
-... Piú di me?
- Sei curiosa oggi.
- Dimmi: se fossi tua figlia, mi vorresti bene piú assai?
- Chi lo sa? Forse allora tu saresti cattiva.
- No, non voglio essere tua figlia.
- Perché?
- Perché!...
La sera, chiese d'andar a letto di buon'ora:
- Mi sento stanca.
- Com'è gracile questa bambina! - diceva la signora Artale al marito, raggiuntolo sulla terrazza per godersi il fresco insieme con lui.
- È cosí nervosa, cosí impressionabile! - egli rispose. - Poco fa si è messa quasi a piangere perché non ho voluto lasciarmi baciare due volte di seguito.
- Potevi contentarla, poverina.
- Ella trema tutta quando bacia.
- Non mi è parso.
- L'ho notato io, da qualche giorno.
- Perché deve tremare?
- Perché è troppo sensibile. Questa bambina soffrirà molto quando sarà grande.
- Certe volte ha un visino, un visino!... Forse pensa troppo alla sua povera mamma. Se fosse nostra, Carlo!... Io già mi sono cosí presto abituata a vederla qui con noi, che quando non ci sarà piú mi parrà di avere un vuoto nel cuore.
- E com'è intelligente! Hai visto che bella letterina ha scritto al suo babbo? Non sembrava di lei; con un solo errorino di ortografia. È troppo sviluppata per la sua età... Morrà presto...
- Non farle cattivi prognostici... Carlo, se fosse nostra!
- Rimasero lí fino a notte avanzata, al lume di luna ed egli la baciava di tanto in tanto per consolarla che quella bambina non fosse di loro.
- Ne faremo una piú bella - soggiunse. -
E volle ridere; ma non gli riuscí.

Il signor Artale girava inutilmente il pomo della serratura per entrare nella stanzetta dove trovavasi l'occorrente per scrivere: l'uscio era chiuso col paletto interno.
- Zio, apro subito - disse all'ultimo la bambina.
- O che facevi lí?
- Nulla... Volevo scrivere -.
Era rossa in viso e abbassava gli occhi.
- Allora finisci. Scrivi al babbo?
- Sí... al babbo -.
Egli non badò all'aria imbarazzata della bambina e richiuse l'uscio. Tornò da lí a poco; ma China non c'era piú. E sedutosi al tavolino, visto sulla cartella d'incerato un foglio scritto a caratteri grossi, vi buttò gli occhi, distrattamente.
- Oh Dio! - esclamò. E rilesse, stupito.

«Carlo del mio cuore.

Ti voglio bene e ti ho dato il mio cuore perché tu sei bello. Ma tu non mi vuoi bene quanto alla zia. Io ti voglio bene con tutto il cuore e ti voglio per amante. Non dire niente alla zia. Ed ora che me ne vado mi sento morire perché ti voglio tanto bene. Dovresti voler bene a me sola che ti bacio e sono la tua fedele amante

China».


Il signor Artale non credeva ai propri occhi. Si era già alzato per chiamare sua moglie e far leggere quella lettera anche a lei, ma gli parve di commettere una cattiva azione.
- Povera bambina! Cosí precoce! -
E tornava a rileggere le ingenue parole: «ti voglio per amante... la tua fedele amante...»
- Chi le ha insegnato questo? -
Non rinveniva dalla sorpresa. Sentendo aprir l'uscio, nascose subito il foglio.
- Fa' presto, - veniva a dirgli la signora Luisa. - L'uomo ha fretta -.
Sceso giú con la lettera in mano per consegnarla al contadino, egli vide China che raccoglieva fiori di campo sotto i mandorli e ne aveva già fatto un bel mazzo. La bambina gli corse incontro, a testa alta, scuotendo i capelli sciolti, fissandolo in faccia, quasi per aver la risposta della sua lettera nel porgergli il mazzo.
- Portalo su - egli le disse severo.
La bambina impallidí, buttò via il mazzo e si addossò a un tronco di albero, piangendo.
- Cristo! - egli esclamò da sé. - China, vieni qui; non far la cattiva -.
Né si accorgeva che tornava a parlarle bruscamente.
Montò su, e disse alla moglie:
- Bisogna rimandare Chinuccia -.
La signora Luisa fece col capo un movimento interrogativo.
- Mi secca... Non siamo piú liberi! E poi, la viziamo davvero, come dice la signora Morello. Ora, guarda, è lí, a piangere perché non ho preso subito un suo mazzo di fiori di campo quando davo gli ordini al contadino...
La signora la trovò che non piangeva piú; masticava però la cocca del grembiulino, per rabbia.
- Sii buona: vieni a far colazione.
- No. Voglio andarmene dalle zie.
- Perché?
- Voglio andarmene! -
Il visino di China aveva già un'espressione cosí dura che la signora Artale stimò prudente non irritarla di piú. - Voglio andarmene... ora stesso!
- Sei cattiva. Lo zio non ti vorrà piú bene e neppur io, sai? -
La bambina fece una spallucciata sdegnosa, sprezzante. La signora Artale ne fu scossa. E dopo colazione, appena giunsero i signori Morello con le figliuole, gliel'accusò per gastigarla
- Oggi è stata cattiva; voleva andarsene via -.
- Allora resterà qui altri otto giorni - disse il signor Morello, senza togliersi la pipa di bocca.
China aveva tratto in disparte la zia Carmela, la minore delle signorine Morello, e le si raccomandava:
- Zietta, te ne prego, conducimi via con te!
- Non hai sentito il nonno? Resterai qui altri otto giorni. Perché tu fai la cattiva?
- No, no!... Voglio andarmene! -
Pestava co' piedi e aveva la vocina piena di pianto. - Dici almeno perché - soggiunse la signora Luisa irritata di quell'insistenza di bambina capricciosa. - Le zie possono immaginarsi che qui ti si maltratti.
- Voglio andarmene! -
Fu irremovibile; e la spuntò. Né quel giorno, né dopo, le si poté cavar altro di bocca.
Se gli Artale scendevano alla villa dei Morello, ella andava a nascondersi. Bisognava proprio scovarla e trascinarla innanzi ad essi per forza.
- E tutto questo perché? Perché Carlo, distratto, non prese da lei un mazzo di fiori!... È troppo sensibile - aggiungeva la signora Artale compassionandola.
Il signor Carlo, imbarazzato, taceva. E una volta che la signora Morello volle forzar la bimba a baciarlo e a chiedergli scusa, egli rispose:
- Non la tormenti... È cosí nervosa -.
Aveva rimorso di farla soffrire.
Il peggio fu quando ella parve proprio cambiata, tanto stava seria, muta, imbroncita, facile a piangere per un nonnulla. Mangiava poco, dimagrava a vista d'occhio.
- Questa creaturina minaccia di ammalarsi - dicevano le zie. - Forse per ciò è cosí intrattabile -.
E la mattina che la zietta Carmela, nel vestirla, sentí scottarsi da quel viso pallido e da quelle manine scarne: - La bambina ha la febbre - corse a dire alla mamma.
Le furono tutte attorno.
- Ti senti male?
- No.
- Il capo ti duole?
- No.
- Insomma?
- Non ho niente -.
Ma scoppiò in pianto tutt'ad un tratto.
- Questa bambina ci darà qualche grave dispiacere - disse la signora Morello a suo marito.
- Domani la riporterò in città. Se si ammalasse qui, sarebbe peggio - egli rispose, vuotando la pipa, impensierito.

Quindici giorni dopo i Morello interruppero la villeggiatura, richiamati dal loro figliuolo, vedovo da un anno. La bambina stava male assai, ed egli - che pei nuovi appalti di lavori ferroviari dovea assentarsi frequentemente - non voleva lasciarla alle mani della donna di servizio.
Gli Artale rimasero soli lassú. Il signor Carlo non riusciva a levarsi dagli occhi quella bambina impallidita a un tratto e che gittava via il mazzo di fiori di campo; gli pareva d'averla colpita a morte lui, di propria mano, in quel punto.
- Chi sa come sta Chinuccia? - diceva alla moglie, appena desto.
- Poverina!... Tu lo prevedevi: non camperà molto; è troppo sviluppata per la sua età -.
Per delicatezza, egli non sapeva decidersi a raccontarle tutto. E fu subito di accordo, quando sua moglie disse:
- Che facciamo qui, soli soli?

La signora Artale, entrata la prima nella camera della malata, sentí empirsi gli occhi di lagrime vedendo quel corpicino disfatto e quasi irriconoscibile. Pure la bambina le sorrideva e lasciava baciarsi. Ma tosto ch'ella s'accorse del signor Carlo, si voltò, accigliata, verso il muro; né volle piú muoversi, finché non si persuase che era andato via.
- Che ti ha fatto quel bravo signor Artale, da trattarlo cosí? -
China non rispondeva né alla zietta né alle altre, arcigna, coi lineamenti quasi cattivi. Dopo parecchie di queste scene, il signor Artale notò che i Morello lo accoglievano freddamente.
- Che sospettavano? Doveva mostrar la lettera per incolparsi?... Com'era già donna quella bambina! Lo faceva apposta, perché capiva di metterlo male coi parenti -.
E fece cosí fino agli ultimi istanti, quando la febbre gastrica, che stava per portarla via, le lasciava appena un barlume di vita negli occhi, dove il colore ceruleo si era mutato in grigio torbido.
Avean dovuto accorrere di notte, egli e la moglie. E in quella triste circostanza la signora Morello lasciò scapparsi di bocca:
- Che le avevate fatto?... Vi odiava! -
Il signor Carlo la prese per una mano e la condusse nell'altra stanza. Intanto ch'egli parlava, la signora Morello sentiva montarsi al cuore tutta la sua grande severità di mamma e di nonna: e appena ebbe letto due volte la incredibile lettera della bambina:
- È bene che sia morta! - esclamò singhiozzando.

Mineo, 8 dicembre 1884.



VIII

GELOSIA



Erano andati a nascondersi in quel nido di amore, perduto in mezzo agli alberi, come due uccellini per la cova.
- Ecco il nostro sogno diventato realtà!...
- A me pare piú sogno di prima! -
Rebecca lo guardava, sorridendogli amorosamente sotto l'ombrellino rosso che le accendeva il volto di riflessi di fuoco; e Massimo le andava lisciando la mano, quasi per accertarsi che non sognasse davvero
- Peccato che presto dovremo destarci!
- Se tu volessi! - disse Rebecca.
Egli rispondeva di no, scuotendo il capo:
- Meglio destarci e vivere d'un dolce ricordo, che doverci poi lasciare stanchi, annoiati forse, certo meno contenti e meno innamorati d'ora.
- Come sei scettico!
- No; solamente conosco meglio la natura umana. Che possiamo farci? È cosí -.
Rebecca sosteneva il contrario:
- Il nostro amore non va soggetto alla legge comune: è un'eccezione. Spesso io ho una specie di paura nel sentirmi vinta a questo modo; mi perdo dietro al processo lento, intrigato della nostra passione, covata nella lontananza e scoppiata finalmente quasi incendio che divori ogni cosa; e non riesco a spiegarmi in che maniera sia potuto avvenire, né come mi sia sviluppata tutta questa energia di sentimento, di cui finora mi ero creduta incapace...
- Tu mi aduli - la interruppe Massimo.
Ed ella gli rispose con una mossettina di broncio, seguita da un bacio lungo, nervoso:
- Se qualcuno ci vedesse! -
C'erano soltanto gli alberi lí attorno, sorridenti al sole con la fronda novella; c'era soltanto l'erba alta del prato e quei fiori primaticci che mettevano fra lo smeraldo tante vivacissime puntine di bianco, di giallo, di rosso, brillanti sorrisi primaverili.
- Senti? - gli disse. - Questi uccellini inneggiano al nostro amore.
- Diventi anche romantica?
- Cattivo! -
Tornavano ad abbracciarsi in piena luce, lieti di far cosí sotto quel cielo raggiante del piú bel sole di maggio, in quella solitudine della collina, dirimpetto alle montagne seminate di paesetti che si riflettevano, capovolte, nello specchio di acciaio brunito del lago di Como. Le giornate passavano senza che se ne avvedessero. E quando arrivava la sera e il sole tramontava lentamente dietro le colline scure, e per la campagna silenziosa s'udiva soltanto il pigolio di un uccellino errante d'albero in albero in cerca della compagna smarrita; e quando gli alberi, assaliti da fremito improvviso, stormivano nell'oscurità sempre piú densa, sotto il cielo imperlato dei primi tremolii delle stelle, si sentivano tutti e due stranamente sopraffatti dalla loro felicità; e tacevano, presi per mano, distesi sull'erba soffice, o appoggiati sul davanzale della finestra, vagando con gli sguardi per l'immensità dell'orizzonte.
Una volta ella gli domandò:
- Nessun'altra donna ti ha posseduto come me interamente, nel gentile mistero di un rifugio campestre?
- Nessuna!
- N'ero certa; nessun'altra ti ha mai amato a questo modo -.
E ricadevano nel silenzio. E la intimità di quell'ora solenne pareva li ravvicinasse maggiormente, facendoli divenire piccini piccini.

Glielo domandava spesso, con l'insistenza di chi ha paura d'ingannarsi:
- Davvero, nessun'altra donna? - Nessuna.
-... Proprio?
- Nessuna! -
Massimo, a quella gelosietta retrospettiva, le stringeva fortemente la mano, per rassicurarla, sorridendo...
- Maliziosamente! - ella notava. E gli occhi nerissimi le lampeggiavano quasi minacciosi sotto le sopracciglia corrugate.
Ah, ella avrebbe voluto far tabula rasa del passato di quell'uomo! Quali impressioni di altre donne gli rimanevano tuttavia vivissime nel cuore? Bastava questo sospetto perché la felicità di lei non fosse completa. Appena lo vedeva un po' pensieroso, gli si allacciava subito al collo, riscuotendolo con baciucchio smanioso, scottandogli le guance e le labbra con labbra infuocate da gelosa passione:
- A che pensi? Qual fantasma del passato ti si è rizzato dinanzi?... M'ami dunque cosí poco da non aver dimenticato ancora tutto, come io ho già dimenticato talmente tutto, che mi sembra di esser veramente viva soltanto ora, in verginale resurrezione di sensi e di cuore? Massimo rispose serio serio:
- Cominci ad annoiarti?
- Perché mi dici questo?
- Perché io mi sento cosí invasato dal presente, che non posso distrarmi un istante per pensare ad altro, come tu fai -.
Rebecca rimase muta e un po' mortificata. Aveva egli ragione? Non osava prestar fede a se stessa, neppure quando se lo teneva stretto stretto fra le braccia. Temeva di non aver tanta forza da fargli provare quell'abbandono assoluto ch'ella provava, quel confondersi e svanire di tutta se stessa in lui; sentimento nuovo e ineffabile, sublime rivelazione d'amore.
- Te l'ho detto anch'io.
- Sí, sí, hai ragione... Ecco intanto un gruppo di alberi all'ombra dei quali non ci siamo mai baciati -.
Il sole, che infiltravasi a stento tra il fogliame folto, pioveva miriadi di fiammelle d'oro su tutta la persona di Rebecca modellata dall'elegante abito grigio; e Massimo l'ammirava, socchiudendo gli occhi in quell'ora meridiana, quasi per riposarsi della lunga passeggiata. Si erano appoggiati con le spalle a un tronco di quercia, oppressi dal torpore delle cose dormicchianti, torno torno, sotto la vampa del sole, al sordo ronzio degli insetti, fra lo svolazzare irrequieto delle farfalle scappate dalle macchie all'urto dei loro piedi e del vestito di lei.
- Che sensazione! Fra questo deserto di verdura, par di essere a mille miglia da ogni centro di vita.
- Rimpiangi forse la vita cittadina?
- Io?... Vorrei vivere qui tutta l'eternità, come in un'oasi d'amore.
- A me invece - disse Massimo - basterebbe potere vivere in pace due sole settimane, il tempo fissato -.
Sentendolo parlare con quel tono scettico, Rebecca s'indispettí
- Pare che tu lo faccia apposta, per farmi capire che dubiti di me -.
Intanto cominciava lei a dubitare; e si crucciava tutti i giorni, per via di quel sospetto che le passava e ripassava insistentemente davanti agli occhi, velandole d'una leggiera nebbia gli ultimi sorrisi della primavera su la collina di Nesso:
- Come sono stupida con questa fissazione! Che deve importarmi del passato? -

Il giorno dopo però, quando nel rovistare alcune carte in fondo alla valigia di Massimo trovò un ritratto di donna, diventò pallida e ghiaccia.
- Non m'ero ingannata! -
Quella testina giovane e bella, ombrata dal cappellino a larghe falde, la guardava sorridente con grandi occhi profondi e immobili, staccata quasi in rilievo dal fondo sfumato che pareva la cingesse di una aureola, in lontananza di sogno...
E, barcollante, con quel cartoncino che le bruciava le dita, entrò nel salotto dove Massimo leggeva, sdraiato sulla sedia americana, dondolandosi:
- Chi è costei? - gli domandò con voce rauca dal turbamento che la sconvolgeva.
Massimo si era rizzato quasi per strapparle di mano il ritratto. Ella glielo porse, lasciandosi cadere sul canapè col volto fra le palme, la testa sui ginocchi.
- Che! Dici davvero? Rebecca! -
Soffocata dai singulti, ella non poteva piangere; e restava seduta, piegata sopra se stessa, premendo i pugni sugli occhi, mentre Massimo, cadutole ai piedi, brancicandole le braccia, l'andava ribaciando sulla fronte e su i capelli:
- Che sciocchezza! Per un vecchio ritratto di quattr'anni fa, dimenticato nella busta della valigia chi sa da quanto tempo!... Non rammenti? -
Appunto, perché rammentava, e Rebecca rispose: - È lei!... Colei che tu ami!... Io sono soltanto un tuo capriccio... Va'! Va'! Lasciami sola... Non ti voglio piú bene in questo punto... Va'! Va'! Lasciami sola -.
Da lí a poco però, il suo sdegno si scioglieva come neve al sole, fra le forti e calde braccia di Massimo che le susurrava all'orecchio:
- Hai torto. Sei una bambina! -
A quella voce, a quegli abbracci, no, ella non seppe resistere; e rialzò la testa quasi suo malgrado, ancora imbroncita, con gli occhi torvi, le labbra contratte, e il cuore che le tremava dalla soddisfazione di vedere Massimo cosí carezzevole, amorosamente fissato su lei.
- Sí, sí! Tu l'ami ancora! -
La protesta però le moriva su le labbra ridiventate rosse, e il vago sorriso delle pupille la smentiva.
- Non l'ami piú?
- No, te lo giuro!
- L'amavi piú di me? Quanto me?
- Perché fare confronti? Si può forse amar due volte allo stesso modo? E poi...
- E poi?...
- Fui certamente piú amato che non amassi; ne ho avuto fin rimorso.
- Non mentisci?
- Te lo giu...
- No, non giurare: la tua parola mi basta -.
E lasciò che Massimo le divorasse a furia di baci la mano ch'ella gli avea messo sulla bocca per impedirgli di giurare:
- Ah, quanto ho sofferto! Vedendo saltar fuori quel ritratto, mi sentii ferire da un pugnale... Però, però... se tu lo conservi gelosamente, vuol dire...
- Che mi è caro, non lo nego; ma come ricordo soltanto -.
Rebecca gli tese le labbra. E per parecchi giorni non ne riparlarono piú.

Una mattina, nella grotta della fontana, sul tappeto di musco, sotto i festoni di capelvenere che pendevano dalla volta e dalle pareti, a un tratto ella gli disse:
- Massimo, sono gelosa.
- Che assurdità! Di un'ombra?...
- Ah, non era un'ombra quando tu l'amavi e la baciavi e la stringevi fra le braccia!
- Povera creatura! Se ci vedesse e ci sentisse, come t'invidierebbe!
-... Piú bella del ritratto?
- Bellissima. In quel volto ovale e fresco la bocca sorrideva quasi sempre. Tu vedi che già posso ragionarne tranquillamente...
- E... dimmi: ti baciava meglio di me? Con questa foga?... Ti lasciava, come mi sembra che in questo punto te l'abbia lasciato io, qualcosa dell'anima sua dove toccava con le labbra?... Dimmi dimmi...
- No; era diverso.
- Già tu mi rispondi cosí per farmi gabbata e contenta, è vero?... E dimmi...
- Ancora?
- Sí, sí, voglio saper ogni cosa! Capisci? -

Quel viso ovale e fresco, dalla bocca sorridente ella se lo vedeva balenare davanti agli occhi in ogni momento della giornata, e la notte lo sognava: persecuzione e tormento che non le davano pace. In ogni occasione si sentiva spinta a domandare a Massimo:
- E lei?... Anche lei? -
E, subito dopo, si ribellava con alterigia di innamorata -
- Bellissima?... Forse! Insignificante però, si vede... Ah, la vorrei qui in un cantuccio, per farle capire come s'ama quando s'ama con questo fuoco che mi divampa nel petto!... È vero che uno, uno solo dei miei baci val piú di tutti i baci e di tutti gli abbracci di costei... dalla bocca che sorrideva quasi sempre? Rispondi: è vero?
- Che vuoi che ti risponda? Oh le donne! Come sono felici di tormentarsi da se medesime, quando non c'è chi le tormenti!
- Dici bene. Non voglio pensarci piú -.
Ci pensava piú di prima invece, quantunque non osasse dirlo, dopo che le era parso di scorgere una lieve traccia di malumore nelle risposte di Massimo. Ci pensava piú di prima, specialmente in quelle ore d'intimità e d'abbandono nelle quali ella sentiva invadersi da un furore di baccante, da una ferocia d'animale che vuol sfogarsi sbranando; allorché colei... dalla bocca sorridente le appariva bella e fresca, col volto ovale, gli occhi grandi e immobili sotto le larghe tese del cappellino, - quale l'avea vista nel ritratto - e le sembrava venisse a contenderle Massimo e a irriderla; quasi le gioie, le ebbrezze d'amore da lei credute cosa nuova e ineffabile, eccezione, rivelazione, fossero il fondiglio della coppa alla quale colei e Massimo avevano bevuto insieme; fondiglio spregiato e buttato via!... Oh, no, no davvero!
- Dio!... Tu mi fai paura, - le disse Massimo una volta.
- Mi par di impazzire - ella rispose.

Ed ecco che cominciava a sentirsi anche lui assediato da quella figura venuta a intromettersi in modo cosí strano fra loro: e il rimorso di essere stato un po' ingrato verso quella povera creatura, che lo aveva tanto amato e aveva tanto sofferto, tornava a farsi vivo sotto lo stimolo dell'irragionevole gelosia di Rebecca, riprendendo a pungerlo prima sordamente, poi con calda sensazione di fatto recentissimo, di ieri!
- Come non se n'avvede Rebecca?
- In certi momenti gli veniva di gridarle:
- Ma tu, imprudente, tu risusciti la tua rivale! -
E quando ella accennava a colei con l'ironica superiorità del possesso presente, e scherniva la povera dimenticata e lontana, per confermare in quel modo a se medesima il proprio trionfo, Massimo provava un indefinibile sentimento di tenerezza e di pietà per l'assente conculcata, che non si meritava tal oltraggio e non poteva difendersi.

Non si sentivano piú soli in mezzo alla solitudine della campagna. Un'eco della vita passata, e dalla quale avean cercato fuggire, vibrava forte nell'afa delle giornate estive, nel blando crepuscolo delle sere, nella misteriosa oscurità delle notti, e diveniva angosciosa per tutti e due.
- La colpa è di Rebecca! - pensava Massimo.
- La colpa è di lui! - pensava Rebecca che non riusciva a perdonargli la religione di quel ricordo. - Finché Massimo serba cosí gelosamente il pezzettino di carta fotografica su cui sta impresso quel ritratto di donna, no, non è possibile che io viva tranquilla. Come non gli è già venuto il pensiero di farmene un olocausto, in espiazione di quanto ho sofferto e soffro ancora? -
Aspettava che Massimo capisse e spontaneamente le dicesse: - Eccolo qui, gelosa! Strappalo, brucialo, fanne quel che tu vuoi! -
E quando si persuase ch'egli non capiva o non voleva capire, una mattina gli si piantò dinanzi, col viso sconvolto, il seno ansante:
- Mi vuoi bene? -
Massimo tentò di prenderla per le mani e attirarla al petto
- Sei bella, straordinariamente bella nel disordine mattutino
- Mi vuoi bene? - ella replicò - Sí?... Allora, distruggi quel ritratto, sotto i miei occhi -.
E lo trascinò verso la valigia. Massimo era impallidito.
- Tu lo vuoi? - domandò, guardandola fisso.
- Sí... Te ne prego!... Sono pazza... Soffro.
- Bada! - egli disse mostrandole il ritratto che gli tremava in mano. - Ti voglio tanto bene, che esito ancora. Sarebbe una viltà; ce ne pentiremmo subito tutti e due.
- Massimo!... Non ti ho mai visto cosí profondamente commosso.
- È vero. Da parecchi giorni accade dentro di me qualcosa di strano. Una mano crudele mi ha rimescolato in fondo al cuore, e le ha fatto venire a galla, tante cose che giacevano lí da gran tempo e vi sarebbero rimaste per sempre. Non te lo volevo dire, ma questa gelosia senza ragione, ma questi continui richiami verso un passato che ricordavo appena e - se talvolta lo ricordavo - mi lasciava indifferente... Sí, deve essere per questo, senza dubbio... -
Rebecca non lo lasciò finire e si lanciò verso il tavolino dov'egli aveva posato il ritratto. Dopo alcuni istanti, Massimo - che s'era voltato dall'altra parte, con gli occhi chiusi per non vedere il sacrilegio - la sentí avvicinare pian pianino, e sentí le delicate mani di lei volgergli dolcemente il capo verso il bel paesaggio del Gignous che pendeva dalla parete:
- Guarda! -
Dal cartoncino incastrato fra la tela e la cornice del quadro, nella luce calma della stanza, la bella testina della rivale sorrideva, con i grandi occhi immobili nel volto ovale, sotto le larghe tese del cappellino.
- Ed ora che ti so mio, tutto mio, non vorrai restare altri quindici giorni con questa povera matta che t'adora? -

Roma, 30 giugno 1883.



IX

«IDEM PER DIVERSA»



Mi era rimasto nell'orecchio il suono della sua voce mormorante: - Giorgio! Giorgio! - carezza vocale che mi aveva penetrato l'anima e tornava a farmi spasimare come nel triste momento dell'addio.
- Ti ricorderai di me?... Giorgio! Giorgio! -
Io non rispondevo, con uno stupido sorriso su le labbra inaridite, tenendola per le mani e premendomele sul cuore. Ella insisteva:
- Ti ricorderai di me? Le dicevo di sí con strette piú forti, impedendole di svincolarsi, dandole dei bacettini fitti fitti, per rapirle qualcosa da portar via con me, lontano, nella solitudine che m'attendeva, e dove non mi sarebbe bastato il solo ricordo di lei.
- Giorgio!... Giorgio!
Poi si era messa a parlare rapidamente, passandomi lieve lieve le mani sul viso, intramezzando le carezze con baci che mi sfioravano appena la pelle, e pure mi facevano scorrere brividi acuti per la persona; e aveva rammentato tutti i particolari del nostro incontro, del primo ritrovo, i mille incidenti delicati e gentili, i motti, i gesti, i paesaggi, le impressioni, gli oggetti, ogni cosa che riguardava la nostra breve felicità, quasi avesse voluto cosi imprimermi tutto nella mente e fissarvelo per sempre con quelle estreme carezze e con quegli ultimi baci.
- Ci rivedremo?
- Oh, sí!
Ella aveva fatto la domanda quasi rivolgendosi a qualche essere invisibile, a cui poteva esser noto l'avvenire; e al mio: - Oh, sí! - aveva scrollato amaramente il capo, con gesto di desolata rassegnazione.
- Ah, Giorgio, Giorgio! - Accento indimenticabile.
Ogni volta che aveva ripetuto il mio nome, mi era parso d'intendervi un significato nuovo, una dolcezza, una tenerezza, un abbandono sempre piú intimi, sempre piú profondi. Ero stupito ch'esso potesse assumere tanti e cosí diversi sensi dalla sola espressione della voce. E per ciò di lei, e di quel doloroso istante di separazione non m'era rimasto altro nella memoria; ma era tutto.

Ricevendo una sua lettera, appena letta l'intestazione: «Giorgio!... Giorgio mio!» l'illusione della sua voce si ripeteva vivissima. Ella scriveva con garbo e con semplicità, come sanno fare molte donne per l'invidiabile loro attitudine che ingentilisce anche le cose piú futili a traverso la scrittura. E la sensazione riflessa di quell'accento aggiungeva grazia alle cose da lei scritte, ne faceva spiccare la freschezza, la sincerità, dando alla parola muta l'attrattiva della parola parlata; come se la calligrafia vibrasse, e l'atteggiamento dei vocaboli e del periodo corrispondesse al movimento delle labbra nell'istante in cui la mano trasmetteva alla carta il pensiero.
Durante la giornata rileggevo parecchie volte l'ultima lettera, per procurarmi questa dolce sensazione e sentirmi ravvicinato a lei. La rileggevo la sera, prima d'entrare in letto, per cercar di rivedere la cara persona almeno in sogno; e spesso riuscivo nel mio intento. Appena ebbi notato che questo mi accadeva piú facilmente quando avevo aspirato a lungo il profumo di cui erano impregnati i fogli, potei rifarmi nel sogno quella vita d'amore che mi era vietato vivere desto. Il passato si ripeteva talvolta con sí strana precisione, quasi evocato da magico richiamo, che al destarmi la impressione netta e intensa mi faceva dubitare per qualche istante se mai non fosse stato vero che io avessi lasciata Silvia poco prima, dopo una passeggiata insieme o dopo un ritrovo.
Però i sogni che mi riuscivano piú cari erano quelli che non corrispondevano a nessun avvenimento reale di cui mi fosse rimasto traccia nella memoria. Mi sembravano proprio la continuazione del tempo felice ch'ella rifugiavasi tra le mie braccia quasi per frugarvi nuove delizie d'amore, e ci illudevamo dovesse scorrere eternamente a quel modo, convinti che nulla avrebbe potuto dividerci, tanto ci sentivamo uniti anzi diventati un'anima sola in un sol corpo! E mi pareva cosí anche se gli avvenimenti sognati, con la loro fantastica stranezza, mi rendevano avvertito che era precisamente il contrario.

La solitudine agevolava la notturna eccitazione della fantasia; la noia delle faccende d'ufficio, delle quali dovevo occuparmi per molte ore della giornata, mi spingevano a ricercare ansiosamente il benigno conforto di quell'eccitazione. Oramai non dovevo fare nessuno sforzo; chiusi gli occhi al sonno, quell'altra mia vita ricominciava, riattaccandosi talvolta al punto in cui era stata interrotta. E il piacere del ricordo mi riusciva cosí forte nella veglia, che per poco non mi convincevo che la mia vita reale fosse per l'appunto la sognata.
Cominciai con grandissimo gusto il giornale dei miei sogni. Ne trascrivevo a Silvia i brani piú interessanti; e se ella mi rispondeva in maniera da farmi capire che la cosa le sembrava impossibile, ne provavo stizza.
Spesso mi mettevo a riflettere intorno alla novità di quel caso, per tentar di spiegarmelo.
- Che mai c'è in questa donna di diverso dalle altre? - E riferivo tutto al mistero da cui ella era circondata per me. La conoscevo cosí poco! Di lei sapevo soltanto quel che le era piaciuto dirmi. Mi aveva detto la verità? Pareva di sí. E non avevo mai insistito per penetrare piú addentro nel suo passato, o nelle presenti condizioni della sua vita. C'eravamo incontrati, piaciuti ed amati; ci amavamo tuttavia; bastava.
- È forse piú bella di tant'altre capitate sul mio cammino? -
No; anzi non mi sembrava punto bella. Quegli occhi neri e grandi però erano improntati d'una mitezza ineffabile: quelle labbra, tumide e sbiadite avevano però un invincibile fascino, se sorridevano, se parlavano, se davano baci; quelle mani, né grosse né piccoline, ma elegantemente modellate, dalle ugne rosee, dalla pelle fina, morbide e tiepide di un tepore sempre uguale, erano però cosí affettuosamente carezzevoli, che, una volta toccate e strette, uno non avrebbe voluto abbandonarle piú. La sua persona era simile a quelle di molte altre per isveltezza e per statura, se non che aveva una rara semplicità di movenze e di gesti. Eppure!... Ma questo qualcosa di caratteristico che la distingueva era cosí sottile, cosí sottile da sottrarsi a qualunque analisi. Ne avevo una coscienza confusa: ne provavo una sensazione inesplicabile. Nessun'altra donna era mai penetrata cosí addentro nel mio cuore, né v'aveva mai esercitata cosí potente azione. La lontananza rinfocolava l'affetto, invece di spandervi cenere sopra.
«Tu dunque ti contenti dei sogni?» ella mi scrisse una volta.
Infatti era cosí. Dopo le impazienze e le smanie dei primi due mesi, non le parlavo piú del mio ritorno, non lo affrettavo coi voti, non computavo piú i mesi, le settimane, i giorni, le ore che si frapponevano inesorabili fra lei e me. Il giornale dei sogni, all'ultimo, aveva talmente invaso le mie lettere, prendevo tanto gusto nel notare quella vita fantastica a cui già s'era ridotta la felicità della mia forzata solitudine, che scrivendo provavo talvolta l'impressione di occuparmi d'un romanzo bizzarro, di un poema in prosa, di un'opera d'arte insomma, piú che di scriver lettere a una persona amata e lontana.
Ella non me ne faceva rimprovero «Giorgio! Giorgio mio!» Mi sembrava piuttosto sorridesse compassionevolmente, e non senza una certa soddisfazione di sentirsi adulata in quel modo. Soltanto una volta, dopo la narrazione d'un sogno che avevo chiamato il sogno dei sogni, tanto mi era parso meravigliosamente bello, ella mi scrisse: «No, caro; il sogno dei sogni sarebbe la realtà, se tu fossi qui.» E la sua risposta mi fece male.

Allora ignoravo gli effetti dell'azione dei profumi su l'immaginazione durante il sonno; ignoravo che un osservatore curioso era riuscito, prima di me, a crearsi sogni determinati, complicati, con l'aspirare diversi profumi ai quali era legato il ricordo di qualche cara persona. Credevo anzi che il vero provocatore di quei magici effetti, che mi stupivano e mi si erano ridotti indispensabili, non fosse precisamente il delicato profumo d'elitropio bianco preferito da Silvia, bensí quello, piú gentile e piú immediato, della sua mano, che doveva comunicarsi ai fogli da lettera nel non breve contatto, mentr'ella riempiva le otto o dieci paginette con la sua scrittura rotonda e chiara. Per ciò fui non poco meravigliato una mattina che mi svegliai senza aver sognato niente. E la mia meraviglia si accrebbe nei giorni seguenti, vedendo continuare la incresciosa interruzione.
Scrissi a Silvia una lettera affannata, piena di sospetti, di paure, di gelosie. Ero diventato superstizioso. Rileggendo piú volte, al solito, l'ultima letterina, m'era parso di scorgervi tra le righe qualcosa che non mi era mai balzato agli occhi fino allora: una certa freddezza che non poteva piú dirsi l'affettuosa rassegnazione alle dure circostanze per le quali dovevamo vivere divisi parecchi altri mesi.
Tempo addietro mi aveva parlato d'una corsa di un giorno in un paesetto vicino a quello dove il mio ufficio d'ingegnere mi teneva relegato; imprudenza da parte sua, ma ch'ella pareva assolutamente risoluta di commettere per verificare se le volevo davvero il bene che le mie lettere affermavano.
«Non mi fido delle tue parole; questa sequela di sogni mi rende incredula.» Poi, non me ne aveva piú parlato. Le rammentai quel suo progetto. Rispose: «Avevi ragione; sarebbe stato un'imprudenza. Non voglio crearti impicci: non voglio compromettere, per un breve godimento, la nostra felicità avvenire. L'ora del tuo ritorno si avvicina...» E la lettera seguiva, fantasticando le pazze gioie di quell'ora.

Come non m'ero accorto ch'ella aveva mutato profumo? Lo scopersi una mattina allo svegliarmi rattristato dal brutto sogno, dov'era inattesamente comparsa un'altra persona amata cinque o sei anni avanti, che mi era costata molte angosce, che mi aveva messo al terribile repentaglio di commettere o una viltà o un delitto, e alla quale non potevo mai pensare senza sentirmi correre un fremito da capo a piedi. L'avevo dimenticata da gran tempo... Fu cosí che riconobbi la sostituzione dell'iride fiorentina all'elitropio bianco. L'iride era il profumo dell'altra.
Scrissi a Silvia rimproverandola, e aggiunsi: «Non posso soffrire l'iride. Se mi vuoi bene, bandiscila subito.» Ma quando le lettere tornarono ad odorare di elitropio bianco, dovetti finalmente convincermi che qualcosa era venuto meno dentro di me, o tra me e lei; e n'ebbi strazio acutissimo.
Sentivo un gran vuoto nel cuore e, nello stesso tempo, una specie di stanchezza dell'amore e di lei; stanchezza, anzi sazietà, che conoscevo per prova, avendola sperimentata altre volte. Quantunque continuassi, prima di addormentarmi, ad aspirare il profumo dei fogli, i rari sonni avvenivano rapidi, sconnessi, quasi l'immaginazione fosse stanca e sazia anch'essa pel gran lavoro di tanti mesi.
Dal tono delle lettere, ella si avvide del mio cambiamento, e se ne mostrò afflittissima. Negai; non volevo farle dispiacere... «Giorgio! Giorgio!» Ora mi tornava insistente nell'orecchio la piú desolata delle sue inflessioni di voce al momento dell'addio; alla mia compassione s'univa un po' di rimorso.
«E i tuoi sogni?» ella mi domandò una volta. Ne inventai, per consolarla, per nasconderle la realtà di quel che provavo dentro di me. Avevo vergogna di mentire in tal modo, eppure continuavo a mentire.
Mi confortavo, pensando che la vicinanza avrebbe fatto sparire l'atonia del mio cuore. Le sue lettere, dopo che ne rilessi parecchie per confrontarle, per vedere se mai fosse avvenuto in lei qualcosa di simile, e se mostrassero anch'esse ombra di stanchezza e di sazietà, mi parvero uguali, affettuose, tutte con quell'aria di delicata rassegnazione che tanto mi piaceva. O dunque?

Il mio ritorno era prossimo. Ci pensavo con curiosità piú che con altro sentimento; cercavo di antivedere quel che sarebbe accaduto al nostro incontro. Ora mi osservavo freddamente, ragionavo intorno alle mie impressioni. Studiavo il fenomeno dei miei sogni, e mi pareva di trovare in essi il bandolo che doveva guidarmi verso l'esatta spiegazione del mio caso psicologico.
- C'è stata - dicevo - una semplice inversione. Quel che sarebbe naturalmente accaduto nella vita ordinaria - il lento maturarsi, l'affievolirsi dell'amore, la sua totale sparizione - per una serie di bizzarre circostanze, è avvenuto nei sogni. Identico processo; identico risultato. Nell'ovvio andamento delle cose, la lontananza avrebbe prodotto il suo immancabile effetto. Sopravvenuta un'eccitazione casuale, che avea tenuto attivo il mio spirito, come avrebbe fatto nella vicinanza il contatto di Silvia, la passione aveva proseguito il suo corso ordinario. Che questo fosse seguito nello stato di sogno invece che nella veglia, non voleva dir niente; non c'era discontinuità nella mia vita. Ed io, con grande stupore, mi trovavo nello stesso caso in cui mi sarei trovato se fossi rimasto sempre vicino a Silvia; solamente le circostanze esteriori sarebbero state diverse.
Confesso che questo mi faceva dispetto. Mi sentivo defraudato. Non rimpiangevo il mio amore; mi offendeva il modo con cui mi era stato tolto. Mi irritava, sopra tutto, il pensiero che la medesima cosa poteva esser avvenuta in lei, quantunque dalle lettere non trasparisse; ma traspariva forse dalle mie? Non m'ero affaticato a mettere in esse tutta la pietosa ipocrisia di cui è capace una creatura umana raffinata dall'educazione, dirò anzi, sofisticata dalla civiltà? Eppure non scusavo la povera Silvia. Inconseguente - me n'accorgevo - provavo contro di lei un vivo rancore, quasi mi avesse vilmente tradito, ed io le fossi rimasto immutabilmente fedele.

Mi aveva scritto che sarebbe venuta alla stazione; da un cantuccio, per non essere scorta da qualche persona conoscente, voleva vedermi scendere dal vagone e darmi il bene arrivato anche non vista da me. Mi avrebbe seguito o preceduto a casa, secondo le circostanze.
Non venne né alla stazione, né a casa mia. Mi scrisse lo stesso giorno del mio arrivo, per iscusarsi. Ci vedemmo due giorni dopo.
- Sognerai piú? - ella disse, ridendo.
Feci una mossettina con le spalle.
Non mi pareva lei. Gli occhi, le labbra, le mani, la voce... nulla, nulla della mia Silvia di otto mesi avanti! E odorava di quella odiosa iride fiorentina! Ella non ci aveva badato, venendo. Allora capii che soltanto la carta da lettere della nostra corrispondenza era stata profumata d'elitropio bianco per farmi piacere, proprio come, per non dispiacerle, io avevo inventato tanti sogni!

Roma, 31 gennaio 1890.



X

IL PICCOLO ARCHIVIO



- Oh, che gentile pensiero avete avuto! - esclamò Ludovico, vedendola entrare.
- Siete proprio malato? - rispose Maria, fermata, esitante, sull'uscio.
- Quasi, se una storta a un piede può dirsi malattia. Scusate tutta questa confusione... Non posso muovermi. Sedete qui, vicino a me. Se avessi potuto immaginare!... Per occuparmi, m'ero messo a riordinare il mio piccolo archivio...
- Del cuore!!
- Come avete fatto per indovinarlo subito?
- Si vede. Fiori secchi, lettere ingiallite, pezzettini di nastri, gingilli... Dovrei mostrarmi gelosa, farvi una scena...
- Il passato non può darvi ombra. E poi, per diventar gelosa, bisogna prima di tutto...
- Intanto il vostro piccolo archivio vi fa dimenticare d'essere cortese. Non m'avete ancora baciato, secondo il solito, la mano.
- Ve le bacio tutte e due.
- Non m'avete neppure domandato se sto bene.
- Siete la salute in persona!...
- Pare; ma vengo dal dentista. Ho passato una nottataccia. Devo essere orribile. Ho evitato di guardarmi nello specchio, per non farmi paura.
- Siete raggiante...
- «Di pallor», come si canta nel Ballo in maschera
- E il dentista...?
- Oh, no! Salendo le sue scale, mi son sentita guarire tutt'a un tratto; e son tornata via senza entrare. Portentoso quel professore!... Allora dissi: «Facciamo un'opera di carità cristiana, visitiamo un malato!» Il mio cuore ha questi slanci, qualche volta.
- Non vi fate piú cattiva che non siete. Siete cattiva abbastanza.
- Mi ringraziate cosí?
- Di che dovrei ringraziarvi? Avete detto: «È malato, è inoffensivo, andiamo dunque nell'antro...».
- Del leone? Diventate vano, sapete!
- ...e facciamolo arrabbiare, facciamolo ruggire; sarà un bel divertimento. L'antro è cosí solitario che non c'è nessun pericolo di compromettersi; ed io mi sento tanto forte da tenere il leone a distanza, anche se avesse il suo piú fiero accesso di febbre.
- È poi vero che i leoni abbiano la febbre?
- Dicono. Ma chi gli ha tastato il polso?... E siete venuta. Su dunque; fatemi arrabbiare, fatemi ruggire. Di nuovo quel dente?
- Sí, torna a molestarmi.
- Dente benedetto, se gli debbo l'incredibile fortuna d'una vostra prima visita!
- Prima ed ultima.
- Perché?
- Parto per Napoli.
- Lo dite in un modo!...
- Il ministro ha avuto l'idea di traslocare colà mio marito.
- In questo caso, il ministro propone, e la donna dispone.
- Non ho nessuna ragione per non andare.
- E me?
- Voi non siete una ragione. Ci amiamo forse? Di tanto in tanto, avete il capriccio o l'amabilità di ripetermelo; io ho sempre il buon senso di non credervi punto. Voi siete cosí scettico, cosí blasé, da non avervi a male, se non vi credo; ed io sono cosí buona da continuare a darvi la replica nella puerile commediola che vi piace di rappresentare. La cosa non può avere gravi conseguenze né per voi, né per me. La vita, per noi venuti qui da poco tempo, è tanto noiosa, che fin questa sciocchezza giova a distrarci. Perché dovremmo privarcene? Ora che lascio Roma, cercherete un altro svago, magari piú concreto; non penerete molto a trovarlo. Io, io... oh, io potrò farne anche a meno! So l'arte di annoiarmi, da un pezzo.
- Vi guardo a bocca aperta.
- Potete chiuderla. Ho detto.
- È impossibile che siate venuta qui unicamente per spiattellarmi sul viso certe cose somiglianti a impertinenze. Vi assicuro che un'impertinenza non cessa d'esser tale uscendo dalla piú bella bocca della cristianità, quale io giudico la vostra. Dunque quelle parole hanno un senso nascosto. Sarò sincero; anche con tutt'e due i piedi in ottimo stato, non avrei mai tanto talento di ermeneutica da poter tentare la interpretazione del grazioso indovinello da voi recitato con l'aria veramente incantevole d'un'attrice consumata. Siate compiacente, aiutatemi. Voi vorreste andare a Napoli.
- Non son io che voglio andarci, è il ministro che manda colà mio marito. La moglie, lo sapete, deve seguire il marito; è testuale.
- Voi vorreste andare a Napoli. Perché?
- Giacché volete saperlo, corro dietro a una avventura... romanticissíma. Amo, e mi credo amata. Tegolo sulla testa, fulmine a ciel sereno! Il famoso coup de foudre!...?... Inglese; biondo, bello, fatale, come lord Byron che non ho avuto l'onore di conoscere. Abbiamo flirtato... Si dice?
- Se vi fa comodo. Mi prendete forse per l'Accademia della Crusca?
- Abbiamo flirtato una settimana per le gallerie e per le chiese, fingendo di ammirare Raffaello e il Correggio, la Cappella Sistina e San Paolo, dandoci degli appuntamenti, senz'aver l'aria di darceli - un incanto! - e trovandoci insieme il giorno dopo, esatti fino a un minuto. Egli deve avermi scambiata per una principessa; niente di male: qui sono tutte principesse. Io gli ho fatto supporre che lo credo un principe del sangue, viaggiante in incognito. Se poi sarà un fabbricante di tele da vele, di rasoi o di saponetti di glicerina, non importa. E siccome mi ha detto che... la sua famiglia starà sei mesi a Napoli... perché una sorella di lui è mezza tisica, cosí...
- Tutto questo, scusate, mi conferma nella mia vecchia opinione che le donne, in generale, non abbiano molta fantasia, e le donne di spirito, in particolare, per gastigo della loro malignità, ne manchino affatto.
- Con voi non si può ragionare.
- Sragioniamo; sarà meglio. Malato, con un piede all'altro mondo, nel mondo della bambagia e delle fasciature, sono dispostissimo a dire la verità, e nient'altro che la verità. Non vi sembra che se cominciassimo ad amarci sul serio o, piuttosto, a persuaderci che ci amiamo sul serio, sarebbe una bella cosa?
- Domandatelo a mio marito.
- Scommetto che s'egli sapesse che stiamo ripetendoci da un anno questa storia che non ci vogliamo bene, che non possiamo amarci, voi perché non mi credete, io perché non ho ricevuto da voi nessun segno che possa permettermi la piú piccola illusione...
- Che cosa ci avete perduto?
- Il ranno e il sapone
- Parlate da lavandaio. Oh! Il mio lord non si permetterebbe mai simili espressioni.
- Non m'interrompete. Credete, dunque, che se vostro marito conoscesse la nostra suprema stupidaggine, non proverebbe un sentimento di profondo disprezzo per voi e per me?
- Mio marito è uomo di buon senso, uomo positivo. Egli suol dire che le peggiori sciocchezze sono le inutili. Amandoci sul serio, ne commetteremmo una di questo genere. A che scopo? Volete che v'enumeri i vantaggi della nostra condizione? Facendo le viste d'amarci, abbiamo tutti i benefizi dell'amore...
- Tutti? Oh no! Lasciatemi protestare.
-... senza nessuno degl'inconvenienti che l'amore per davvero ci getterebbe fra' piedi. Mi avete scritto bellissime lettere; le pubblicherò, dopo la vostra morte, e vi faranno onore; non v'adulo. Io v'ho risposto con altre... passabili, di una discreta ortografia. Non le veggo fra queste.
- Gli archivi ricevono unicamente le pratiche espletate.
- Sta bene; grazie. E in questo modo siamo scampati dal pericolo d'innamorarci, voi chi sa di quale strega; io chi sa di qual figuro. I veri innamorati scelgono sempre il peggio.
- Perché non sono il peggio? Eppure mi credevo abbastanza mostruoso, in tutti i sensi, da potere far perdere la testa alla donna piú savia!
- Ve lo ripeto: diventate vano... Le due e mezzo! Ho appena un quarto d'ora da concedervi. Se credete che sia venuta qui senza commozione...
- Possibile!... Quale?
- Quella di fare una cosa che non avrei dovuto, col pericolo...
- Quasi in questo punto di città non si fosse piú sicuri che nella campagna romana!
- Se poi credete che io sia rimasta qui un quarto d'ora senza provare il rimorso...
- Di che mai?
- D'aver interrotto il riordinamento del vostro piccolo archivio del cuore. Oh! Mi vi siete rivelato sotto un aspetto inatteso. La vostra meravigliosa sentimentalità - chi poteva supporlo? - mi sbalordisce, mi turba. Avete pianto, riprendendo in mano quei fiori secchi? Le vostre mani hanno tremato, riaprendo le lettere ingiallite delle vostre signore di tempo fa? Diciamo signore, cosí, in blocco. Non sono proprio sicura che qualche bella cameriera non si sia introdotta fra esse, in un momento di vostra distrazione. E farete dei versi su questo soggetto? Siete capace di tutto. Ne avete fatti per me, una sola volta, sei mesi addietro. Allora forse pensavate che, per farsi credere innamorato davvero, bisognava mostrarsi completamente ridicolo. Ora, con la storta a un piede e il piccolo archivio del cuore disperso sul tavolino, siete sublime a dirittura. Dovreste farvi fotografare cosí.
- Invece di muovervi il riso, tutto questo dovrebbe provarvi che ogni scettico ha il suo quarto d'ora di fede, come ogni credente il suo quarto d'ora di scetticismo; dovrebbe provarvi che quando un uomo del mio carattere arriva fino al punto di rimescolare con triste compiacenza le poche ceneri del suo passato, vuol dire che egli non ha nulla nel presente da eccitargli l'immaginazione, da fargli battere il cuore; e che il presente gli appare cosí squallido, cosí doloroso da spingerlo a voltarsi addietro, verso l'ideale; perché, se non lo sapete, l'ideale è dietro o davanti di noi; e noi non facciamo altro, in tutta la vita, che rimpiangerlo o corrergli appresso, senza chiapparlo mai.
- Continuate. Mi sento intenerire; preparo il fazzoletto.
- Voi tentate di far la brava...
- No; tento di restar seria, per non darvi una mortificazione... Altri otto minuti. Vorreste intanto farmi il piacere di guidarmi attraverso il vostro piccolo archivio del cuore? Dev'essere interessantissimo.
- Siete in vena di ridere... Ma, badate: parlo con tutta la serietà possibile! Non vi ho mai detto con tanta sincerità, con tanta profonda commozione come in questo momento...
- Ricominciate?
- Giacché siete in vena di ridere, ridete pure a spese delle mie illusioni giovanili, delle ardenti passioni dei miei vent'anni, dei miei amori fragili e passeggieri... che non sono stati i peggiori.
- Alla buon'ora! -
Ludovico rovistò fra le carte e gli oggetti sparsi sul tavolino e, scelti alcuni fiori secchi legati con un rozzo filo bianco, risprese in tono scherzoso:
- Fiori di campo. Mazzolino preistorico; 1866, data approssimativa. Allora amavo il rustico, l'ideale dell'ideale, la figlia del mio fattore. Tutte le belle mani di contesse, di marchese, di principesse, di semplici signore, strette e baciate dopo, non mi sono parse belle quanto quelle mani grassotte, gonfie pei geloni, e che facevano la calza. Purità, il tuo nome è Sedici Anni! Ogni volta che sento il profumo del fieno...
- Vi vien la voglia di mettervi all'erba?'
- Signora, rispettate almeno l'innocenza! - E rifrugato, continuò: - Età della pietra: lettera di quattro pagine, geroglifici primitivi. Non ne capisco piú niente, tranne che la sartina finiva con abbraccarmi e darmi mille bachi.?
- Che non fecero il bozzolo?
- Altro! Il mio primo rimorso. Se scriverò la mia vita...
- Leggerò allora questo capitolo, e procurerò di rabbrividire. Su, su, entriamo finalmente nei tempi moderni.
- La mia prima signora!
- Autentica?
- Autenticissima. Aveva un solo difetto: si metteva sempre a piangere, dopo. Non sapeva persuadersi, diceva, con che cuore poteva tradire un marito che l'adorava!... Cosa molto lusinghiera per me, ma che, ripetuta, mi seccava. E il suo tradimento...
- Vi tradí?
- Per veder di capire, con un altro, in che modo ella poteva tradire il marito che l'adorava!... Fui cosí bestia, cara amica, da provocare il mio rivale e buscarmi un bel colpo di punta al braccio, guaribile in dieci giorni. Questa è la lettera di congedo. Monumentale. «Ti amo troppo... Non ci vedremo piú!... Lasciami ai miei rimorsi! Clelia.» È il nome della sua cameriera: si firmava cosí per cautela.
- E quel porte-bonheur?
- Modernissimo, tutto quel che ci può essere di piú moderno. L'epistolario, in tre volumi, fu restituito all'autrice, meno queste pagine interessanti e questo gingillo che ha aderito al mio polso sette mesi, notte e giorno, testimone irrefragabile d'una passione degna di miglior sorte. Giacché questa volta fui io che presi la rivincita su la volubilità femminile, tradii per tradire. Il cattivo esempio della mia prima signora mi aveva cosí pervertito, che restai sordo ai pianti, alle imprecazioni, alle lettere di questa natura: «Mostro! Quel ch'io soffro, non lo saprete mai!» Infatti, non l'ho piú rivista... Era bella, proprio. E affettuosissima: troppo. L'ho rimpianta, ma non lo ha saputo mai.
- Pari e patta.
- Nastro contemporaneo. Una marchesa, vero genio epistolare: già voi altre donne siete tutte tante Sévigné inedite. Queste lettere, salvate a stento dal terribile naufragio della nostra passione, potrebbero, in mancanza di altre, farne fede. «M'hai lasciata or ora. Stanca delle divine ebbrezze...» Voi non amate il realismo; salto qualche frase. «Non posso far a meno di scriverti, di comunicarti le sensazioni che mi conturbano ancora...» Salto, salto... «Ho aperto la finestra. Che silenzio! Che calma! Gli alberi del giardino...» Descrizione, credetemi, che il Fogazzaro non sdegnerebbe per sua. «Gli alberi fremono d'amore sotto i pallidi raggi della luna. I fiori, mezzi addormentati, si bisbigliano, da un'aiuola all'altra, le loro confidenze... Un cane abbaia in lontananza...» Due pagine!... «In questo momento tu, forse, dormi. Oh, se sognassi di me!» Glielo confessai il giorno dopo: a mezzogiorno dormivo ancora, ma senza sognare. Quando amo in una certa maniera, dormo come un ghiro... Andate via?
- Sono edificata a bastanza!... Voi avete tre o quattro mie lettere, insignificanti. Passatele pure agli archivi... Credo che non farete cosí facilmente ridere con esse un'altra signora.
- Ah!... Voi dunque supponete...?
- Non suppongo nulla; giudico. Siete mostruoso davvero. Stavo per lasciarmi ingannare anch'io da codesta vernice di scetticismo che, forse, poteva nascondere un cuore buono e gentile... Mi avete fatto male, molto male!... Lo scetticismo è una malattia di cui si può guarire; ma il cinismo...
- Sono cinico?... Io?...
- Se c'è una parola che significhi qualcosa di peggio, suggeritemela; ve la dirò.
- Finalmente!... Oh, finalmente, son riuscito a strapparvi la maschera! Ho rappresentato cosí bene la mia parte...
- La risorsa è da uomo di spirito. Però voi avete detto che sono persona di spirito anch'io, e, per conseguenza, maliziosa.
- Vedete? Non mi difendo. Voglio darvi tutto il tempo di giudicarmi con calma e con imparzialità.
- Addio!
- Neppure a rivederci?
- Ci rivedremo senza dircelo.
- Sentite, Maria. Non mi fate il torto di dare importanza a uno scherzo, fatto piuttosto per mettermi all'unisono del vostro buon umore... di testa. Da un anno ci diamo la maggior pena del mondo per mostrarci l'una all'altro proprio il rovescio di quel che siamo. È stato un continuo scambio di assalti, di motti, di frasi, nelle quali le parole non avevano per nessuno dei due il significato ordinario. Ogni puntura era una delizia; ogni morsettino una felicità... Non lo negate...
- Io non fiato. Solamente vi avverto di risparmiarvi la pena di tanta eloquenza. Ora che fingete di parlarmi in serietà...
- Fingo!
- Vi credo assai meno di quando fingevate per chiasso. Oh gli uomini! Addio!
- E non potersi muovere per trattenervi!
- Piove. Non ce ne siamo accorti. Siete venuto ad abitare in un deserto. Non si trova mai una carrozza da queste parti. Mandate il servitore a cercarmene una.
- Potreste aspettare che spiova. Vedete? La Provvidenza manda la pioggia unicamente per prolungarmi il piacere di vedervi qui, di sentirvi parlare, e... di rappacificarci, forse... Sedete intanto.
- Guardo se spioverà presto.
- Sedete. Oramai lo so: noi ci amiamo!
- Davvero?
- Sí, noi ci amiamo. Ed è un peccato saperlo con certezza. Pensavo a questo vedendovi andar via... Ne avremo per due, tre settimane, per un mese al piú, e poi... Invece abbiamo durato quasi un anno nell'amarci inconsapevolmente. Ed è stato deliziosissimo.
- Se non siete un mostro, siete talmente pervertito...
- Siamo cosí tutti, chi piú chi meno, a questi lumi di luna di raffinatezza nevrotica. Il naturale, lo spontaneo, il primitivo non ci basta piú. È troppo semplice per la nostra esperienza e per la nostra malizia... Via!... Amiamoci!... Siamo sinceri almeno un momento. E cosí, se dovrete proprio partire, partirete fra due o tre settimane, fra un mese; qualche giorno prima che il nostro amore finisca. Faremo come coloro che si levano da tavola con un po' d'appetito. È igienico, dicono.
- Sciocchezze ne avete detto sempre; mai però tante e tante di seguito, quante da che sto qui!
- Dovreste esserne lieta. Una donna che ispira delle sciocchezze, è una donna veramente amata.
- Povere donne!
- Maria!...
- Avevo un triste presentimento, venendo qui. Non m'ingannavo. Perché non sono tornata addietro? Mi sarebbe rimasta l'illusione. Ho creduto a una lusinga del cuore, e ne sono punita. Meglio per me. Errore evitato, rimorso risparmiato. Ne avevo già uno: quello d'esser sul punto d'ingannare una brava persona che m'ama seriamente.
- I mariti non amano; tutt'al piú, vogliono bene.
- È preferibile.
- Ma è un'altra cosa.
- No, non vi credo, non voglio credervi. Sareste proprio perverso, se tutto ciò che dite fosse davvero quel che pensate, e di cui siete convinto.
- Non posso alzarmi, altrimenti mi butterei ai vostri piedi, per farvi la mia dichiarazione in regola... Siete cosí formaliste voi donne! Allora, probabilmente...
- No; non parlate cosí. Mi fate dispiacere ora.
- Che volete? Mi veggo in una certa situazione con questa storta, inchiodato su la seggiola...!
- Soffrite molto?
- Non me ne sono accorto da che voi siete in casa mia.
- Se prometteste di non scherzare piú sopra un argomento tanto serio...
- Ve lo prometto.
- Chi sa? Potrei venire qualch'altra volta...
- Non v'augurate, spero, che la mia storta duri eterna!
- Intendetevela col vostro dottore.
- Grazie.
- A rivederci... Ma buttate via tutti questi ingombri!... Ci tenete molto, insomma?
- Tanto!... Come terrei a conservare le vostre poche lettere, se un'altra mi chiedesse quel che voi chiedete...
- Oh no, no a rivederci!... Che tristezza!... Addio. Addio -.
Egli la seguí ansiosamente con lo sguardo, sperando non sarebbe davvero andata via. E quando la vide sparire, rimase ancora un momento con gli occhi rivolti verso l'uscio. Poi, riprendendo la occupazione interrotta:
- Tornerà - disse. - La credevo piú forte. Francamente, era meglio prima. Ed ecco un'altra pratica che s'avvia per l'archivio. La vita è cosí!

Mineo, agosto 1884.



XI

MOSTRUOSITÀ



L'amava, come un bruto, quantunque la sapesse non solamente indegna d'affetto ma di compassione.
- L'amo! Non diceva altro. Quando suo padre gli sputava in faccia il suo disonore con inesorabile crudezza di vecchio, Giovanni chinava la testa, smorto come un cencio lavato, e sentiva soffocarsi da sdegno tremendo, ma non contro di lei.
- Sta' zitto! - gli rispose una volta. - Sta' zitto, o mi faccio saltar le cervella.
- Ammazzati! - replicò il vecchio. - Sarà meglio per te, per la tua casa, pel nostro nome onorato -.
Non s'ammazzava, e non già perché gliene mancasse il coraggio; alla guerra, da volontario, aveva visto piú volte la morte faccia a faccia e non aveva mai avuto paura:
- Non sapea staccarsi da lei! -
Neppure allora ch'ella gli diceva sfacciatamente sul viso: - Che vuoi da me? Io non ti voglio -.
Allora gli occhi gli s'inumidivano, le gambe gli si piegavano sotto; diventava vile al suono di quella voce che lo rimescolava tutto; al fuoco di quegli occhi azzurri, scintillanti di disprezzo per lui e che pure lo intenerivano; al cospetto di quella superba figura di donna dalla carne che fremeva voluttuosamente fra le pieghe del vestito di seta, dai capelli d'oro smaglianti, e dalle labbra porporine umide sempre di baci. Gli bastava vivere accanto a lei, sprofondandosi ogni giorno piú nell'abbiezione, fingendo di non vedere, roso dalla terribile smania di voler tutto vedere, quasi per toccare il fondo di quell'abisso che gl'inghiottiva il cuore, la ragione, ogni cosa, e lo riduceva un animale. E a ogni nuova infamia di lei, si sentiva piú debole, piú vile - e piangeva, per lei.
- Povera creatura! La perversione dell'organismo la spinge a rotolarsi nel fango. Ha forse coscienza del male che commette? Difatti il maggior male lo fa a se medesima. La sua salute è mezza rovinata. Quando quest'eccesso di nervosità sarà passato, la vedrò tornare a me, buona, affettuosa come nei primi mesi del nostro matrimonio... -
La sua felicità era durata appena pochi mesí! E da due anni egli non aveva piú avuto un giorno, un'ora tranquilla, correndo ansante, tremante, dietro la vertigine di sensi che trascinava sua moglie; da prima sbalordito, incredulo, indignato; poi istupidito dal dolore; finalmente rassegnato e avvilito, come un cane rognoso che il padrone non vuol piú in casa e che va a guaire dietro l'uscio, quantunque scacciato col bastone.
E c'era mancato poco non fosse stato proprio bastonato, il giorno che voleva impedirle di andar fuori per una visita che pareva le premesse troppo. L'aveva incontrata sull'uscio del salotto, piú bella del solito, col viso acceso, stretta nel semplicissimo vestito di faglia nera che ne modellava il corpo come una tunica di statua greca; col seno rigonfio, e le pupille scintillanti sotto il velo abbassato fino a metà della faccia. Al vederla cosí, contrariata dalla di lui presenza e pur risoluta di andar fuori, Giovanni s'era sentito mordere il cuore.
- Non andare! - le aveva detto con voce tremante.
Ella fece una spallata e si fermò davanti allo specchio per aggiustarsi il cappellino.
- Non andare!
- Perché? - rispose, voltando appena la testa.
- Perché... voglio cosí! -
A quel voglio che gli costava un grandissimo sforzo, ella era scoppiata in un risolino ironico, sdegnoso, e aveva preso in mano l'ombrellino.
- Virginia!!!
- Sei impazzito? - rispose, sentendogli alzare la voce. -
Sí, si sentiva diventar pazzo al vederla andar via tranquillamente, quasi fosse stato nulla; e balzò a sbarrarle l'uscita col corpo che gli fremeva tutto, e gli occhi che non ci vedevano piú. Virginia si fermò, interdetta, e lo guardò fisso; poi, indietreggiando di un passo:
- Levati di lí! - gli disse con voce repressa: - levati di lí! -
Giovanni restava piantato lí, supplicando con lo sguardo, senza dir motto.
- Levati di lí! - ella ripeté.
Brandiva l'ombrellino, mordendosi il labbro inferiore, spirante minaccia. E Giovanni s'era fatto da parte e l'aveva lasciata passare, intimidito come un fanciullo, dando in uno scoppio di pianto, peggio d'un fanciullo, avvilito dalla coscienza della propria fiacchezza e pentito di quella resistenza servita soltanto a irritare sua moglie di piú.

Oh, ella sapeva di poter tutto su quell'uomo! Quando con arti da sirena gli buttava l'elemosina d'una parola dolce, o gli permetteva di prendersi qualche bacio su le labbra ancora calde d'altri baci, Giovanni dimenticava subito ogni cosa e le perdonava, ammaliato dai bagliori azzurri di quegli occhi, dalle carezze di quelle mani bianche e delicate che, senza tremare, gli passavano le dita tra i capelli, quasi mani di sposa immacolata.
- È un'infamia! La trista donna l'ha stregato! - diceva la mamma di lui. E i suoi pregiudizi da provinciale l'avevano fin spinta a fargli benedire di nascosto i vestiti dal parroco, per distruggere la malia: e neppur l'acqua santa era giovata! La povera donna malediva l'ora e il momento che ella e il suo vecchio s'erano risoluti a venire in Milano per agevolare la carriera del loro unico figlio. Soprattutto, non riusciva a darsi pace di aver favorito quel matrimonio, mentre suo marito non voleva saperne affatto d'una nuora cosí bella, cosí superba e che non gli pareva punto adatta al mite carattere del suo Giovanni. Per ciò, ora, ella se ne stava zitta quando suo marito buttava in faccia al figlio tutte le infamie della nuora; e si era sentita morire quella volta che il vecchio gli aveva detto: - Ammazzati! - ritto sulla persona, coi bianchi capelli che gli si sollevavano irti sul capo, tremendo come un giudice che pronunzi una sentenza. Da quel giorno, quel misero figliuolo era tornato in casa dei genitori due o tre volte soltanto, quando poteva essere sicurissimo di non trovarvi il padre. La voce compassionevole della povera vecchia gli addolciva il cuore. Ella gli dava un po' di ragione, non gli diceva: - Ammazzati! - non aveva parole dure per la disgraziata che, infine, portava il nome di lui.
- Credi, mamma, è una malattia come un'altra - le ripeteva sinceramente. - Un giorno dovrà guarire; guarirà! - E al vederlo cosí calmo, cosí rassegnato nel suo infinito dolore, ella non osava palesargli che giorno e notte pregava Iddio perché togliesse da questo mondo quella malefica donna che lo rendeva tanto infelice. Era sempre il suo bimbo quell'uomo di trentacinque anni, quel raro ingegno di architetto, cosí ben voluto da tutti per la squisita bontà del carattere. E nei momenti piú tristi, ella si stringeva fortemente al seno la cara testa un po' brizzolata e l'andava accarezzando, come faceva - anni addietro! - ogni volta che il babbo lo sgridava per qualche scapataggine da scolare.
Anzi ora la sua tenerezza materna era maggiore. Oh! Non ne dubitava piú: la megera glielo aveva stregato.

Quella sciagurata sguazzava intanto nel fango a testa alta, sorridente, senza curarsi di nulla. Dalla fiacchezza del marito si sentiva dispensata fin dall'obbligo di mentire. I suoi amanti non si contavano piú; non sceglieva, accettava quanti gliene capitavano tra' piedi. Tormentata da voglie e da capricci stranissimi, quando si sentiva o stanca o sazia, tornava, per contrasto, al marito. E allora erano settimane d'idillio, che lo rendevano felice, pover'uomo!
- Non l'avevo detto che sarebbe guarita? -
E faceva progetti di viaggi, di villeggiature, liete fantasie da innamorato, per sottrarla all'aria cittadina che doveva averle prodotto quello sconquassamento di nervi.
- Andremo a Nizza.
- No, in un posto solitario, su la riviera ligure - ella rispondeva con voce strascicante.
- Su la riviera ligure; sarà meglio -.
Giovanni non tentava spiegarsi quell'improvviso cambiamento
- Misteri dell'organismo! -
E le andava dietro, da una stanza all'altra, zitto, dimesso, aiutandola a riporre questo o quello oggetto, come il giorno che eran partiti per il viaggio di nozze.
Con la veste da camera di cascimirra celeste ricamata in bianco, e i capelli che le cascavano in pioggia d'oro dietro le spalle, Virginia aveva qualcosa di verginale nell'aspetto, qualcosa d'immensamente dolce, allorché i suoi occhi si velavano di una sfumatura di tristezza. Giovanni se ne sentiva turbare fino al midollo delle ossa. Ah, quella gola e quel collo, staccantisi con toni lievemente dorati tra il biondo dei capelli e la candida spuma delle trine che guarnivano la scollatura della veste - gola, e collo da regina! Egli non si saziava di baciarli; li avrebbe anche morsi, se non avesse temuto di farle male e di romper cosí l'incanto del sogno da cui non voleva svegliarsi.

Queste tranquille giornate di preparativi, passate in casa dalla mattina alla sera, con lunghi riposi su per le soffici poltrone del salottino o alle finestre dell'appartamento che davano sulla via Principe Umberto, gli rimanevano impresse nella memoria proprio come un sogno quando l'incanto si rompeva, pur troppo!, come gli aveva prognosticato suo padre. Il vecchio non sapeva darsi pace. In che modo un uomo cosí intelligente, vero artista nella sua professione, lasciava calcarsi, senza lamento, dai fangosi stivaletti di una miserabile che la nostalgia della mota trascinava pei rigagnoli, frenata appena appena dalle ipocrisie sociali?
- Che posso farci? Ella si è impossessata assolutamente di me. Me la sento nel sangue, nelle fibre, nell'anima! Che posso farci?
E quando apprese che anche lei, finalmente, trovato un padrone, si era fermata nella sua corsa vertiginosa, e che il nuovo amante la dominava, alla sua volta, da tiranno, e la faceva piegare alla propria volontà quasi pezzetto di cera da modellarsi col calor delle dita, Giovanni si rallegrò dell'avvenimento come di beneficio immenso. Ed era grato a quel mostriciattolo scarno, nero, nano, dal naso spropositato, dalla testa pelata piú di una zucca e che non giungeva a mascherare la bruttezza con la raffinata eleganza dei vestiti, gli era grato della sosta prodotta nella vita sfrenata di Virginia. Fino a questo era arrivato!

Ella era felice di sentirsi interamente assorbita da quel mostriciattolo che già la trattava con pochi riguardi, troppo sicuro del fatto proprio. E quando la minacciava di piantarla, senza tante cerimonie, se ella resisteva un po' a qualche dispotico capriccio di lui, Virginia rompeva in pianto come non aveva mai fatto. Le avesse ordinato di leccargli le scarpe, e lei si sarebbe buttata carponi, a leccargli le scarpe, come una bestia domata; e sarebbe stata orgogliosa di quella viltà, tanto sentivasi ardere, la prima volta, da passione vera, di quelle che scoppiano come mine nelle profondità dell'organismo.
Per lui, per quel mostriciattolo, una mattina Giovanni se la vide comparire dinanzi bella e sfacciata come una cortigiana, con tutte le tenerezze ch'ella sapeva mettere nella voce, e tutte le seduzioni che le vibravano dalla persona, da quegli occhi azzurri, limpidissimi, da quelle labbra porporine che gli imprimevano un bollo infocato su le carni le poche volte che le toccavano. Da parecchi giorni, gli si mostrava insolitamente gentile e premurosa. Due o tre volte era andata a trovarlo nello studio, fra quei larghi tavolini ingombri di disegni, di matite, di regoli, di compassi, di pennelli, di vasetti d'inchiostro di China. S'era anche fermata a guardare il proprio ritratto incastrato nella magnifica cornice dorata, ritratto che era stato la disperazione del Cremona quando lo aveva dipinto, ed era riuscito un capolavoro, con la bionda figura che veniva innanzi sul fondo grigio e il sottile tralcio - poche foglie verdi e pochi fiori cerulei - che le si rizzava a lato elegantissimamente. Tutte e due volte era entrata con qualche esitanza, senza saper dire perché, quand'egli le aveva domandato se le bisognava qualcosa; e, dopo d'essersi aggirata con aria indolente fra quei tavolini, buttando stanche occhiate su i disegni, domandando rare spiegazioni, era andata via.
- Vuoi qualche cosa? - aveva insistito Giovanni, facendosele accosto, accompagnandola fino all'uscio.
- No - rispose. - Volevo... volevo soltanto vedere se eri solo -.
Gli avea lasciato però nella stanza il forte profumo femminile che lo inebbriava, che gli faceva girare la testa e non gli permetteva piú di lavorare. Poi, tre giorni dopo, era entrata risolutamente, sul punto che Giovanni usciva di casa per un affare importante.
- Senti! - gli disse, tenendolo per le mani, guardandolo negli occhi con sguardo da maga... - Non mi dirai di no!.... Giovanni si sentí rammollire le ossa e dové sedersi su la prima seggiola che gli capitò sotto mano; accennò di sí col capo e aspettò che parlasse. Allora ella gli si sedé sulle ginocchia.
- Senti! - riprese a dire... - Farai di me quel che vorrai... Non ti darò piú il minimo dispiacere... Sono stata una pazza... Perdonami: sei tanto buono!... Ma... ho bisogno di tremila franchi, oggi stesso, fra due ore... Non mi dirai di no!... La sarta... i fornitori... certe cambiali, capisci... -
Non le diceva di no, certo. La guardava, muto, sbalordito di quella richiesta alla quale sapeva di non poter soddisfare interamente cosí presto com'ella voleva. Ah! Se si lasciava sfuggire quell'occasione che gliela rigettava tra le braccia, non l'avrebbe mai piú riafferrata. Questa idea lo atterriva.
Ella era rimasta seduta su la poltrona osservandolo di traverso, trattenendo il respiro, mentre Giovanni rovistava in fondo alla cassetta di un mobile, nell'angolo piú scuro della stanza. E allorché lo vide ritornare contando i biglietti di banca gialli e rossi che teneva fra le mani, gli corse incontro e lo baciò in fronte. Giovanni voleva parlare, ma ella gli turò la bocca, carezzevolmente:
- Non scusarti se non mi dai di piú! -
E calcò i biglietti nella tasca del vestito, con gli occhi nuotanti in un'onda di soddisfazione straordinaria, le mani che le sbalzavano dall'agitazione, le gote fiammeggianti sotto i riflessi d'oro dei capelli, le labbra increspate dal convulso della vittoria.

Lungo la strada, Giovanni cacciava via, con un gesto vago, la importuna mosca della riflessione che veniva a ronzargli dentro il cervello per quelle tremila lire...
- È la prima volta che mi chiede denaro. E lo ha chiesto in un certo modo!... Chi sa?... Non è cattiva, no; non è cattiva. Forse, se avessi saputo ben guidarla...! Questa volta però i sintomi della guarigione sono proprio evidenti -.
E alzava la testa e apriva i polmoni, per respirar meglio l'aria ossigenata dei giardini pubblici che gli sorridevano d'attorno con le magnolie, i cedri del Libano, e le aiuole tutte fiorite.
- Come sarei stato felice, se avessi potuto prendere, lí per lí, le tremila lire e mettergliele in mano! -
Ma sapeva benissimo dove andare a trovare il resto; per ciò era tranquillo. Quegli azzurri occhi sereni, quelle tiepide labbra porporine, quel tesoro di capelli biondi gli facevano risplendere in cuore un sole assai piú bello di quello che stendeva i suoi strati d'oro sul verde dei prati e su la polvere bigia dei viali. Qualcosa gli cantava dentro, assai piú dolcemente dei calenzuoli e dei cardellini che cinguettavano tra le fronde degli ippocastani, tremolanti in quel brulichio di luce.
Aveva fretta, e intanto indugiava.
- Aspettino! Voglio godermela intera questa festa che mi folleggia dentro improvvisamente, quando meno me l'attendevo -.
E lungo il corso Venezia si fermava davanti le vetrine, guardava le stampe in mostra, i pesciolini dorati dell'acquarietto di un salumaio, e il via vai della gente, delle carrozze, degli omnibus, tutta la ressa della vita cittadina che non riusciva a reprimergli l'intimo tumulto.

Aveva salito con passo affrettato le scale di casa, tenendo stretto nel pugno l'involtino delle altre mille e cinquecento lire ch'era andato premurosamente a farsi prestare da un amico. Sentendo una voce d'uomo nel salottino, s'era fermato; poi, in punta di piedi, era andato ad appostarsi dietro l'uscio dell'altra stanza, da dove poteva ascoltare e vedere senz'essere scoperto. Il cuore gli sbalzava con ispasimo, mentre osservava dal buco della serratura, il mostriciattolo dell'amante raggirarsi pel salottino su e giú, con le mani in tasca e il naso enorme all'aria, intanto che Virginia gli parlava da una poltrona, seguendolo con gli occhi, beata; e quegli, per risposta, scrollava le spalle, faceva smorfie, non voleva crederle; e mandava fuori grugniti, sprezzante, da padrone che non si degna di rivolger la parola a una schiava. Gli occhi gli si annuvolarono, gli orecchi gli zufolarono...
In quel momento non pensò piú alla propria onta, no, ma all'avvilimento di lei in faccia a quel rospo ch'ella avrebbe dovuto schiacciare col tacco degli stivalini! E quando vide che colui, strappatigli di mano i biglietti di banca e contatili, glieli schiaffava in viso e alzava la mano per picchiarla, si sentí colpito lui sul volto, a traverso l'uscio. Dentro, una molla gli scattò. Il mostriciattolo non aveva avuto tempo di scappare all'urtone che aveva quasi fracassato i battenti. Con le mani fra' capelli, senza un grido, immobile, Virginia guardava atterrita i corpi, aggrovigliati come due serpenti, che si divincolavano sul tappeto in lotta feroce Il nano guaiva fra la morsa di quelle braccia di acciaio, sotto quei pugni che gli piombavano addosso come colpi di maglio e gl'illividivano e gl'insanguinavano la faccia.
- No, Giovanni! No, Giovanni! - balbettava Virginia con voce strozzata. - No, Giovanni!
Giovanni però non le dié retta finché non sentí quella carogna quasi sgonfiarsi come un otre e restare immobile sul pavimento.

Piú morta che viva, ella si lasciò prender per mano dal marito. Giovanni, diventato calmo a un tratto, vergognoso d'essersi lasciato trascinare a un atto insolito, già pareva un altro, con quelli sguardi concentrati, tutto sudicio, tutt'arruffato.
- Bada! - le disse, spingendola bruscamente in camera. - Se ricominci, ti tiro addosso come a una cagnaccia arrabbiata! Parola d'onore, ti tiro addosso come a una cagnaccia arrabbiata! -
Ah, questa volta egli diceva davvero!
Cosí avvenne in lei una trasformazione incredibile. Nei primi giorni si sentiva stordita; e guardava, indignata e diffidente, l'uomo da cui vedevasi soggiogata con tanta violenza e in un modo che ella non giungeva a spiegarsi. Dunque suo marito non era l'essere fiacco da lei creduto fin allora? E lo fissava, attratta da crescente ammirazione di donna che non sapeva piú rivoltarsi, con avidità nuova, con curiosità strana, alla quale si mescolava, di giorno in giorno, un sentimento indefinito... - Di gratitudine? Di affetto? - Non lo capiva bene; ma certamente qualcosa che la meravigliava e la deliziava, qualcosa che la faceva rimanere come tra sonno e veglia, con la dolcezza del sogno e la paurosa coscienza ch'esso dovesse subito finire...
Giovanni, invece, come piú si andava accorgendo del mutamento di lei, provava forte nausea, repugnanza invincibile per la creatura cosí perdutamente adorata quando prodigava il bel corpo agli innumerevoli amanti. La guardava appena, le rispondeva con soli monosillabi, lasciando ben scorgere dal suono della voce, dalla glaciale cortesia dei modi, la sorda irritazione prodottagli da quell'umile pentimento, infame profanazione dell'amore, com'egli lo qualificava ripensandoci su giorno e notte. Perché ora, sí, lo amava lei, colpita profondamente da quell'atto di forza brutale che aveva lasciato mezzo morto sul tappeto del salottino il vigliacco che stava per picchiarla! Si desolava, lei, del freddo contegno di suo marito, che pure le usava la carità di non farle scorgere intera la forte nausea, la insormontabile repugnanza! Sí, gli si aggirava lei attorno, muta, con sguardi smarriti, dimessa come una serva, senza implorare pietà, mentre sentivasi rifiorir nel cuore qualcosa di nuovo, e tutto il passato le si andava dileguando via via dal corpo con le invisibili scaglie della pelle, che si rinnovava e diventava piú fina, piú trasparente, senza riflessi, d'un candore di marmo!
Quando si trovavano da solo a solo nel salotto - egli a sedere, coi gomiti appoggiati su le ginocchia, la testa fra le mani, la fronte corrugata, guardandola di sottecchi di tanto in tanto; ella, in piedi, discosta, presso la finestra o accanto a un mobile, bella sempre, ma a testa bassa e col cuore in tumulto - Virginia provava una contentezza ineffabile nel vedersi là, dinanzi al marito, in quell'attitudine di donna spregiata che la riscattava ai propri occhi da tutte le colpe passate; timida e pur speranzosa sempre di vederlo alzare un bel giorno da la seggiola per avvicinarsele e dirle, aprendole le braccia: - Ti ho perdonato! -
Giovanni però non si muoveva, non le diceva nulla. Una volta, avendo ella osato accostarglisi e posargli una mano su la spalla, era balzato con uno scatto.
- No, no! - le aveva detto. - È impossibile! -
E quella voce dura, e quella faccia buia, l'avevano trafitta peggio d'un pugnale. S'era sentita agonizzare. Non era giusto che fosse cosí? Si meritava peggiore gastigo!

Su tutta la casa si era aggravato un silenzio penoso. Ella non metteva piú un dito sul pianoforte. La gabbia dei canarini pendeva ancora nel vano d'una finestra, ma un ragno v'aveva tessuto dentro la sua tela che dava un aspetto desolato alla gentile prigione di fil di ferro. I fiori, le piante da salotto erano morte; le foglie cascavano per terra al minimo alito. Non riceveva piú nessuno, non metteva un piede fuori delle stanze addette alla famiglia; contenta di quella tetra pace succeduta al gran chiasso precedente; inebbriata di sacrifizio per meritarsi una parola benevola, un'occhiata pietosa. All'inverso, Giovanni sentiva rivoltarsi ogni giorno piú dal lezzo del passato che si sprigionava da quel corpo di donna maculato di baci e di carezze altrui. Gli pareva che esso già si disfacesse dalla cancrena di tutti i turpi abbracciamenti ai quali s'era abbandonato.
Soltanto il ritratto del Cremona, quella divina figura immortalata dall'arte, gli faceva battere il cuore come una volta. Era stato fatto nei primi mesi del loro matrimonio quando lo splendido fiore della bellezza di lei non era stato ancora inquinato; e tutta la pudica innocenza della vergine diventata appena donna s'era rifugiata su la meravigliosa tela dove il pittore aveva diffuso piú largamente la magica fosforescenza del suo pennello. Giovanni rimaneva ore ed ore in faccia a quel ritratto, che talvolta gli si muoveva sotto gli occhi quasi agitato da soffio vitale; e se, dopo, incontrava per le stanze lei che lo guardava con gli occhi ingranditi nel volto pallido, ella gli sembrava un'ombra, un fantasma dei giorni tristi; e le voltava le spalle.
Poi non piú nausea o repugnanza, fu odio a dirittura. Perché quella donna restava lí? Perché aspettava d'esser scacciata via a colpi di granata, quasi immondezza? Perché non voleva morire, ma gli si teneva fitta alle costole simile a un cattivo destino? Dio! Dio!... Chi lo tratteneva dallo schiacciarla come un vile insetto, cosí? E una volta, avendola sorpresa piangente, diventò furibondo, cominciò a urlare:
- Ah!... Tu osi piangere? Ah!... Tu osi rimproverarmi, a questo modo, la mia immensa bontà?
Gli s'era inginocchiata ai piedi, credendo d'intenerirlo, e s'era sentita afferrare pel collo da due granfie di belva che tentavano strozzarla.

- Perché non me l'hai lasciata finire? - egli disse a suo padre sopraggiunto per caso. - Perché non me l'hai lasciata finire? -
Suo padre lo guardò stupito.
- Oh, mi sentivo piú felice... allora! - esclamò Giovanni. E scoppiò in singhiozzi.

Mineo, 24 luglio 1881.



XII

ADORATA



Intanto che sua moglie, fermatasi dinanzi al grande specchio dell'armadio, dava gli ultimi tocchi al vestito da passeggio, Enrico, tentando di abbottonarsi un guanto, seguiva con occhi innamorati i colpettini lesti lesti dati qua e là al cappellino e alle ciocchettine dei capelli arruffate sulla fronte, le nervose stiratine date con le punte delle dita ai merletti dei polsi, agli sgonfi del vestito, ai larghi nodi dei nastri di seta sul davanti; e seguiva, sorridendo, il lento girarsi della persona che si osservava nello specchio, seria, attenta, quasi studiasse i gesti e le mosse per una rappresentazione teatrale.
Poi Cristina si voltò a un tratto, nel pieno splendore della sua bellezza di bruna dagli occhi nerissimi, dalle labbra tumide e sanguigne, ritta sulla vita minutina, sporgendo fieramente il seno piccolo e sodo; e allora Enrico, con scatto irrefrenabile fece atto di volerla abbracciare e baciare in viso, esclamando:
- Come sei bella! -
Sua moglie lo respinse stizzita, ritraendosi subito indietro: - Vuoi brancicarmi il vestito?

Sempre cosí! Sempre cosí! Sin da quando egli passava e ripassava sotto la casa di lei, lasciando gli occhi al terrazzino dov'ella, d'estate e d'autunno, sedeva all'ombra della stoia messa a cavalcioni della ringhiera, tra i vasi di fiori e di basilico! Lavorava qualche gingillo seduta a fianco della vecchia zia che l'aveva allevata orfanella; e pareva una fata altiera che non si degnava di volgere la testa, mentre egli passava e ripassava, o si fermava lí sotto, col pretesto d'intrattenere un amico incontrato per caso. Enrico voleva farle comprendere che stava là per lei, unicamente per lei, invocando un'occhiata, una semplice occhiata! Ma Cristina non gli dava nemmeno a vedere di essersi accorta di quella cocciutaggine d'innamorato che aveva perduto la testa.
Sempre cosí! Sin dalla sera delle loro nozze, quando il suo sogno di studente diventò realtà per l'avvocato laureato di fresco; e i due sposini partirono pel casinetto del Rosmarino, verso le colline. La carrozza montava lentamente la salita dello stradone, tra i campi di frumento da una parte e i vigneti e gli uliveti dall'altra, colorati dagli ultimi raggi del sole al tramonto, nella blanda quiete della campagna, nella muta commozione di trovarsi insieme soli per la prima volta, pel loro viaggetto di nozze; capriccio a cui aveva accondisceso un po' di cattivo umore...
- Andarsene in villa! È strano; da noi non usa -.
Il casinetto del Rosmarino era stato trasformato. Riattato da cima a fondo, ridipinto di fuori e di dentro, sorrideva dietro il giardino di aranci, con le quattro finestre bianche nella facciata color rosa sbiadito, con la terrazza sul tetto ornata torno torno di vasi di fiori e, su, da esili archi di ferro rivestiti di rampicanti spioventi in festoni. Da parecchi mesi Enrico, preparando quel nido civettuolo alla loro luna di miele, godeva anticipatamente della sorpresa e del piacere che quella trasformazione avrebbe dovuto produrle; ma Cristina, appena messo il piede nell'anticamera, aveva fatto una mossetta:
- Dio!... Che sito di vernice!-
Enrico, mortificato, balbettò
- In verità, non mi pare...
- Mozza il fiato! -
Per scancellarle quella cattiva impressione, le disse: - Aspettami qui, un momentino -.
E tornato addietro poco dopo, presala per la mano, l'aveva condotta difilato dinanzi l'uscio della loro camera nuziale e ne aveva aperto i battenti tutt'a un colpo:
- Eh? -
La bella lampada di bronzo, pendente dal centro, inondava di una tenera luce azzurrognola le tende, le coperte bianchissime, le sbarre del letto di ottone che luccicavano nell'ombra, i pochi mobili di quel santuarietto dell'amore.
- Ma qui non ci si vede!... -
Ella non aveva detto altro; ed era rimasta su la soglia, imbroncita, guardando lí dentro con diffidenza.
Nella solitudine della campagna si era subito annoiata. Enrico voleva farla partecipare a quel suo profondo sentimento della natura che lo faceva uscire in continue esclamazioni di entusiasmo. Ella, invece, lo canzonava:
- Ah! Gli alberi! Il verde!... La pace diffusa!... Gli orizzonti larghi e tranquilli!... Infine, che conchiudono?... -
Pure a lui non pareva vero poter salire, passo passo, per le viottole della collina fiorite di stelline, di pervinche, di pannocchie di ligustro, con la sua Cristina al braccio, quantunque ella stesse muta, indifferente alla bellezza del paesaggio, agli sfoghi e alle confidenze. Enrico riandava le ansie, gli struggimenti di quegli interminabili cinque anni, quando si era giurato: - Sarà mia! Dovrà esser mia! - e non gli balenava lume di speranza, e non sapeva in che modo questo potesse accadere...
- Ed è accaduto!... Oh, come sei stata inflessibile e crudele! Le stringeva il braccio col braccio, le accarezzava la mano, ripetendole:
- Ora sei mia, tutta mia, è vero? E mi vorrai bene, è vero? Via, me lo merito un po' -.
Ella chinava appena la testa, approvando:
- Lo so già a memoria. Me l'hai detto tante volte.
- Ti annoi, forse, sentendotelo ripetere?
- Oh! -
Scuoteva il capo, facendo scoppiettare le belle labbra sanguigne; e rientrava subito nell'indifferenza, guardando attorno, lontano, con quegli occhi nerissimi, scintillanti di luce fredda, che facevano pensare agli occhi di una statua di santa, a qualcosa di soprannaturale, di misterioso, dinanzi a cui il povero Enrico si sentiva turbare.
Sempre cosí! Anche nelle ore piú intime, quand'egli avrebbe voluto trarre da quella bellissima statua vivente, una leggiera vibrazione di amore, un rapido slancio, qualcosa che rispondesse un pochino ai suoi caldissimi baci, alle sue strette appassionate. Ella gli si concedeva superbamente incurante, perché non poteva farne a meno, perché doveva essere cosí; nelle perfettissime forme del suo corpo però la vita batteva un ritmo calmo ed uguale, ed Enrico non era mai riuscito a sprigionarne una scintilla. Eppure, piú che amarla, egli l'adorava; cosí gli pareva convenisse a quell'altiero carattere che gli imponeva, a quel fiero atteggiamento di tutta la persona, della testa specialmente, dove gli occhi lampeggiavano con terribile tranquillità, dove le labbra tumide e sanguigne si raccoglievano, ai lati, in due fossettine sdegnosette, sorridenti di rado.
Ma non importava! Tale possesso, che non era possesso, gliela rendeva piú cara.
- Oh la sua vita di marito non si sarebbe affogata, come quella di tant'altri, nella noia della convivenza e dell'abitudine! Oh, egli avrebbe avuto ancora qualcosa da conquistare, qualcosa di meglio che non la mano e il cuore di lei: la sublime compenetrazione dei corpi e delle anime che egli stimava cima di ogni felicità quaggiú, anticipazione del paradiso... E nessun sacrifizio gli pareva soverchio per raggiungere questa cima... Era ostinato, instancabile... In questo modo si sarebbe meritato di vincere, e avrebbe vinto -.
Donna Momma, sua madre, che aveva subito fiutato il caratterino della nuora ed era andata ad abitare col fratello canonico per lasciarli piú liberi in casa ed esser libera anche lei, spesso gli domandava, quasi ironica:
- Sei tu contento, figliuolo mio?
- Felicissimo! - rispondeva Enrico. - Persisti ancora nelle tue ubbie?

Credeva di poter riuscire cedendo a ogni piú leggero desiderio che scopriva negli occhi di sua moglie, cercando anche d'indovinare, nei lunghi silenzi, i piú fuggevoli capricci che le passavano per la mente.
Nel salottino bianco dove ella soleva starsene sdraiata su una poltrona, il bruno della sua carnagione prendeva i toni caldi del bronzo e gli occhi sognavano sotto le palpebre abbassate a mezzo, fissati sopra le belle mani ornate di anelli che voltava di tanto in tanto.
Ora che aveva rinunciato, dopo sei soli mesi, all'esercizio della sua professione, perché Cristina non poteva patire il puzzo dei contadini che aspettavano nell'anticamera il signor avvocato e urlavano nello studio, pei loro affari, Enrico passava in casa gran parte delle giornate, attorno a lei; baciandole le belle mani affusolate; baciandole la fronte alta, ombrata da ciocchettine folleggianti; baciandole le tumide labbra sanguigne che parevano fatte apposta pei baci...
- E non ne davano mai! Ella lo lasciava fare, ma non lo ricambiava; e sbadigliava allorché quegli, per isvagarla, le raccontava o una storiella letta sui giornali, o qualche ricordo della vita di studente, o gli canticchiava nell'orecchio un motivo del Ballo in maschera, solleticandole le gote con la punta dei baffi, per vedere di stuzzicarla e di scuoterla.
- Via, lasciami stare!
- Ti annoi?
- In questa casaccia! Pare una prigione.
- Andiamo dalla mamma, dalla zia.
- Se per non annoiarmi debbo stare sempre in giro!...
- Ma è una casetta comoda, pulita, come ce n'è poche in paese. Forse, se vuoi, un pochino fuor di mano...
- Un pochino?... E le catapecchie lí di faccia?... E il pergolato da questa parte?... E il sudicio stallatico dall'altra?
- Che possiamo farci? -
E si tormentava, vedendo che ella non gliene ragionava piú, chiusa nella sua stizza mal celata. In verità, c'era da sentirsi irritare da quelle catapecchie affumicate, da quel pergolato che dava un'aria rustica alla via, da quello stallatico che appestava col suo puzzo di concime... Ah, se egli avesse potuto vendere quella casa, o comprarne un'altra!... Ma non era neppure da pensarci; sarebbe stato un tracollo.

Diventavano già un mezzo tracollo le troppe spese in vestiti, in oggetti di oro, in cosettine capricciose, tutte per lei. Ma ad ogni vestito nuovo che doveva umiliare amiche e invidiose, Cristina gli si mostrava, senza eccessive tenerezze, cosí riconoscente; ma ad ogni incalzante regalo di un paio di buccole, d'un anello, d'un braccialetto, usciva cosí a un tratto, sebbene per poco, da quel suo contegno d'altiera riserva: ma ad ogni bizzarro gingillo, lo ricompensava con cosí strano lampo d'affettuosa intimità, che Enrico - no, non era possibile! - non sapeva resistere alla tentazione di quelle attrattive.
La sua fissazione oramai era una casettina allegra in via Lunga o, meglio, nella piazza della Collegiata. Le poche volte che andava fuori solo, ronzava attorno a questa o a quella casetta di via Lunga, facendo calcoli e progetti; o, seduto davanti il casino, sotto la casa comunale, guardava con occhiate gelose i palazzetti che si pavoneggiavano nella gran piazza, coi terrazzini, le terrazze e le loro facciate ingrigite dagli anni ma ridenti di sole.
- Cosí avrebbe fatto fra non molto la bella casa dell'arciprete, ancora in costruzione! -
E sospirava, quasi ogni palmo di muro che cresceva sotto la cazzuola e il martello degli operai fosse stato un dispetto fatto a lui.
Andando a passeggio con la moglie, trovava sempre qualche pretesto per non farla passare di là; e, se non poteva farne a meno, s'ingegnava di distrarne l'attenzione dalla casa dell'arciprete, che veniva su a vista d'occhio nell'angolo fra la piazza e la via Lunga, ostentando il bel portone, le bugne, e i capricciosi intagli delle mensole di pietra bianca di Siracusa. Cristina non gli dava retta; e squadrava la facciata e l'impalcatura da cima a fondo, da una cantonata all'altra; e il suo dispetto a quella vista, tanto piú forte quanto piú chiuso, trapassava il cuore d'Enrico pari a una lama di coltello.

- Ho comprato la casa dell'arciprete, per farti piacere!... -
Cristina aperse tanto di occhi:
- Non è un cattivo scherzo? -
Enrico passò cosí la piú bella giornata di vita sua, aggirandosi con lei per quelle stanze appena rivestite d'intonaco grosso, tutte ingombre di materiali - travi, imposte senza ferramenti addossate alle pareti, fra mucchi di trucioli e fra arnesi d'ogni sorta - ma splendidamente ariose per la gran luce che vi penetrava dagli otto larghi terrazzini in quella giornata d'aprile.
- Povero arciprete! Non se l'è potuta godere.
- Ce la godremo noi - ella rispose.
E tornando a casa a braccetto, gli fece prendere un giro largo, per incontrare piú gente a cui poter rispondere: - Veniamo dalla casa nuova. Che bellezza!
- Sí, è proprio una bellezza - replicavano tutti; - ma, via, l'avete pagata salatina -.
Donna Momma, appena saputo quel colpo di pazzia di suo figlio, gli era piombata in casa come una bomba:
- Che? Hai dunque perduto la testa? E tu, tu te ne stai lí, zitta zitta?
- Io non m'impiccio di affari; mio marito fa quel che gli pare e piace - rispose Cristina.
Allora donna Momma alzò la voce contro suo figlio: - Grullo! Ti fai menare pel naso. Peggio per te!... Sí, mangerai sassi, con quella casa! Tuo padre ammassò la roba a furia di stenti, e tu la butti dalla finestra; non ti è costata nulla. Hai preso anche la laurea per chiasso.
- Zitta, mamma, zitta!
- Tua madre è una villana - gli disse Cristina quasi con le lagrime agli occhi.

Per piú giorni ella non riparlò della casa nuova, né di altro. Quando suo marito sfoggiava fantastici progetti per l'avvenire, si degnava appena di sorridergli, o gli domandava solamente:
- E questi lavori? Non finiscono piú. La colpa è tua; non sai far nulla alla spiccia -.
Né si accorgeva delle nubi che gli oscuravano di tratto in tratto la fronte, a ogni scadenza di pagamento, a ogni nuova spesa a cui egli si lasciava andare, preso da vertigine, quantunque capisse di commettere una pazzia. Né badava alle visite di quella faccia smunta e butterata di usuraio che veniva ogni tre mesi, tenendo in testa il cappellaccio unto, brontolando:
- Ma, signor avvocato!... Ma, signor avvocato! -
Pur di mandarlo via presto, Enrico firmava a occhi chiusi nuove obbligazioni sempre piú complicate e piú gravose, blandendolo, stringendogli la mano per ingraziarselo, accompagnandolo fino all'uscio, dopo che era stato strozzato peggio da quegli artigli di arpia... E dimenticava tutto, appena sua moglie gli veniva davanti fredda, impassibile, ma sempre bella, con quei grandi occhi nerissimi, con quelle tumide labbra fresche e sanguigne che strappavano i baci.
A intervalli, un dubbio gli straziava l'animo:
- Tutto invano? Quel corpo divinamente modellato è dunque di bronzo? Non batte un cuore dentro quel seno?... Non ha un'anima costei? Trovava però subito da scusarla:
- Che vuoi? È fatta a questo modo: bisogna amarla qual'è!
Cristina accettava quell'adorazione come cosa naturale e dovuta; e solo in alcuni rari istanti provava un senso di dispetto contro quell'uomo che le pareva non facesse mai abbastanza per lei.
Allora, sdraiata sul canapè o su la poltrona, con l'aria incerta di chi guardi attraverso una nebbia, sognava a occhi aperti una piú completa felicità con un'altra persona piú degna, ma che non prendeva nella fantasticheria neppure la determinata apparenza d'uomo; e se Enrico, in quel punto, le si faceva accosto e le rompeva la delizia di quel sogno a occhi aperti, ella gli si rivoltava brusca:
- Lasciami stare! -

- Finalmente tutto è al posto! -
Cristina trasse un sospirone:
- Ah!
Ed ebbe un capriccio che mise Enrico di buon umore:
- Dobbiamo andarvi a sera avanzata, per svegliarci là la mattina dopo, come da un sogno diventato realtà.
- Oh, brava!... Cara! -
Erano entrati difilato nella camera da letto, per non perdere l'illusione di destarsi dal loro bel sogno diventato realtà. La lampada di bronzo, come al Rosmarino, diffondeva su ogni cosa la penombra della sua tenera luce azzurrognola. Enrico gongolava. Cristina intanto si cavava lentamente le buccole con le belle manine piene di anelli, e levava via, ad una ad una, le forcine dai capelli, lasciando cascare prima le lunghe trecce nere dei lati, poi quelle della crocchia, gran mazzo fitto serpeggiante sulle spalle, che ella scosse rovesciando indietro superbamente la testa. Al sottile profumo che si diffuse nell'aria, Enrico prese sua moglie in braccio, come una bimba mezza addormentata che la mamma porti a letto; e Cristina, sguizzando con un grido fra le coperte, vi si raggomitolava, da freddolosa, voltandogli le spalle.
- Smetti, Enrico. Lasciami dormire; vo' levarmi per tempo -.
Egli stette cosí fino al mattino, guardando fisso la palla azzurra della lampada pendente della volta, con l'orecchio intento al leggiero respiro di lei profondamente addormentata. Quasi fosse stata lí sola sola! Quasi egli non si fosse mezzo rovinato per lei, con la pazza prodigalità di quella casa, di quei mobili, e d'ogni altra cosa messale sotto i piedi, per sgabello, pur di averne il ricambio d'un po' di affetto, d'un qualsiasi segno di gradimento!... E invece!... Ah! Voleva rimproverarla, appena svegliata, domani. Ma non osò dirle nulla quando, lasciatisi baciare gli occhi ancora sonnacchiosi, ella si maravigliò, lamentandosi:
- Come? Il sole è già alto?... Oh, Dio che accapacciatura! Forse l'umido della camera...
- Dormigliona... Ma che! -
Nell'aprire, l'uno dopo l'altro, gli scuri di tutte le imposte, egli sorrideva vedendole strizzare gli occhi all'avvampare improvviso del sole che, a traverso i cristalli, accendeva mille allegri riflessi su le pareti, per le volte, su pei mobili nuovi, lucidissimi. E Cristina girava attorno l'altera testa da lo sguardo ghiaccio sotto le sopracciglia un po' aggrottate: - Guarda. Queste stanze paiono vuote...
- Eppure tu hai veduto quanta roba!...
- Si perde nello spazio, non figura. E quel giallo del canapè e delle poltrone! Fa male agli occhi. Quel tavolino là, cosí scompagnato! E queste cornici! Come sono piccine, meschine!
- Rimedieremo. A poco a poco. Capisci, abbiamo fatto anche troppo.
- E si comincia assai bene con la testa che mi si spacca! -
Era tornata a buttarsi sul letto, scontenta, disillusa, rovesciando il proprio cattivo umore addosso al marito, che già trovava giuste le osservazioni di lei:
- Infatti, queste stanze paiono vuote. Il giallo della stoffa del canapè e delle poltrone, sí, è troppo arrabbiato! -

Enrico ricevette con poca buona grazia la visita della solita faccia smunta e butterata che veniva giusto per fargli il mirallegro ed anche per rammentargli le benedette scadenze che erano già lí lí...
- Auf! Non mi lasciate rifiatare!
- Ma, signor avvocato!... Voi siete una persona intelligente...
E Merluzzo, come lo chiamavano, gettando attorno furbe occhiate di stima, mettendo un prezzo a ogni cosa, per abitudine e per tranquillarsi - non si sapeva mai! - diventava insinuante, dava buoni consigli.
- Giudizio, signor avvocato! Economia, economia! Dico bene, signora? -
Cristina, che attraversava in quel momento la stanza, non gli rispose, non si voltò nemmeno.
- Quel visaccio di marcia mi fa schifo. Pagalo - ella disse al marito. - E che faccia un crocione al nostro uscio -.
Enrico la guardò, sbalordito:
- Dunque sua moglie non capiva, non aveva mai capito l'enormità del sacrifizio fatto per lei!... Pagalo!... Ed egli già provava il capogiro sull'orlo dell'abisso scavatosi con le proprie mani sotto i piedi. Pagalo!... -
Quasi domani colui e gli altri creditori non potessero venire a spogliarlo zitti zitti, e lasciarlo fra le nude mura di quella casa che aveva già inghiottito anche il prezzo dell'altra! Pagalo!... Pagalo!... Enrico non trovava piú pace, giorno e notte. La notte poi c'era qualcuno che gli teneva sbarrati gli occhi per non farlo dormire, intanto che Cristina gli russava leggermente al fianco, tutta ritirata in un canto, con le belle braccia seminude stese sul guanciale attorno il capo, in delizioso abbandono. E quelle giornate come passavano rapide, divorandosi il terribile mese che portava in coda il veleno delle fatali scadenze!
- Ah, se non avessi la fierezza di non volere intaccare neppure d'un soldo la dote di lei!... Ma dovrò arrivarvi, per forza!... Cosí almeno la casa diverrà sua proprietà; sarà il meno peggio -.
Allorché gliene fece motto, Cristina si inalberò, dura, inflessibile
- No vo' saperne: no, no!
- Perché ti metti in collera? Dico per chiasso -.
Gli era mancato il coraggio d'insistere innanzi a quel: «No, no!» cosí recisamente pronunziato; gli era mancato il coraggio di tentar di farle intendere che era pel meglio, per la pace di lei stessa. «No, no!» E se lo sentiva rintronare dentro il cervello, come tanti colpi di mazzuolo. «No, no!» E se lo sentiva picchiare sulla schiena, su tutta la persona, ogni giorno piú, dopo che anche sua madre gli aveva risposto:
- Oh, io non voglio entrarci nei vostri pasticci! La roba di tuo padre te la sei presa tutta, fino all'ultimo soldo... La mia, aspetta che io abbia chiusi gli occhi... E, per ora, ne ho poca voglia -.
E cosí pure lo zio canonico:
- Donde vuoi che li cavi i quattrini, se il governo si succhia tutto e c'è il gastigo di Dio sopra le campagne? -

Cristina non badava all'insolita taciturnità del marito, a quei profondi sospiri che gli scappavano involontariamente, di tanto in tanto. Si confondeva coi vasi di fiori dei terrazzini che dovevano far bella mostra per la festa di san Michele e per la fiera, quando la processione, con gli stendardi delle confraternite, con la statua del santo su la barella, seguita dalla banda impennacchiata, sarebbe passata lí sotto, all'andata e al ritorno. Avrebbe invitati gli amici, ora che non aveva piú bisogno di scomodarsi per andare a godere la vista della processione in casa altrui. E pensava a pararsi, a lisciarsi, per godersi il fresco a vespro sul terrazzino centrale di quella bella casa nuova che tutti guardavano con invidia, e che attirava l'occhio dei passeggieri appena scendevano dalla corriera davanti la posta, lí di faccia, mentr'ella fingeva di non accorgersene, con quell'aria altiera che strappava l'ammirazione.
- È la mano di Dio! - rispondeva inesorabilmente donna Momma a chi le parlava degli imbarazzi del figliuolo. - Non ha ubbidito a sua madre, ha voluto fare di suo capo... Ben gli stia! -
Enrico, a quelle parole, scrollava la testa:
- La mano di Dio! -
E, pur di far piacere alla sua Cristina, si sarebbe rovinato da capo, a occhi chiusi. Quel maraviglioso corpo di donna insensibile lo teneva ammaliato fortemente; lo riduceva un bambino. Con lei dimenticava subito ogni preoccupazione di interessi, ogni danno:
- Oh, quel bronzo finalmente si animerà fra le mie braccia! -
La notte però, quando le sue palpebre non volevano chiudersi neppure un momento e Cristina gli dormiva accanto, egli chinava ansiosamente l'orecchio sul petto di lei, scostandone con cautela, adagino adagino, la camicia:
- Sí, il cuore batte regolarmente qui sotto... Ma dunque?... Ma dunque? E, una notte, un soffio di pazzia gli era passato sul viso: - Se avesse spaccato quel seno caldo e palpitante, per accertarsi che lí sotto c'era un cuore come in tutti gli altri!...
Aveva dovuto levarsi da letto, perché le dita gli si contorcevano. Se fosse restato un altro momentino, avrebbe conficcato in quelle belle carni, rabbiosamente le unghie, simile a una bestia feroce. E si era contentato di baciarle a fior di labbra, e scappar di camera. E, dopo, gli pareva di avere fatto un orribile sogno, e non voleva neppure rammentarselo.
- Già, non sto bene. Ho la febbre -.

Il dottore, a capo chino, picchiando leggermente con la punta della mazzettina sul pavimento, aspettava che la signora gli facesse qualche domanda mentre l'ammalato, assopito dalla violenza della febbre, con la testa voltata di fianco, le occhiaie livide, la bocca semiaperta sotto i biondi baffi arruffati e rovesciati in giú, respirava forte, sibilando; quasi avesse avuto dentro il petto un viluppo di cose vive che non voleva uscir fuori e gli zufolava ora in alto, nella gola, ora in basso, nello stomaco teso e gonfiante le coperte. La signora non diceva nulla, impassibile, mezza annoiata, si vedeva, di quella malattia che già durava da una settimana e non accennava a diminuire.
Poi l'ammalato diè uno scossone, riaperse gli occhi intorbidati e, con le labbra riarse, esclamò:
- Cristina -
In ogni momento, quegli sguardi stanchi e smorti la cercavano, le si inchiodavano addosso quando l'avevano trovata, la seguivano per la camera in tutti i movimenti, la invocavano supplicanti, rivolti all'uscio donde era uscita, si rianimavano un istante appena la vedevano ricomparire:
- Cristina!
- Siamo qua, caro avvocato - disse il dottore.
E ricominciò le sue osservazioni, tastandogli il polso, saggiando il calore della pelle su le guance e su la fronte, premendogli lo stomaco teso e rimbombante come un tamburo; e scrollava il capo, pensoso, voltando di tratto in tratto gli occhi verso la signora che, seduta da piè del letto, si guardava le belle mani quasi non avesse altro da fare.
- Dottore, guaritemi presto... per lei! -
Il dottore gli rispondeva di sí col benevolo sorriso delle persone abituate agli spettacoli tristi.
E cosí eran passati altri due giorni, nell'opprimente silenzio di quella camera, rotto soltanto dal fil di voce del malato che chiamava continuamente: - Cristina! - La voleva vicino, per stringerle la mano, per richiederla di un bacio, atteggiando a un bacio le labbra scottanti...
- Sta' tranquillo - gli rispondeva sua moglie. - Bada piuttosto a guarire, per la festa -.
Ella pensava alla festa che già rumoreggiava nella piazza, dove rizzavano i palchetti per le bande musicali e piantavano gli ultimi pali per la illuminazione e pei festoni; e su quella fronte altiera e su quelle labbra tumide e sanguigne lampeggiava la grande stizza per la malattia di suo marito, sopraggiunta cosí male a proposito, quasi a posta per contrariarla!

Merluzzo stava attorno al dottore, attendendolo a ogni visita giú nel portone, su le spine per le notizie:
- Il Signore deve accordare cent'anni di vita a questo galantuomo! Ma se la disgrazia però... -
Una mattina il dottore gli disse:
- L'avvocato va male. La signora, non sospetta niente; corro da donna Momma, per sgravio di coscienza -.
Quegli allora montò i gradini di marmo a quattro a quattro:
- Chiamatemi la signora - disse alla serva.
E vedendo che la signora tardava, si era introdotto, in punta di piedi, fino all'uscio della camera del malato.
Cristina si rizzò, fulminandolo dall'alto in basso con terribile sguardo. Colui però le accennò con la mano, umilmente, aspettando nell'altra stanza, togliendosi di capo il cappellaccio unto appena la vide venire, sebbene venisse repugnante. Si faceva piccino, le si strisciava dinanzi come un verme, movendo la testa di qua e di là, con occhi obliqui e voce compunta:
- In questo momento non bado ai miei interessi... In caso di disgrazia, sono garantito. Ma non è giusto che il signor avvocato si sia messo allo sbaraglio, con la grande spesa di questa casa per amore di lei; e, all'ultimo, debba venir la suocera ad afferrarla per un braccino e a metterla fuori dell'uscio... -
Cristina tese gli orecchi, fissandolo inquieta:
- Ma... mio marito non sta male.
- Per l'altra vita sí, signora mia! -
Quel viso bruno impallidí, quelle labbra sanguigne si scolorarono, quasi donna Momma l'avesse già afferrata per un braccino, e stesse per metterla fuori dell'uscio
- Che posso fare? -
Subitamente dimessa, con una preghiera negli occhi, si era accostata all'uomo dalla faccia smunta e butterata che poco prima le faceva schifo.
- Senta, signora mia... -
E lasciò che colui la prendesse per una mano e la trascinasse nell'altra stanza piú appartata dove potevasi ragionare a quattr'occhi.
- In caso di disgrazia, meglio aver da fare con costei, che con quel diavolo di donna Momma - pensava Merluzzo.

Donna Momma, capitata mentre il notaio e i testimoni scendevano le scale, montò su col sangue alla testa, le lagrime agli occhi:
- Come? Mio figlio muore e non me ne fate sapere niente? -
E alla vista della nuora che, soddisfatta del testamento, teneva tra le mani una mano del moribondo:
- Non te la godrai, no, la sua roba! - si mise a gridare - Enrico, Enrico! Figliuolo mio! -
Il disgraziato cercava, con gli occhi che non ci vedevano piú, la figura adorata di sua moglie; e moveva le labbra senza poter piú pronunziare quel nome che doveva essere il suo estremo sospiro.

Mineo, giugno 1884.



XIII

EVOLUZIONE



ANNIVERSARIO

La primavera arriva proprio il ventuno? - domandò Fasma in mezz'all'uscio.
- Cosí assicura l'almanacco - rispose Oreste. Continuando a scrivere, egli non vide la graziosa moina con che Fasma gli si accostava dietro la seggiola e gli posava sulle spalle le manine dalle ugne rosate.
- Se domani, per darle il ben venuto, andassimo a Santa Margherita? Oreste rovesciò indietro la testa e, serio serio, guardò negli occhi la gentile creatura che continuava a sorridergli e aggrottava le sopracciglia, per fargli il verso.
- È una voglia?
- Andremo a piedi. Il dottore questa mattina mi ha consigliato di far del moto.
- Ah!... Le prescrizioni del dottore bisogna eseguirle appuntino.
- Bravo! -
E Fasma, baciato vivacemente suo marito in fronte, si mise a saltare per la stanza, battendo palma a palma.
- Come negarle qualcosa in questo stato? Può essere davvero una voglia - pensava Oreste.

Tre sere dopo infatti erano ancora a Santa Margherita, su la terrazza della villa, appoggiati al ferro della ringhiera. Sotto la terrazza si spalancava il nero abisso della valle. Un cupo stormire di fronde montava di tanto in tanto da quella voragine piena di tenebre; e negli intervalli, lo scroscio monotono del ruscello, che cascava dall'alto nella conca della Caudaredda, rammentava a Fasma la deliziosa mattinata goduta laggiú, in fondo a quell'orrido, dove ora non distingueva nulla, all'infuori di qualche masso bianchiccio che pareva un fiocco di nebbia.
- Quante primule fra le erbe selvatiche! Quante stelline! Com'erano gustose le arance staccate fresche fresche dall'albero e sbucciate all'ombra del giardino, mentre le mulacchie, i falchetti, i passerotti schiamazzavano dalle sporgenze e dagli spacchi della rupe dirimpetto!... E la rupe impennacchiata di oleastri, di capperi, di caprifichi, tutta grotte e fenditure, e che pareva dovesse scoscendere! Non sapendo vincere la sciocca paura di vedermela cascare addosso improvvisamente, io alzavo gli occhi a ogni momento e li richiudevo con brividi per la persona. Tu intanto, cattivo! mi hai canzonato tutta la mattinata: «Bada, che casca! Bada, che casca!» Ti credevo forse? Eppure ho avuto paura lo stesso... Che delizia di frescura però! Che paradiso con quel concerto di cardellini, di merli e di usignuoli fra le macchie dei roveti e tra i rami degli olmi!...
Fasma parlava sottovoce, come se facesse delle confidenze; e, col braccio destro passato attorno alla vita di Oreste, lo stringeva carezzevolmente, quasi la paura fanciullesca le si rinnovasse in quel punto. Oreste stava zitto. Mentre il fumo della sua sigaretta si disperdeva in nuvolette opaline sul fondo cupo dei colli, ora fissava le nerissime forme di mostri ritagliate dagli alberi sul cielo bronzino, verso la Lamia; ora seguiva curiosamente i lumi che apparivano e disparivano lassú, sul monte dove Mineo rizzava la fosca massa del campanile di Santa Maria e delle vecchie rovine del castello. Il mormorio della voce di Fasma gli faceva l'effetto d'un soave tremolo di violino e serviva a cullarlo nell'indefinita fantasticheria che già lo avvinceva col suo torpore. Fasma s'era fermata un momento, molto intrigata da quel silenzio. Egli era stato mezzo mutolo quasi tutto il giorno, con aria annoiata, quantunque le avesse assicurato ripetutamente che non era vero.
- Di'? La pesca dei girini nelle conche del ruscello non ti ha divertito molto... M'inganno? Dopo tre soli giorni, sei già bell'e seccato della campagna!... Io, invece, vi rimarrei volentieri una settimana, fino alla sera del sabato... Non è poi l'eternità!... Questa volta la primavera è stata puntuale. Che tepore da tre giorni! Il misto di fragranze che sale dalla valle mi dà alla testa; me ne sento inebbriare!... E questo susurro di fronde non pare, proprio rumore di ondate che si spezzino fra gli scogli? Mi rammenta la sera del nostro viaggio di nozze, quando sul terrazzino dell'albergo rimanemmo un bel pezzo cosí - col braccio destro attorno alla tua vita - a contemplare il porto di Messina agitato dalla marea che frangeva in tanti guizzi i riflessi verdi e rossi dei fanali dei legni perduti nell'oscurità... Te ne ricordi eh?... Non è vero che questo cupo stormire dà l'illusione dei cavalloni del mare?... Perché non rispondi?... Ti senti male?... Sei annoiato?... di cattivo umore?...
- No, no! - brontolava Oreste.
La sua voce però lo tradiva. Intanto se avesse dovuto dire che cosa continuava, dalla mattina, a tenerlo turbato, si sarebbe trovato imbrogliatissimo: non lo sapeva nemmeno lui. S'era destato cosí. Da quasi un anno, sí, da quasi un anno - da che Fasma era diventata l'affettuosa compagna della sua vita - non gli era piú accaduto di provare una tristezza a quella maniera. Tristezza? No: malinconia. Avrebbe voluto trovarsi solo, senza niente che lo distraesse, neppure la dolce voce di Fasma!... Rimescolio di cose dimenticate, di cose lontane; bagliori della sua giovinezza; fantasmi di sogni gentili spariti con gli anni; confusione vaporosa; non era altro. Ma il cuore gli si inteneriva in modo straordinario in quell'oscurità, su quella terrazza dalla quale tante volte aveva assistito a simili scene della natura, fumando, appoggiato al ferro della ringhiera, mentre le fronde stormivano e il ruscello scrosciava da l'alto nella conca della Caudaredda, e tutta la vallata si accovacciava sotto il cielo bronzino di altre notti come quella.

A un tratto, una fiammata solcò l'oscurità, poi s'udí uno scoppio lontano; altre fiammate s'accesero e sparvero, seguite da altri scoppi, Fasma rizzò la testa:
- È per la festa dell'Annunziata.
- Ah! - disse Oreste, lasciandosi cadere di bocca la sigaretta.
Le fiammate e gli scoppi continuavano ancora. Gli echi della rupe rispondevano con lento brontolio nella vasta serenità della notte. Poi le campane di Santa Maria cominciarono a suonare a festa; altre campane rispondevano piú in là, dalle altre chiese, con squilli di ogni sorta, pastosi, vibranti, argentini, lanciando un immenso tripudio che diffondevasi lentamente per l'aria e andava a sperdersi nell'infinito.
Fasma era scossa:
- Non avrei mai immaginato che le campane a distesa, sentite di notte dalla campagna, avrebbero potuto produrre sensazioni cosí potenti. Oh, tutti e due già dimenticavamo che domani è festa! Io però non voglio perdere la messa restando in campagna!... -
Oreste era tutt'orecchi.
Din, don, din, don!
Quelle campane festeggiavano il sedicesimo anniversario del suo primo amore, il solo culto che gli rimanesse. Ah, i suoi nervi, quel giorno, aveano avuto miglior memoria della sua testa, e del suo cuore!...
Don, din, din!
Ora capiva!... E cercava ansioso, nello spazio, la bruna e pallida figura di Iana, quasi avesse dovuto apparirgli, con quel suo sguardo pieno di tristezza, nella limpidissima oscurità del cielo tremolante di stelle.
Din, don, din!
Oh, quel suo primo amore! Sogno di fanciullo! Ma tutti gli altri, affollatisi scompigliatamente nella sua scapata giovinezza, tutti gli altri erano stati soltanto prove mal riuscite dell'attuazione di quel sogno!...
Din, din, don, don!
Ed eran passati sedici anni! Gli pareva ieri. Ogni anno, in quel giorno sempre cosí. Intanto perché oggi il cuore gli era rimasto freddo freddo, e solo i nervi aveano provato il sordo risveglio delle care impressioni? Che voleva dire?
Din!... din!... don!
Era una cosa quasi meccanica? In quella malinconia dell'intera giornata, metà del suo organismo non c'era entrata per nulla?... Possibile?...
Din!... Din!... Din!... Le ultime ondulazioni delle campane morivano lentissimamente per la calma notturna.

- Che hai? - gli domandò Fasma, gettandogli le braccia al collo.
Oreste esitava a rispondere. Quella voce lo aveva rimescolato tutto.
- Che ho?... -
Né poté aggiungere altro. La baciava, l'accarezzava, se la stringeva al petto; e non osava confessarle che in quel momento il dolce sogno del suo primo amore si era confuso con la bella realtà tremante di commozione fra le sue braccia!


DAL TACCUINO DI ORESTE

Te ne ricordi? Era ancora buio. L'orologio della stazione segnava le cinque meno dieci minuti. Scendemmo noi soli. Il treno ripartí subito sfondando l'oscurità traendosi dietro la sua interminabile coda di vagoni, sbuffando, fischiando sinistramente pel vasto silenzio della campagna. Che triste mattinata! Montammo zitti zitti nell'unica carrozzella che si trovò là. Presi dal freddo, già bagnati dall'umido della nebbia che avvolgeva ogni cosa, ci tenevamo per le mani sotto la coperta che avevo steso sulle nostre ginocchia, accostandoci per riscaldarci un po'; quel tempaccio metteva un che di piccante nella nostra scappata di innamorati.
La strada s'inoltrava tra due filari di alberi, fangosa, luccicante di pozzanghere per l'acqua caduta la notte. L'occhio già intravedeva qualcosa nella oscurità che incominciava a diradarsi. Gli alberi, per la corsa del legno, ballavano in mezzo alla nebbia come tanti fantasmi. Lo sfangare del cavallo batteva la solfa. Il rumore delle ruote si perdeva lontano, nella fosca solitudine dove distendevasi la strada.
Albeggiava. Il cielo era coperto. La nebbia errava a grandi masse leggere su le praterie, fra gli alberi, attorno le cascine, stendendo, laggiú, una cinta grigia che andava a confondersi col grigio del cielo. L'aria frizzava. Oh, non si arrivava piú a quel benedetto Cassano! La strada filava diritta; pioppi di qua, pioppi di là. Qualche cascina affacciava dietro i pioppi il tetto rossiccio e le mura biancastre con le finestre ancora chiuse. Qualche gallo cantava. E la strada filava sempre dritta, fangosa, luccicante di pozzanghere. Il cavallo sfangava, sballottando il gramo legno con scossoni indiavolati.
Noi ridevamo come due ragazzi scappati di collegio un giorno di vacanza. Avevamo creduto di trovare il bel tempo, il sole, l'autunno, e c'incontravamo in una precoce giornataccia d'inverno. Ma non voleva dir nulla. Eravamo soli, lontani cento miglia dalla città, in un posto dove nessuno ci conosceva. Bastava. Quel po' di mistero era una felicità. Quando si vuol bene ci si appaga quasi di niente. Tre anni fa, chi di noi due avrebbe mai creduto che ci saremmo trovati lí, in quel legno, a quell'ora, con quella dolce intimità di cuore che ci sorrideva negli occhi?

Durante il viaggio io pensavo a questo. Mi pareva impossibile. Ma allora capivo che lo impossibile è quel che s'avvera piú facilmente. Una sera, te ne ricordi? si ragionava tranquillamente nel tuo salottino, accosto al caminetto. Era di dicembre. Come fu che passando da un discorso all'altro, rimasti soli un momento, io ti dissi sotto voce qualcosa che ti fece diventar rossa rossa?
- Lei scherza! -
In quel tempo correva il lei fra di noi.
- No, no, parlo seriamente -.
Tu diventasti pallida a un tratto e abbassasti la testa.
- Parlo seriamente - replicai. - Perché non vuol credermi?
- Le credo, le credo!... Però... -
La tua voce era turbata. Io stavo per aggiungere qualche cosa, ma entrò gente; e per tutta la serata non potei dirti altro. Tornai due sere dopo. Eravamo seduti allo stesso posto; il caminetto scoppiettava allegro, ma non eravamo soli. Che rabbia! Tu mi leggevi negli occhi la grande impazienza e mi guardavi quasi smarrita. Pareva avessi paura non ci lasciassero soli. Io mi feci coraggio. Accostai un po' piú la seggiola, fingendo di parlarti d'una cosa indifferente, e ti dissi all'orecchio:
- Non mi crede ancora?
Tu ti baloccavi con le molle, ravviavi i tizzi accesi; mi par di vederti. Non volevi rispondere; evidentemente la risposta non era bella per me e ti pesava dovermela dare. Finalmente parlasti. Io, allora non volli crederti.
- Chi era quell'uomo che aveva la tua parola, quantunque non avesse il tuo cuore? -
Non potei strappartelo di bocca.
- Perché avevo aspettato tanto? Non lo sapevo neppur io -.
Mi misi a ridere sforzatamente, per celare il mio disinganno. Non ero tra le rose in quel punto. Se tu non fossi rimasta seria, chi lo sa?, forse non sarebbe avvenuto quel che dopo è avvenuto. Ma tu rimanesti seria seria.
- Amici come prima?
- Piú di prima - ti risposi. E sorridevo. Che viso dovevo avere!

E poi, di salto, pensavo a quell'altro giorno di Treviglio, la prima nostra scappata. Rivedevo quella casetta bianca, con le persiane verdi, con quel gran pergolato che formava una graziosa tettoia davanti la porta, dietro il cancello di ferro; casetta civettuola, che ci aveva fatto fermare pensosi tutti e due su la strada polverosa, attratti dal silenzio e dalla pace che covava in quel nido.
- Come ci si starebbe bene! -
Facemmo insieme la stessa esclamazione e restammo tristi. A che pensarci? Ci trovavamo lí senza sapere veramente perché. Anzi, secondo te, non avremmo dovuto venirci; avevamo fatto male. Tu avevi rimorso. Eri nervosa, inquieta, malcontenta di te stessa. Io ti guardavo come colui che non spera niente, rassegnato, contento di rubare un momento di felicità alla mia cattiva sorte. Ci perdemmo pei campi. Fra gli sterpi delle siepi affacciavano qua e là la testina certi fiorellini gialli dal lungo stelo con due foglioline verdi. La campagna era arida. Il sole la faceva apparir bianca, con riflessi che ci abbagliavano. E noi c'inoltravamo per le strade deserte, saltavamo i fossi, risalivamo il letto secco di un torrente ove io trovai quel ciottolo di marmo verde, venato di bianco e di nero, sul quale poi incisi il tuo nome a lettere di oro. Seduti sull'argine, quasi fuor del mondo, di che si ragionava? Vattel'a pesca! Certamente di cose deliziosissime. Non ci accorgevamo della vampa del sole, né del vento che scomponeva i fiori del tuo cappellino di paglia e voleva stracciare il tuo velo scuro. Le ore passavano inavvertite. Ah, la campagna! Ah, il sole!
Ti avevo strappato il tuo segreto; ero felice nella mia desolazione; ti avevo visto piangere! Che potevo pretendere di piú? Ma ogni speranza mi era chiusa.
Oh, com'era dolce pensar tutto questo passato lontano, lontano - fiaba, leggenda, mi pareva - mentre il cavallo sfangava sulla strada di Cassano sballottando il legno su cui tu sedevi accanto a me, ora mia, proprio mia! Tu forse pensavi le stesse cose. Era difficile non pensarci. Che brutta giornata! Cominciò a piovere. La camera di quel meschino «Grande Albergo» dava sulla corte e non era punto bella; ma noi vi mettemmo subito la nostra allegria. Che risate calde! Eravamo tornati fanciulli.
E la sala da pranzo? Che appetito con quell'umido che s'infiltrava anche lí dentro, con quella nebbia che s'incollava insistente ai vetri delle imposte! Dopo desinare, la sala si empí del fumo delle nostre sigarette, cioè delle mie; tu ne fumasti appena una. Guardavamo fuori, in piazza, le botteghe, i contadini che passavano sotto grandi ombrelli bagnati dall'acquerugiola che non voleva finire, le contadine con le spalle appoggiate alle soglie, le mani sul seno o ciondoloni, ciarlanti da un uscio all'altro, dalla via e dalle finestre, e che ridevano o facevano smorfie, secondo i discorsi. Ci contentavamo di quello spettacolo, invece dell'altro che c'eravamo immaginato venendo. L'importante era stare insieme una giornata, ignorati, lontani dagl'importuni. Pioveva? Tanto meglio; non ci stancavamo a correre pei campi, com'era nostra intenzione.
Le imposte della sala erano tempestate di nomi, di date. Altre persone che si volevano bene erano state là prima di noi e vi aveano lasciato un ricordo. C'erano anche dei versi del Byron, che ora piú non rammento.
- Chi può essere questa Jenny firmata sotto questi versi?
- Una vecchia zittellona brutta, sdentata, dagli occhiali verdi - dicevo io.
- Una miss Chiaro-di-luna - dicevi tu.
Sciocchezze! Ma eravamo felici.
Allora ci venne l'idea di scrivere anche i nostri nomi su quell'album di legno verniciato. E tu scrivesti: Fasma (nome di adozione) col tuo bel caratterino. Io, Oreste, con le mie orribili zampe di gallina; e mettemmo la data, data indimenticabile!
Ora voglio dirtelo. Ti rammenti che io vi scrissi alcuni versi in lingua russa che tu volesti tradotti?

Ho visto passare l'Amore
Con un gran fascio di cure.
- Dammene, Amore, - gli dissi -
Dammene un po'. - Ma egli tirò diritto.

Sí, sí, versi russi, cara mia! Invece erano motti foggiati lí per lí, di nessuna lingua, senza alcun senso, che io ti tradussi sfacciatamente a quel modo. Quando penso che qualche tourist li copierà per cercare di farseli tradurre anche lui! E tu ripetevi cantarellando:

Ho visto passare l'Amore
Con un gran fascio di cure

Ora ho quasi rimorso di averti cosí canzonata.

Eravamo ancora dietro i cristalli, quando passò quell'accompagnamento di morticino. La pioggia era cessata, e il cielo sorrideva qua e là di splendido azzurro. Il sole, affacciandosi dalle nuvole dorò il feretrino, luccicante di ornati di rame in rilievo, che il becchino portava su la testa sopra una tavola coperta da un bel tappeto rosso, che nascondeva la persona. Parve fatto apposta. Quel sorriso di sole venuto cosí a proposito c'intenerí. Io ti vidi gli occhi pieni di lagrime.
Poi, per dieci minuti, andammo fuori, passando in punta di piedi fra la mota della piazza fino al ponte che accavalcia l'Adda. Com'era bello, come era magnifico l'Adda spumante, che veniva giú sonoro fra le larghe rive per la verde campagna! Allora sí ce la prendemmo col cattivo tempo; io specialmente, ingrato!, dicevi bene: - Ingrato! -

E anche tutto questo mi sembra oggi un passato lontano lontano, una fiaba, una leggenda.
Mentre scrivo, tu dormi tranquillamente nella camera accanto; mi par di sentire il tuo respiro... Sono venuto una volta per assicurarmi se eri tu che muovevi la culla accosto al letto. No, era Lillí che armeggiava con le manine di rosa. Mi ha guardato, mi ha sorriso (mi ha riconosciuto?) e non si è messo a piangere.
Sento che armeggia ancora. E la mammina cattiva dorme, come niente fosse!...


PRESENTIMENTI

In quei giorni Fasma era stranamente inquieta, senza ragione.
- Ho un cattivo presentimento - diceva. - Deve accadermi qualche cosa di male; lo sento aleggiare d'attorno... Non so...
- Dorme bene? - le domandò il dottore venuto, come soleva, per una visita amichevole. E sorrideva, guardandola maliziosamente.
- Oh, no, no! - ella disse diventata di foco nel viso. - Come sono impertinenti questi dottori! -
Allora il dottore, cavato di tasca il taccuino, si mise a scrivere una ricetta sul ginocchio, scrollando la testa:
- Tutte pari le donne! Di che arrossiscono? Ecco un pudore sprecato! -
Oreste approvava:
- Il mio sospetto coincide per l'appunto col suo. Mia moglie, da un paio di settimane, è piú nervosa del solito; e non vuol dir poco! Io mi ci arrabbio. La colpa in gran parte ricade su lei; mangia meno d'una formica -.
Il dottore, ripreso il polso di Fasma, strizzava gli occhi, per concentrarsi meglio:
- Normale, normalissimo -.
A un tratto lo sentí agitare violentemente, per alcuni secondi.
- Che pensa in questo momento?
- Nulla.
- Il polso la tradisce -.
Fasma ritirò vivamente il braccio. - Le ho fatto paura? Si mise a ridere anche lei.
- Paura? Perché? Non vuole persuadersene? Sono quei brutti presentimenti... Stupidaggine, lo capisco; ma come vincerla?
- Non si affatichi - disse il dottore, ridendo. - Andrà via da sé, fra nove mesi, come l'altra volta -.

Per tutta la settimana Fasma non permise che suo marito stesse a lungo assente da casa.
- Gli affari? Possono attendere -.
Oreste non avrebbe voluto farle dispiacere, ma queste ubbie da ragazzina cominciavano a seccarlo. Ella invece voleva vederselo sempre davanti, sentirselo sempre accosto, come se la sventura, della quale ella aveva presentimento, minacciasse proprio suo marito. Non glielo diceva; non osava neppure fermarvisi con la riflessione; ma appunto per questo non lo voleva troppo lontano.
Fortunatamente il tempo era diventato cattivo, e lo stare in casa non dispiaceva con quelle pioggie dirotte. Negli intervalli di sosta, una fitta nebbia scendeva dai colli attorno e annegava ogni cosa in un'onda biancastra.
- Con questa nebbia par di essere proprio segregati dal mondo, lontani, fra cielo e terra, quasi in un pallone che corra per lo spazio... Non ti fa questo effetto?
- Che cosa?
- Oh! Non mi dai retta... A che pensi? -
Fasma stava per mettersi in collera; gli occhi le si erano subitamente riempiti di lagrime.
- Sensitiva! - le disse Oreste, dandole un colpettino su la guancia.
- A che pensavi or ora? - insistette Fasma.
- Chi lo sa? Mi ero smarrito, per una delle mie solite intermittenze di pensiero.
- Senti, Oreste!... - ella esclamò.
Ma non poté proseguire; scoppiò in singhiozzi.

Oreste non se lo sarebbe mai immaginato.
- Dovea credere ai presentimenti? -
E un rimorso gli pungeva il cuore, quantunque ora la vedesse molto rassicurata, quasi tranquilla. Non credeva che lei fingesse; era ancora troppo ingenua... Basta. Quell'avvertimento gli aveva servito... S'era quasi sentito venir male mentre ella parlava. C'era mancato poco, pochino non le avesse confessato ogni cosa.
- Noi uomini siamo stupidi; mettiamo sbadatamente in pericolo la felicità che possediamo, per rincorrere certi fantasmi che poi risolvonsi in nulla!... -
Oreste si mise a ridere davanti allo specchio, mentre si annodava la cravatta:
- Diventi filosofo?... Bravo! -
Infine, quell'avventura gli era capitata inattesamente tra' piedi; anzi egli, in buona coscienza, aveva cercato di evitarla. Al punto in cui erano le cose, però, non avrebbe fatto, per nessuna ragione, la ridicola figura del casto Giuseppe. Né possedeva un mantello da lasciar nelle mani di quella signora. Ma sarebbe stata la prima e l'ultima volta, parola d'onore. Tanto, non metteva conto confondersi con le donne un uomo serio come lui.
- Ti fai troppo bello - gli disse Fasma che entrava in quel punto.
- È per quell'altra, capisci! -
E Oreste rise.
- Zitto!... Son capace di crederti.
- Vorresti che io mentissi? -
Ella gli prese una mano:
- Oreste!
- Fasma!!!... Come nelle tragedie.
- Ecco, oggi mi canzoni troppo. Dove vai?
- Da lei -.
Fasma voleva ridere, e non poté. Intanto si sforzava di continuare lo scherzo:
- Sarà una bruttona!... Gli uomini? Tutti di cattivo gusto.
- Infatti, ecco qui una bruttona che ho avuto il cattivo gusto di scegliere -.
E mentre Fasma sorrideva di compiacenza, aggiustandogli il nodo della cravatta, egli le andava accarezzando i ricciolini su la fronte.
- Dovresti accompagnarmi dalla mamma, per vedere Lillí.
- Impossibile, cara. Far attendere una signora. Ma ti pare!
- Mi metti una gran voglia di sequestrarti in casa.
- Preferirei condurti con me.
- Da colei?
- Da colei -.
Anche lo scherzo le faceva male. Intanto non voleva avere apparenza di gelosa, dopo la scena dell'altro giorno; avrebbe creduto avvilirsi. E riprendeva:
- È bionda?
- Bruna; so che le bionde non ti piacciono.
- Oreste, bada! Chi scherza si confessa.
- Precisamente -.
Fasma lo guardò, tra incredula e stizzita. Eh, via! Aveva torto; era una grulla... Se fosse stato veramente... Oh, no; sarebbe stato proprio sfacciato. Non lo avrebbe amato piú. Dopo due anni compiuti appena?... Non era possibile. Rimasta sola però, si sedé in un canto del salottino con tale oppressione di cuore che dové farsi forza per non volare a richiamar suo marito.
- È un'assurdità -.
E aperse il pianoforte. Il notturno dello Chopin la fece piangere.
- Che musica! - ella diceva, quantunque lo Chopin in quelle lagrime non ci entrasse per niente.

Tre ore dopo, tornando lentamente a casa, Oreste si sentiva nauseato. Non aveva neppure gustato il sapore del frutto proibito... Le grandi dame!!! Ma c'è un punto in cui diventano stupide anche esse e triviali quanto le altre. Ed egli era andava via di casa tutto contento della sua ipocrisia, dicendo fra sé: - Peccato confessato è mezzo perdonato!... Si vergognava come un ragazzo che n'abbia fatto una grossa e non abbia il coraggio di presentarsi alla mamma. Aveva rabbia di sentirsi cosí avvilito dinanzi ai propri occhi. In che modo aveva tollerato che colei accennasse due volte, e ironicamente, a sua moglie? Come aveva potuto ridere?... Vigliacco! Una passione, un delirio di sensi, via, sarebbero state circostanze attenuanti. Ma a freddo? Per curiosità? Voleva schiaffeggiarsi. Il pensiero che sua moglie, un giorno o l'altro, potrebbe apprendere la verità, gli metteva i brividi.
- Povera Fasma! Non se lo merita -.
E gironzolava di qua e di là, senza trovare il verso di rientrare in casa.

Fasma, riconosciuto il suono dei passi per le scale, gli era andata incontro. Oreste si fermò sulla soglia, per osservarla. Era sorridente, tranquilla, senza sospetti. E quando si sentí abbracciare e baciare con effusione, come da parecchie settimane non era piú stata abbracciata né baciata, ella spalancò i grandi occhi che brillarono.
- Ritorni insomma il mio Oreste di prima? -
E non disse una parola. Quell'abbraccio, quei baci le avevano subitamente scancellato ogni cattivo presentimento del cuore.
- Sai? - le disse Oreste. - Son passato dal Novi; le buccole che ti piacevano tanto non ci son piú -.
Fasma fece una spallata:
- Che m'importa delle buccole?
- Ho preso in cambio quest'altre - soggiunse Oreste, cavando di tasca un involtino.
- Oh!... Bugiardo! -
E fissava ora suo marito, ora lo scatolino aperto, con pupille tremolanti di tanta tenerezza che quegli si sentiva morire dalla mortificazione.
- Sciupone! - disse Fasma. - Da oggi in poi non potrò piú manifestare che una cosa mi piaccia.
Egli intanto cominciava a metterle le buccole alle orecchie con mani tremanti. Poi andarono tutti e due davanti lo specchio; Oreste reggeva il lume; la testina di Fasma illuminata a quella maniera e riflessa dal cristallo, era proprio un incanto.
- Non so spiegarmi - egli pensava - in che modo abbia potuto... -
Trista bestia l'uomo! Fasma intanto gli passava il braccio attorno alla vita: - Come ti voglio bene
- A me o alle buccole? - domandò Oreste, per dissimulare con questo scherzo il proprio turbamento.
- Alle buccole - rispose Fasma, facendo una smorfietta di broncio.
E scoppiò a ridere:
- Quando si dice i presentimenti! Ecco la gran disgrazia che mi pendeva sul capo -.
Indicava le buccole riluccicanti alle orecchie. Oreste scoppiò a ridere anche lui:
- Hai ragione. Quando si dice i presentimenti! -


DALL'EPISTOLARIO DI ORESTE

A Fasma


Carissima Fasma,
Sono molto seccato. Figurati! Dovrò restar qui probabilmente altri tre giorni.
Il signor Bucci, senza dubbio, è un cliente gentilissimo: i suoi affari però sono cosí imbrogliati che io rinuncierei volentieri a esserne l'avvocato. Da due giorni non respiro altro che polvere di cartacce vecchie e muffite. Il tanfo di questo suo arruffatissimo archivio di famiglia è qualcosa di cosí nauseante, che oggi ho deciso di lavorare su la terrazza, all'aria aperta, al sole, per non buscarmi un malanno. Quando sarò di ritorno, prima di abbracciarti, dovrò prendere per lo meno un paio di bagni. Sono ridotto in uno stato!...
Lavoro dalle otto del mattino alle tre di sera. Alle undici, colazione. Alle quattro, pranzo. Il signor Bucci m'ingozza come un tacchino da ingrassare. Si è fatto prestare il cuoco dal sindaco; questo però non vuol dire che io mangi bene. Ho il palato già guasto. Troppo unto e troppo pepe. Intanto non posso far dispiacere al mio gentilissimo cliente che spende un occhio della testa per trattare, come merita, il suo egregio signor avvocato!... È lui che parla.
Per fortuna, sapendo di farmi cosa grata, mi domanda spesso di te. Non ti conosce neppur di vista, ma sa che sei una bella ed ottima signora. Bella! Capisci? E ti prepara un regalo di formaggi e di salami. Questi suoi salami sono eccellenti; io ne mangio a tutto pasto.
Ma che noia! Alle dieci qui si va a letto, ed io faccio come gli altri. Sono già diventato un dormiglione. L'abitudine del sonno si prende subito; non lo credevo. E dormo placidamente i miei sonni di giusto, sognando il paradiso. Il mio paradiso, s'intende, è quell'angolo di terra dove trovasi certa persona che tu forse conosci, bella ed ottima signora... come dice il signor Bucci. Eh? Sono anche troppo galante in qualità di marito.
La verità è che la lontananza mi fa un effetto stranissimo. Provo tenerezze che non supponevo piú possibili; il mio sentimentalismo si ridesta. Sarei capace di tornar a scriverti una di quelle famose lettere di cinque anni fa, quando eravamo innamorati come due matti e facevamo tante sciocchezzine. No, voglio recitare convenientemente la mia parte; un marito dev'essere serio. Per questo depongo un castissimo bacio sulla gota della mia cara metà (stile coniugale), e con mille baci per Lillí mi sottoscrivo
tuo Oreste.


A Giorgio B***


Verrai o non verrai? Cioè, verrete o non verrete? Noi staremo qui altri tre giorni soli.
Se vi decideste! Sarebbe una festa per Gilda e per me. Gilda esclama a ogni po': - E Fifina non viene! - È arrabbiata con te; dice che sei tu, orso, che non vuoi condurla perché in fatto di amore tu ami soltanto i duetti. Se è vero, non hai torto.
Come si sta bene qui! Mi par di essere uno studente scappato in campagna con la sua sartina. Non contavo di divertirmi tanto e con cosí poco. Ridiamo dalla mattina alla sera. Ho dimenticato la città, i miei affari, ogni cosa!... Voglio ritemprarmi un pochino. Ne avevo bisogno; mi sentivo diventare cretino. Con mia moglie è andata benissimo. Sono stato un commediante di prim'ordine, sublime a dirittura.
Arriva la tua lettera, cioè quella del signor Bucci da me inventato. Io la sgualcisco, la strizzo, faccio le finte di volerla stracciare.
«Perché? - mi domanda Fasma. - Qualche cattiva notizia?...»
«Una seccatura!» rispondo io.
E comincio a declamare contro quel povero signor Bucci, gli do dell'imbecille, lo mando al diavolo: «No, non voglio andare da lui; non sarei andato neanco per un milione. Gli avrei scritto, a volta di corriere: "Si provveda di un altro avvocato"».
Allora Fasma cerca di rabbonirmi, di persuadermi, ed io resisto, accampando scuse magre, per lasciarmi vincere facilmente. «Capisco, è un ottimo affare; ma... andarmi a seppellire per una settimana in un paesetto... E poi non vi voglio lasciar sola...» Non ti sembra di udirmi?
«Se non c'è altra ragione!...»
Insomma, una vera commedia. La mattina della partenza però passai un brutto quarto d'ora. Mia moglie volle accompagnarmi alla stazione dove Gilda doveva aspettarmi. Gilda è cosí imprudente!...
Entriamo nella sala. Gilda è la con la cameriera, presso lo sportello dei biglietti. Vedendo che non sono solo, spalanca tanto d'occhi e mi guarda, mi guarda... Io le faccio un accenno, con le labbra; fortunatamente ella capisce. Allora presi coraggio e dissi a Fasma:
- Meno male! Viaggerò in ottima compagnia -.
Quando si dice: - Oh i mariti! - perché non si accorgono di nulla. Oh le mogli! Sono anche peggio. Sai che mi rispose Fasma, sorridendo?
- Bonne chance! -
E il suo augurio non è fallito.
Se tu ci vedessi, Gilda e me! Sembriamo due ragazzi; ruzziamo tutto il santo giorno. Questo diavoletto ha impudenze che mi fanno rabbrividire; ha ingenuità che mi fanno strabiliare. Se volesse, potrebbe farmi perdere il giudizio.
Tu dirai che l'ho già perduto. - No, perché, vedi? rifletto ancora.
Vuoi che te la dica? Tu mi annoi. Ti veggo sempre dinnanzi a me col tuo sorrisino da scettico malizioso, con le osservazioni da uomo che si compiace di mettere gli altri in imbarazzo. Quest'ostinarti a non venire qui con la tua amante, per una partita di piacere in quattro che sarebbe una delizia, questo non venir quassú neppure per un solo giorno - avevi promesso per quattro! - te lo giuro, mi fa rabbia. Mi ha l'aria d'un rimprovero, che so io? d'una di quelle tue feroci canzonature che spesso diventano insopportabili... Insomma, verrai o non verrai?
In questo momento Gilda è fuori, nel prato. È un po' abbrunita dal sole. Ha preso una tinta dorata meravigliosa, che la rende irresistibile con quegli occhioni. È matta per la campagna, e vorrebbe restarvi un'altra settimana. Oh, io vi resterei un mese, sei mesi, un anno intero con lei!... Ma!... Se non ci fossero questi maledettissimi ma, la vita sarebbe una gran bella cosa.
Ecco Gilda che rientra. È carica di fiori selvatici e mi riempe la stanza del delizioso odore delle erbe fresche. Mi dice che vuol mettere un poscritto a questa lettera; le cedo la penna.
Brutto orso!...
Gilda.


Ho scancellato due parole. Certe cose si possono dire, ma scriverle non è permesso; è una delle poche ipocrisie che rispetto. Vieni, se hai coraggio, a sentirtele dire sul muso.
Oreste.

A Fasma


Carissima Fasma,
ritornerò domani. Non ti posso precisare se di mattina o di sera, perché questo dipende dal signor Bucci che ha preso gusto ad avermi qui, e non vorrebbe lasciarmi andare. Io però ne sono stufo; non di lui, pover'uomo! che è buono, affabilissimo, anche troppo; ma della polvere delle sue cartacce e del tanfo del suo archivio... Oh, se sono stufo!
Già te ne avvedrai; porto sul volto i segni delle sofferenze di questi giorni, malgrado i grassi pranzi che il mio cliente mi ha imbanditi. L'uomo non vive di solo pane. Ed io ho bisogno di tutt'altro; dei tuoi baci, delle tue carezze. Sai? Mi sono accorto in questa lontananza che tu mi hai avvezzato male, molto male; e quando uno è avvezzato male!...
A proposito. Ti ricordi di quella bella creatura veduta alla stazione la mattina della mia partenza? Io ti dissi: «Viaggerò in buona compagnia!» E tu rispondesti: «Bonne chance»? - La bella creatura montò nello stesso vagone dove ero io - aspetta un momentino, prima d'ingelosirti - e dietro a lei un signore d'una certa età, piuttosto vecchiotto...
Bonne chance? Invece, per metà del viaggio, ho dovuto reggere il candeliere a quei due amanti che si facevano mille moine in un angolo, senza nessun riguardo per me! E il vecchietto imbecille, di tanto in tanto, mi guardava e sorrideva. Alla prima fermata cambiai vagone. Certi spettacoli indegnano... E vogliono darci a intendere che nelle ferrovie ci siano degli ispettori a posta. Si vede!
.................
tuo Oreste.

Roma-Napoli, 1882-1883.



XIV

RIBREZZO



Sulla soglia dell'uscio rimasto aperto comparve, come un fantasma, la cameriera già in ordine, e con voce turbata annunziò
- Signora, la carrozza -.
La signora Rosati, vestita di tutto punto di nero, si levò con uno scatto dalla poltrona e fece qualche passo; ma dovette fermarsi. Non si reggeva, sentiva scoppiarsi il cuore; e le lagrime ripresero a pioverle abbondanti sul viso pallido, senza neppure un singhiozzo e senza che ella pensasse ad asciugarle.
- Era proprio vero?... Suo marito insomma la credeva colpevole e la scacciava di casa... Oh!... Oh!... -
La sua grande indegnazione di donna onesta e innocente tornò a scuoterla tutta, come poche ore avanti, quando il marito, con dure parole, le aveva buttato in viso la pretesa colpa, ed ella - dopo aver pianto, dopo aver dato spiegazioni e giurato sul capo del loro figliuolo e su tutte le cose piú sacre - tenuta per bugiarda e dileggiata, gli s'era rizzata altieramente in faccia rispondendo: - Sta bene. Ritornerò a casa mia. Non siete degno di avermi -.
Ora si asciugava in fretta in fretta le lagrime, e cercava di ricomporsi, intanto che la cameriera, presa in mano e la piccola borsa di cuoio buttata sul letto e un fagottino da una seggiola, domandava:
- Signora, non c'è altro?
- No - ella rispose.
E uscí la prima, senza voltarsi addietro, traversando con passo fermo e rapido la breve fila delle stanze fino all'uscio che aprí ella stessa; scese le scale quasi di corsa, perché quei gradini le scottavano i piedi; e si sentí arrossire sotto il velo abbassato su la faccia, quando scorse il servitore che già apriva lo sportello della carrozza inchinandosi un po', serio, quasi volesse mostrarle che egli stava dalla parte del padrone.
La carrozza uscí lentamente dall'atrio, poi i cavalli presero il galoppo verso la stazione; e la signora Rosati sentiva uno sbalordimento strano alle scosse del legno sull'acciottolato delle vie. Quelle scosse le si ripercotevano nel cervello, le impedivano di pensare, le recavano una specie di sollievo nell'abbandono di tutta la persona, fra la penombra rotta di tanto in tanto da bagliori, a traverso le palpebre chiuse, ogni colpo di sole che penetrava nel legno. E quando il rumore delle ruote si ammortí sulla polvere della strada fuori la città, ed ella sentí piú viva l'impressione della luce e dell'aria libera, riaperse gli occhi e si mise a guardare gli alberi fuggenti dietro lo sportello; le figure dei pedoni che, appena apparse, sparivano sopraggiunte da altre; e la campagna che correva vertiginosa dattorno, verde e bella; e le montagne in fondo, sfumate sull'orizzonte lontano, che giravano lente; e le vicine casette, bianche in mezzo al verde, che pareva le si precipitassero incontro. Guardava tranquilla, quasi l'immenso dolore le si fosse addormentato per sempre nell'intimo petto, quasi ella partisse di casa al solito, per una visita ai parenti che sarebbero andati a riceverla a braccia aperte alla stazione d'arrivo.
- Con questa corsa parte poca gente - disse Giulia. - Non è la diretta -.
Infatti nella sala di aspetto di prima classe non c'era nessuno.
Dal posto dov'era andata a sedersi, a traverso i vetri dello sporto chiuso, la signora Rosati guardava distrattamente ora le sbarre di ferro della stretta tettoia, ora la frangia di zinco, intramezzata di colonnine di ghisa, che disegnava i suoi trafori sul cielo azzurro; ora, piú in là, il fusto d'una pompa col tubo di tela spenzolante; ora piú in qua, i vagoni delle merci segnati di cifre bianche, e che lasciavano appena una striscia di cielo frastagliata tra la loro massa scura e la frangia di zinco della tettoia.
Era stupita di sentirsi cosí calma dopo la gran tempesta di quella mattina. Oh non volea ripensarci, finché era possibile!
E girava gli occhi attorno per le pareti quasi nude della stanza; e rileggeva gli avvisi letti tante volte in altre occasioni di partenza; e tornava a osservare gli affissi degli alberghi, dei stabilimenti di bagni, e quella figura di donna seduta alla macchina da cucire, con la esse iniziale del nome della fabbrica che le si attorcigliava addosso come un serpente.
- Siamo arrivate troppo presto?
- Manca un quarto d'ora alla partenza - rispose Giulia, mostrando i biglietti.
Ripostigli nel borsellino, si sedette discosto, senza dire una parola; e rivolgendo di tratto in tratto lunghe occhiate alla signora, pensava:
- Poverina! È innocente come la Madonna. Nessuno può saperlo meglio di me -.
Appena però il vagone, dov'erano rimaste sole, fu tratto via dalla vaporiera urlante e fischiante, la signora Rosati sentí di nuovo un gran nodo al cuore e scoppiò in pianto. Si vedeva dinanzi agli occhi i parenti già avvisati, com'egli le avea detto; i parenti che questa volta, certamente - che ne sapevano essi della sua innocenza? - non sarebbero accorsi - specie la madrigna - per ricevere alla stazione la indegna, fattasi scacciare di casa dal marito.
- Signora, coraggio!... È un malinteso; sarà presto dissipato. Il padrone verrà a riprenderla egli stesso, pentito, appena si avvedrà che ha avuto torto...
- Non metterò piú piede in quella casa! - ella rispose sdegnosamente, come aveva risposto a colui.
E cessò subito di piangere, stizzita della propria debolezza, raccogliendosi tutta nell'angolo, con la testa rovesciata indietro, quasi tentasse di dormire.
Al rumore monotono e incalzante del treno che correva per l'aperta campagna, tornava intanto a domandarsi:
- È proprio vero? -
Sperava ancora di sognare, quantunque i ricordi che le si affollavano limpidissimi nella mente, le dicessero chiaramente che era sveglia pur troppo.
- Ah, quel momento di debolezza dopo due anni di resistenza! -
E si rivedeva correre a rapidi passi per le vie mezze deserte, proprio come quel giorno, gettando occhiate di paura ai negozi, alle botteghe, ai rari passanti; e provava la stessa sensazione di freddo provata allora lungo la via Torta, stretta e scura, dalle vecchie case silenziose - di cui il sole poteva illuminare soltanto la cima - dalle botteghe che sfondavano le facciate, quasi grandi buchi neri, sotto le finestre socchiuse... E sboccava nella vasta piazza... Ed ecco, di faccia, la casa gialla a tre piani e il portone sormontato dallo stemma della Ricevitoria del Registro... Ella tremava a quella vista e voleva tornare indietro, quasi presaga... E provava, precisamente, la stessa spinta in avanti come allora che era entrata atterrita dalla minaccia di lui - Mi uccido, se non venite!... -
Era andata per questo, unicamente per questo!... Ora si rammentava benissimo dell'ombra nera vista alla sfuggita, di traverso, che si era fermata in pieno sole a osservarla... Non ci aveva badato, risoluta di compiere quel che le pareva, piú che altro, un atto di carità, un pietoso dovere...
Oh, era andata per questo! Se lo ripeteva mentalmente, per rassicurare la sua coscienza, come al destarsi da un sogno, tutte le volte che il treno rallentava la corsa per una prossima fermata; e tornava a ripeterlo, insistente, al riprender della corsa, mentre i ricordi ripigliavano l'aire anch'essi, coi particolari piú minuti.
E sentiva, come allora, il rumore secco dei propri tacchi frettolosi su per quelle scale che ella saliva quasi inseguita dalle voci delle persone incontrate su l'uscio della Ricevitoria - ragionavano di interessi e non l'avevano nemmeno guardata! - e lassú, affacciato alla ringhiera del pianerottolo, spenzolato verso di lei, il capitano in uniforme...
La ragione le s'intorbidava: - Come mai s'era risoluta? Come mai? Protestava, si difendeva dinanzi a se stessa. Non era tornata pura, superba della propria vittoria, in casa di suo marito? Non vi era anzi tornata quasi migliore di quella che n'era uscita? E a poco a poco lasciavasi allettare dalla persuasione di Giulia:
- Il malinteso si sarebbe presto dissipato: suo marito verrebbe a riprenderla, pentito, appena accortosi del torto... - Oh, no! L'ho giurato: non riporrò piú piede in quella casa -.
E sobbalzò, quasi per sfuggire a lui venuto a riprenderla in quel punto.
- C'è ancora la fermata di Frugarolo - disse la cameriera.
- Un'altra sola fermata! -
Avrebbe voluto ricominciar da capo il viaggio, non arrivar mai a casa, e correre a quel modo eternamente, per evitare l'umiliazione della trista accoglienza che l'attendeva:
- Non mi crederanno!... Non mi crederanno neppur loro!... -
E si copriva gli occhi con una mano per non vedere il viso severo del babbo e quello arcigno della madrigna che le si affacciavano dinanzi con la precisione della realtà.
- Non mi crederanno neppur loro! -
Cominciò a tremar tutta al rallentarsi della corsa del treno, e si sentiva quasi mancare al replicato grido: - Alessandria, chi scende -.

Le sarebbe parso d'essere ancora ragazza in quella camera e in quel salotto dove, uscita di collegio, aveva passato due anni spensierati e allegri, consapevole della propria bruttezza, che ella per giovanile orgoglio si esagerava un pochino; le sarebbe parso d'essere ancora ragazza, fra i libri, i geniali lavori e la musica prediletta, senza la muta severità del padre e della madrigna che le riusciva piú dura d'ogni rimprovero aperto.
- Non ha risposto neppur oggi! -
Nelle prime settimane, la signora Ersilia non diceva altro, sul punto di mettersi a tavola, quasi avesse voluto avvelenarle i bocconi con quella rigidezza di madrigna. La signora Rosati, che aveva sconsigliato invano l'invio della lettera del babbo, taceva agitata da fremiti interiori. Lo sapeva che non avrebbe risposto... E non le importava che rispondesse. Oramai!
Poi, al principio dell'autunno, ecco il babbo che sul punto di mettersi a tavola - lo faceva di proposito, per avvelenarle i bocconi? - le ripeteva:
- Non manderà il bambino, vedrai. Lo lascerà in collegio anche durante le vacanze -.
Al ricordo del bambino, ella sentiva gonfiarsi gli occhi di lagrime; ma le ricacciava subito indietro. Né moglie, né madre!... Voleva essere cosí, snaturata, se tutti si ostinavano a crederla tale.
Le lagrime che soffocava; il sordo rimpianto della tranquilla felicità di pochi mesi addietro, che la riassaliva piú frequente; la crescente indegnazione dell'immeritato gastigo, da cui si sentiva di giorno in giorno piú offesa, scoppiavano però tutti a una volta, con terribile grido della sua anima in ambascia, quando ella faceva urlare, turbinare, squillare dal pianoforte la Cavalcata delle Walküre del Wagner, che assordava il salotto e scuoteva fino i vetri. Sin dalle prime note, piane, con richiami tristi, prolungati, e che montavano, montavano nel crescendo, come se da ogni punto di un cielo nuvoloso venisse risposto a quegli appelli, ella provava per tutto il corpo lo stesso brivido diaccio salitole su su per la schiena fino alla cima dei capelli, allorché, il marito, entrato da lei pallidissimo, le aveva detto con voce strozzata, bruscamente: «Signora!...» E si era vista perduta. E in quelle note che già s'incalzavano frementi con tumulto irresistibile, ci erano ed il pianto, e le proteste, e i giuramenti di lei: «Enrico, è la verità!... Enrico, sono innocente!...» E tosto che fra quel turbine musicale squillavano le note chiamanti soccorso, lunghe, stridenti, e si disperdevano, grido supremo di lotta, pel folto della foresta e per l'aria, squillava in esse egualmente la desolazione del suo cuore, come lungo quel triste viaggio, come all'arrivo, come nella solitudine dove era a un tratto piombata...
- Senza marito, senza figliuolo, senza che nessuno - neppure i suoi! - le rendesse almeno giustizia! - E rotta, sfinita da questo sforzo, cadeva bocconi sul leggio: - Nessuno?... Nessuno? -
Sí, se n'era già accorta; chi le aveva reso giustizia, chi nel grande eccitamento d'una incredibile passione, - ora gli credeva, sí, sí! - aveva saputo rispettarla... - e avrebbe potuto facilmente abusare della propria forza, delle circostanze, della sconsigliata debolezza di lei - chi non l'aveva offesa era soltanto colui che, ahimè!, si trovava lontano, molto lontano, senza saper nulla dell'accaduto; colui che aveva solennemente promesso di non farsi piú vivo per non recarle dispiacere, perché cosí gli era stato imposto dalla stessa bocca di lei, la prima e l'ultima volta che si erano visti da solo a solo!...

Eppure, la mattina, quando Giulia si raggirava per la stanza attigua ravviando, ripulendo - ed ella, ancora a letto, la sentiva smuovere una seggiola, un oggetto, o leggermente tossire - non la maschia e bruna figura del capitano Fasciotti, inconsapevole autore di tanto danno, le si presentava alla memoria nella tenerezza del primo risveglio; bensí quella del marito, alto e biondo; e la voce di lui, come una volta, tornava a dirle: «Giustina, avremo gente a pranzo... Giustina, tornerò tardi... Giustina, questo... Giustina, quello...»
E, dietro l'illusione della voce, veniva la visione della casa signorile che l'avea accolta sette anni, con i mobili storici, gli oggetti d'arte, le cosettine bizzarre che egli andava scovando qua e là, piú per vanità d'arricchito che per fine gusto di dilettante. E in quelle stanze tappezzate di arazzi antichi, di quadri, di panoplie di armi barbariche, e ingombre di statuette, di gingilli giapponesi, di idoli chinesi, ecco, il mostro di avorio, panciuto, accoccolato per terra, che rifaceva da un angolo le sue sconce boccacce; ecco, da una parete, la ignota figura di donna, del cinquecento, rigida sul fondo nero del quadro e che la guardava fisso con occhi tranquilli; e, dietro la giardiniera pompadour di Sèvres, tra le ricche foglie della dracena, ecco la snella figura della tuffolina dalle braccia distese in avanti, della maglia da bagno serrata attorno il bel corpo di marmo, a irritarla per l'eterna immobilità dell'incomodo atteggiamento.
E poi, massime da una settimana, non i terribili momenti d'inattesa commozione, piombati improvvisi a turbare il tranquillo andamento della sua vita; bensí le giornate serene, il dolce cullarsi di tutto il corpo nella lieta pace domestica, la bella indifferenza, la graziosa ironia per le false agitazioni del cuore, l'ingenuo egoismo d'indolente felice; bensí la convinzione della propria bruttezza, per cui non aveva mai badato all'efficacia dei lineamenti virili che lo splendore delle pupille, nerissime in mezzo al bianco dei grandi occhi, e la voluttuosa curva delle labbra carnose trasfiguravano addirittura. E tutto questo le si presentava alla mente, al primo destarsi, quantunque ella non volesse, e si sforzasse di scacciarlo via, e cercasse d'abituarsi, d'affezionarsi anche, al profondo silenzio della solitudine dove intendeva oramai fortificarsi e agguerrirsi contro la malignità della sorte... E questo passato, allegro incantesimo subissato in un attimo senza che ella ne avesse colpa, per una lieve imprudenza, non sarebbe tornato piú!... Ed ella doveva soffrirne le conseguenze e piangerne la desolazione, quasi avesse commesso l'imperdonabile delitto di cui veniva accusata!

Balzava dal letto, dove le coperte la soffocavano, e apriva la finestra per tuffarsi nell'onda di sole che già invadeva la facciata, e dimenticare ogni cosa sotto la mordente impressione dell'aria, e svagarsi, tra il rumore del movimento della via, osservando gli arrivi e le partenze dei passeggieri dell'albergo di faccia, fantasticando interminabili romanzi.
Come quel giorno che era arrivata, senza bagaglio, - da dove? Da qualche città vicina o da Pisa, o da Genova, o da Milano - quella signora vestita di bianca stoffa grave, col cappellino di paglia nera semplicissimo ed elegante, e la spolverina di seta grezza sul braccio, accompagnata da quel signore dai baffetti grigi che le aveva steso la mano per aiutarla a scendere dalla carrozza e si era fermata davanti il portone dell'albergo a parlarle in un orecchio, sorridendo; e colei gli aveva risposto di sí, sorridendo, con soli cenni del capo. Chi potevano essere? Due amanti, senza dubbio; altrimenti non si sarebbero parlati all'orecchio con tanta carezzevole intimità... Oh, almeno essi andavano incontro all'avvenire decisi, coscienti!... Poco dopo, avevano aperto la finestra dirimpetto a quella della sua camera; e dietro alle stecche socchiuse della persiana, ella aveva potuto osservarli, non vista. La signora si era tolto il cappellino. Ancora giovane, non molto bella ma simpaticissima ed elegante, dai capelli neri pettinati senza ricercatezza, dalle labbra sottili e irrequiete, teneva stretta una mano di lui nell'affacciarsi a guardare curiosamente la via sottostante e la finestra di fronte, quasi sospettando d'essere spiati. No, non aveano sospettato, perché, a un tratto si erano baciati e aveano richiuso le imposte.
Oh, non li invidiava!... Era mai giunta a comprendere quei pazzi trasporti di passione?... Le ripugnavano anzi, per natura...
La finestra era rimasta chiusa fino alle quattro di sera; poi coloro erano partiti, ma non piú lieti quali all'arrivo. Forse doveano dividersi per molto tempo, forse non rivedersi piú!... Andavano via lentamente, a piedi, tra gl'inchini dei camerieri che li aveano accompagnati fino al portone augurandogli il buon viaggio... E le si erano fissati negli occhi, come se li avesse già conosciuti da un pezzo e avesse ora partecipato al gran dolore di quel distacco...
- Almeno - aveva ripetuto - questi qui corrono incontro al loro destino, decisi, coscienti; sanno di dover soffrire o di meritar di soffrire. Ma io?... E la Cavalcata delle Walküre tornò a urlare, a turbinare, a squillare piú potentemente, quasi piú rabbiosamente degli altri giorni. E alla fremente musica del Wagner tenne dietro, con breve intervallo, il folleggiamento di un pezzo del Freischütz.
Alla divina voce musicale dello stormire delle fronde nella foresta, del mormorio delle acque scorrenti, del ridestarsi dell'aurora salutata dal canto degli uccelli alla pia voce, inebriante come delicato profumo, che le andava accarezzando il cuore calmandovi ogni agitazione e sanandovi momentaneamente ogni piaga, Giustina aveva sentito un improvviso rifiorire della sua lieta giovinezza; e il doloroso passato le era quasi svanito dalla memoria col dileguar di quelle note smorzatesi assottigliandosi, sfumando, simili a nebbia dietro a cui ricompariste la campagna raggiante di sole.
- Signora, è già in tavola - annunziò la cameriera.
Giustina indugiò alquanto, commossa da quella musica preferita per le difficoltà d'esecuzione, per la grande idealità, gustata con fino intendimento d'artista:
- Specialmente ora - lo aveva già notato; - specialmente ora -.
E pensava ai lieti prognostici del maestro, in collegio; pensava all'unico trionfo nella sala del conservatorio di Milano, in una festa di beneficenza, quando agli applausi scoppiati forti e unanimi si era sentita venir male; e aveva dovuto replicare il pezzo, ottenendo maggiore trionfo.
Il suo maestro aveva forse ragione, ripetendole: - Peccato, questo talento perduto! - Aveva forse ragione cercando d'abbagliarla col miraggio d'un avvenire di gloria, di ricchezze, di vita vera; pregandola: - Dia retta a me! - quasi di quella ricchezza e di quella gloria qualcosa avesse dovuto toccare anche a lui. Ma ella, no, non si era sentita attrarre da nessuno di quegli splendori. Pigra, indolente, amava la quiete della famiglia, da modesta borghesina...
Ed ecco!... Ed ecco ora!...
Sul punto di uscir dalla stanza, col gran fiotto d'indignazione che tornava a montarle dal cuore, si ricordò di lui, di suo marito che non poteva soffrire quella musica astrusa, musica da bestie feroci com'egli soleva qualificarla.
- Ah! gli piacevano le canzonette della Belle Hélène, il cancan dell'Orphée aux Enfers... Villano!... Tieni!... -
E con profondo disprezzo di donna offesa anche nel sentimento dell'arte, gli suonò quasi sul muso le prime quattro battute del cancan dell'Orfeo...
- Tieni!... Villano! -

Il pranzo fu piú triste del solito. La madrigna, magra, ritta sulla vita, mangiava a bocca stretta, con gli occhi nel piatto, facendo di tanto in tanto, col coltello o con la forchetta, un rumore vibrato, quasi per stizza repressa che le scuotesse le mani. Il padre, dal viso smorto e abbattuto, a testa bassa, biasciava quel po' di pietanza che metteva in bocca, e allontanava presto il piatto con gesto di nausea, facendo segno alla serva che glielo levasse d'innanzi.
Giustina s'era messa a tavola con un po' d'appetito, eccitata; ma da lí a poco sentí mancarsi anche lei ogni voglia di mangiare, al funebre silenzio che le annunziava certamente qualche disgrazia.
- Babbo!... - disse a un tratto - Il bambino... forse? - E guardava ansiosamente ora lui che aveva levato il capo senza comprendere, ora la madrigna diventata piú rigida e piú severa.
- Che cosa è accaduto insomma?
- Niente.
- Niente - ripeté la signora Ersilia.
In quella stanza da pranzo semplicemente arredata, davanti a quella tavola ovale, coperta da tovaglia bianchissima, su cui le posate d'argento e le bottiglie e i bicchieri di cristallo luccicavano in un canto, nei soli tre posti occupati; con la vecchia serva che aspettava silenziosa, o portava attorno le pietanze, andando e venendo in punta di piedi quasi per paura di far rumore; dopo le poche parole strappate a stento e che non le apprendevano niente, Giustina era rimasta un momentino interdetta:
- Si tratta di me, senza dubbio; di qualche nuova indegnità di mio marito!... E sbucciando una mela, per tenere occupate le mani, cercava d'indovinare:
- È per l'amministrazione della dote?... Per una separazione legale?... -
Smaniava, ma non voleva farsi scorgere; e guardava, simulando indifferenza, i brutti disegni del soffitto, senza curarsi del caffè che le si freddava nella tazza.

Il signor Federico s'avviò lentamente verso il salotto, tenendo le mani dietro la schiena, strascicando un po' i piedi. Sua moglie, vicino alla credenza, dava alcuni ordini alla serva e a Giulia sopraggiunta. Giustina, andata dietro al babbo, l'aveva già fermato, supplicandolo:
- Babbo, parla, per carità!... Parla; di che si tratta?
- Giacché tu vuoi saperlo... Leggi, leggi qui! E, spiegato a stento il numero del «Secolo» di Milano cavato di tasca: - Leggi - ripeté il signor Federico; e il gesto quasi teatrale del vecchio avvocato indicava un lungo frego di lapis rosso.
Atterrita, ella divorava con gli occhi il brano di cronaca, tolto da un giornale di Firenze, che riferiva minutamente la storia del duello, coi nomi e con ogni altra indicazione, aggiungendo - dietro il solito: Cherchez la femme - anche i particolari dell'antefatto, compiacendosi della narrazione, drammatizzando le scene, inventandone di sana pianta; quasi il cronista imbecille fosse stato presente; quasi non avesse dovuto riflettere che quelle righe avrebbero colpito mortalmente, se non la donna stimata colpevole e non piú degna di riguardi, la sua famiglia che, per la sventura, meritava qualche rispetto!... Ma che importava a lei del cronista, del duello, del povero capitano ferito?
E altiera della propria innocenza, rossa di vergogna: - Tu non gli credi, - disse - tu non gli credi, è vero?... Torno a giurartelo: Sono innocente! Mentiscono tutti. Fu soltanto un'imprudenza. Credimi almeno tu, tu solo!
- Sciagurata! Vai in casa d'uno scapolo, d'un militare, già sul punto di partire e mutar di guarnigione... e pretendi che la gente non sospetti niente di male? Ah! Minacciava di ammazzarsi? Che te ne faceva a te, se non lo amavi?
- Sí, babbo, hai ragione: che me ne faceva, se non lo amavo?... Ma non lo amavo, te lo giuro per la santa memoria della mamma!... Temetti uno scandalo, fui mal consigliata... Oh, credimi tu, tu solo! Non sono indegna d'esserti figlia! -
Il vecchio scoteva tristamente il capo:
- E quando ti avrò creduto io? -
Ella gli stringeva ancora le mani, bagnandogliele di lagrime, quasi in ginocchio davanti a lui, quando la signora Ersilia intervenne.
- Vuoi farlo morire di crepacuore? -
Sentendosi presa pel braccio e cosí rimproverata dalla matrigna, Giustina si rizzò:
- Sí, sí, dite bene! - balbettò con ironia disperata, fra i singhiozzi. E andò via lentamente, aspettandosi d'essere richiamata indietro, aspettando che il babbo le gridasse: - Ti credo! - e le stendesse le braccia.
E il babbo l'aveva lasciata andar via senza richiamarla, senza dirle niente! Era una cosa enorme! E all'arrivo, egli l'aveva ascoltata attentamente, e quei suoi: - Quand'è cosí!... Quand'è cosí! - le erano parse parole di perdono!...
Parlava a voce alta in camera, gesticolando, andando su e giú a grandi passi; e il suono della propria voce la eccitava, la indignava di piú.
L'aveva lasciata andar via, senza richiamarla, senza stenderle le braccia. E mentr'ella qui veniva cosí ingiustamente vilipesa, colui agonizzava, laggiú, non meno ingiustamente, colpevole soltanto d'averla amata e rispettata; agonizzava, chi sa?, maledicendola per la palla che gli aveva lacerato il petto e forse intaccato un polmone!... Istintivamente portò le mani al seno; le parve sentire proprio la viva impressione di quel sangue spricciante caldo caldo dalla ferita, e venne meno in mezzo alla camera, cadendo sul tappeto senza rumore.

- Lo hanno voluto; devono essere soddisfatti! -
Era rimasta parecchi giorni tutta rimescolata da questa idea, quasi una ruota di mulino le girasse, rumorosamente, senza un istante di tregua, dentro il cervello. Niente aveva potuto distrarla; neppure gli occhi sorridenti d'immensa gratitudine con cui il ferito la guardava dalla sua immobile posizione, essendogli vietato di parlare; neppure le brevi e frequenti strette alla mano, ch'egli voleva continuamente tenere tra le sue per convincersi che la presenza di lei in quella camera sul Viale dei Colli, piú in là di porta San Gallo, non fosse un'allucinazione di sensi sconvolti.
- Lo hanno voluto; devono essere soddisfatti! -
E il cuore le si era gonfiato di repugnanza, in quella camera dalla carta di parato pretensiosa e volgare, dalle tende che parevano uscite allora allora da un negozio a buon mercato, dalle seggiole rivestite di cretonne sbiadito, dal canapè di stoffa blu che mostrava negli angoli i dentini bianchi della trama, dalle pareti con le oleografie del Capponi stracciante i patti di Carlo VIII e della battaglia di Gavinana, ove Ferruccio moriva, premendo una mano sul petto, come un tenore da melodramma.
- Lo hanno voluto; devono essere soddisfatti! -
E aveva assaporato, con trista voluttà, l'amaro beveraggio del proprio avvilimento ogni volta che s'era vista squadrare, frugare, quasi oggetto di curiosità, dagli sguardi indiscreti e delusi - non la trovavano punto bella - dei giovani uffiziali che venivano a visitare il ferito.
Poi s'era accasciata, lassamente; e nella monotonia delle lunghe giornate d'infermiera, dopo che gli uffiziali, per riguardi facili a capirsi, diradarono le loro visite, con l'unica distrazione di qualche lettura che spesso non riusciva a interessarla, quel nuovo stato d'abbattimento le era riuscito anche gradevole.
- Come ho potuto resistere?... Come resisto ancora?... Ah, il dolore non uccide! -
In certi momenti però, tutt'a un tratto, la sua povera testa vertiginava, e il libro le cascava di mano. Sprazzi di luce le sfolgoravano interiormente, nel buio della memoria, vicini, lontani, senza legame di sorta. In che maniera persone dimenticate da tanto tempo, paesaggi veduti di sfuggita anni addietro, insignificanti impressioni di passeggiate, di tramonti, di serate di teatro allora avvertite appena; in che maniera parole, mezze frasi, semplici inflessioni di voci sconosciute, che l'avevano colpita non ricordava piú quando, si ridestavano ora vivissime, con senso di ripercussione, e tutto il resto taceva, quasi non fosse mai esistito? Non riusciva a spiegarselo.
- Sto forse male? -
Le dispiaceva soltanto per lui, quantunque il dottore avesse annunziato che da ora in poi non sarebbe piú venuto due volte il giorno; non occorreva...
- Con un'infermiera come la signora -.
Il capitano sorrise.
- Fuori di pericolo, finalmente! - disse Giustina, appena rimasero soli.
- Che m'importerebbe di morire, dopo che vi ho vista qui? - rispose il capitano con voce fioca. - Se sapeste...
- Zitto, non vi affaticate.
- Parlate almeno voi... Non dite mai niente.
- V'affaticherei lo stesso. Avremo tanto tempo fra poco! -
Ella arrossí della pietosa bugia che le aveva scottato le labbra. Che poteva mai dirgli? Con tutta la grande pietà verso quell'uomo che si era dibattuto fin allora tra la vita e la morte a cagion di lei, quantunque senza sua colpa, ella si sentiva tuttavia estranea colà, e trascinatavi per forza.
- Ed è passato un mese e mezzo! -
Abbastanza tranquilla da poter riflettere, da poter osservare se stessa, da alcuni giorni, a intervalli, l'assoluta mutezza del suo cuore - cosí ostinata anche dopo che la sua ragione non aveva saputo resistere all'urto degli avvenimenti - l'assoluta mutezza del suo cuore la rendeva sgomenta.
- E se durerà sempre cosí? -
Le minute cure d'infermiera però sopraggiungevano sempre in tempo per riscuoterla e distrarla. Allora, seduta presso la finestra, a ogni svoltar di pagina del libro che teneva in mano, ella volgeva lo sguardo verso le colline dove le ville, biancheggianti tra il verde cupo degli alberi, parevano arrampicarsi qua e là, come agnelle disperse. E alla vista di quel cielo di limpida profondità azzurrina, e senza nuvole, che serviva di fondo agli svelti campanili e alle brune case di Fiesole; alla vista di quel mare di verzura steso dattorno, a perdita d'occhio, e che quasi gettava le sue ultime ondate lí sotto, a pochi passi, con gli alberi che proiettavano l'ombra sul viale polveroso, un'impressione di refrigerio al cuore la faceva sorridere d'ammirazione per quel gentile accordo di tinte.
- Bello, eh? - egli le disse, vedendola guardare cosí intenta. - Andremo assieme lassú, la prima volta che mi sarà permesso uscir di casa.
- Affrettatevi - rispose Giustina.
- Siete voi che mi guarite, coi vostri occhi. Fate piú presto -.
Quel viso di sofferente, su cui la barba lasciata crescere rendeva piú visibili il dimagrimento e il pallore, si rianimò luminoso. E stettero tutti e due un pezzettino a guardarsi senza dir altro; egli quasi ancora incredulo di quella non mai sperata o sognata fortuna d'amante, ella commossa da carità d'infermiera, che le soavi impressioni di quel momento rendevano piú viva.
Poi quando all'orizzonte il cielo si tinse d'un rosso tendente al violetto, e i campanili, le cupole, le mura di Fiesole parvero di fuoco contro gli ultimi raggi del sole al tramonto, e il vasto mare di verdura diventò scuro scuro fra i vapori azzurrognoli che salivano lentamente nella maestà della sera, Giustina sentí una tristezza piú intima, piú straziante delle altre volte, di creatura vigliaccamente abbandonata da tutti; e rimase a lungo con la fronte appoggiata ai cristalli, lasciando sgorgare di nascosto le lagrime che le venivano su, proprio dal cuore.
Il capitano intanto, dal suo letto in fondo alla camera, scoccava bacettini verso quella mezza figura di donna spiccante in nero sui cristalli della finestra, ai rossicci riflessi dei fanali di fuori.

Giustina si sentiva assai meno tranquilla ora che il ferito rifioriva, ora che gli era permesso di muoversi, sedersi sul letto, e parlare. Egli l'attirava dolcemente, con tutte e due le mani, verso la sponda:
- È vero?... Siete proprio qui? -
E in quell'accento pieno di carezze si sentiva il primo sfogo della gioia dovuta comprimere e soffocare durante i penosi giorni della convalescenza.
- Vi ho fatto molto male... Perdonatemi. È stato senza volerlo.
- Oh, non parliamo del passato!
- Avete ragione; non parliamo del passato -.
E la fissava con gli occhi raggianti d'affetto umile, rispettoso dinanzi a quella severa ritrosia che era d'imbarazzo per tutti e due. Oh, egli non aveva fretta! L'aveva amata due anni senza nessuna speranza, senza nessuna lusinga, inebriato dal filtro della gioconda serenità che le sorrideva nello sguardo, della gentile espressione di dolcezza e di pace che traspariva dagli irregolari lineamenti di quel volto bruno, ridondante di salute.
- Vi ricordate dove ci siamo incontrati la prima volta?
- No.
- È naturale; mi guardaste appena: nel salotto della signora Pietrasanta. Suonavate qualcosa del Berlioz musica strana, e come non l'ho risentita da nessun altro. Da quel momento non ebbi piú pace. Che cosa amavo maggiormente in voi? Non avrei saputo spiegarlo. Amavo voi, tutta voi... che intanto non potevate neppure soffrirmi! - egli soggiunse sorridendo.
- No; v'ero grata, credetemi...
- Mi sarebbe bastato, se me l'aveste lasciato scorgere da un lieve segno.
- Non volevo incoraggiarvi. Temevo, a ragione...
- Ed ora siete qui!... Siete mia!... Mi pare assurdo... -
Tentò di passarsi le braccia di lei attorno alla vita e cingerla con le sue; ma Giustina si trasse indietro.
- Scusate... Certi ricordi mi fanno ancora male...
- Dimentichiamoli.
- Dimentichiamoli! - ella replicò con un sospiro.
- Lascerete queste brutte stanze, - riprese Fasciotti dopo un momento di silenzio. - Troveremo un nido degno di voi, da vivervi senza soggezioni importune. Io verrò a trovarvi, discretamente... -
Ella lo ascoltava, intenerita di tutti quei bei castelli in aria ch'egli si compiaceva di fabbricare con giovanile prodigalità, rovesciato sul mucchio dei guanciali, tenendola per le mani presso il letto, esitante ancora di chiederle che questa piccola familiarità d'amico si mutasse, per grazia, in un bacio d'amante.
La tenerezza di lei diventava però dispetto e fino rabbia contro se medesima, appena ella si sentiva rattrappire come piú la voce del capitano suonava commossa, come piú l'accento si turbava nella crescente effusione delle confidenze, come scoppiavano in quegli occhi i forti bagliori d'un desiderio rattenuto a stento e che già pareva spazientirsi. E scappava via con qualche pretesto, per abbandonarsi nella sua camera alla desolazione del proprio tormento:
- Sono dunque di ghiaccio?... Come mai non lo amo?... Come mai resto impassibile di fronte a tanta delicatezza di passione che può chiamarsi eroismo?... E durerà sempre cosí?... No! no! - rispondeva spaventata.
Avrebbe voluto fermare il tempo:
- Se la convalescenza di lui fosse piú lenta! -
Ah, diventava anche crudele!
Quella mattina, scorgendolo in piedi in mezzo alla camera, ella trasalí, come davanti a un agguato.
- Entrate, c'è qualcosa che vi aspetta - le disse Fasciotti, additandole il pianoforte verticale aperto tra le due finestre dov'era prima il tavolino.
- Come siete buono!
- Dite egoista - rispose andandole incontro.
- È stato dunque per questo che mi avete costretta a fare una passeggiata?
- Volevo farvi una sorpresa -.
Ella resta sull'uscio, appoggiandosi su l'ombrellino, indecisa. Nella camera, tutta illuminata dai vivi riflessi del sole di giugno che splendeva fuori, qualcosa d'insolito e di sottinteso la metteva in diffidenza. Egli le porse la mano..
- È un Pleyel - disse Giustina avvicinatasi al pianoforte.
- Molto da strapazzo.
- Come la suonatrice.
- Questo dovrà dirlo il pubblico: io. Sono inesorabile, sappiatelo!... Dove siete stata?
- Per la campagna, da questa parte. Lasciai subito la carrozza. Sono tornata a piedi... Che giornata di paradiso!... Ho rubato dei fiori per voi.
- Grazie -.
Ella guardava il pianoforte, tentata. La passeggiata per la campagna l'aveva scossa. Si sentiva per tutto il corpo un senso di freschezza e di leggerezza. Il fremito delle fronde e delle erbe al lieve alitare del vento, riprendeva a vibrarle dentro eccitato; e socchiudeva gli occhi, quasi ancora offesa dalla troppa luce, come poco prima sotto l'ombrellino, all'aria aperta.
- A che pensate? - le domandò Fasciotti, vedendola immobile e silenziosa.
- A niente -.
Non era vero. Ella pensava al bel bambino veduto saltellare, a cavalluccio di un bastone, su la terrazza d'una villetta... Pensava alla bionda signora vestita di stoffa grigia, e che sorrideva di gioia materna dinanzi al bel bambino saltellante... Cosí aveva fatto anche lei, una volta!...
- A niente! - replicò. E per frenarsi, stese una mano su la tastiera del pianoforte, facendovi scorrere su, con scatto nervoso, le dita, quantunque impacciati dal guanto.
Quelle poche note la punsero come colpo di sprone. Si tolse in fretta in fretta il cappellino e i guanti:
- È il ringraziamento; compatitemi - disse.
Appena il pianoforte cominciò a susurrare, a balbettare sotto voce, con suoni che s'interrompevano e si riprendevano, tremolanti, accarezzantisi fra loro, egli si allungò su la poltroncina, rovesciando indietro la testa, socchiudendo gli occhi, cedendo alla deliziosa sensazione che gli si rinnovava nel cuore.
- Berlioz! - mormorò sorridente di riconoscenza.
A un tratto, i bassi insorsero cantando un coro grandioso, che riempiva tutta la camera di mistica sonorità. Ed ella si rizzò su la vita, irrigidendo le braccia, quasi cercasse far ostacolo alle vibrazioni che sopraffacevano, squassandole i nervi, già tesi per lo sforzo di quell'esecuzione a memoria.
Fasciotti si era levato lentamente in piedi, rapito, esaltato dalla voluttuosa frase musicale che in quel momento tintinniva e guizzava rapidissima sul cupo accordo insistente. A un tratto, le si avventò, divorandosela dai baci.
- No! No! - ella balbettava supplichevole, quasi svenuta. E le corde del pianoforte ondulavano ancora fra l'incessante scoppiettio.
Nell'immediato turbamento, aveva pensato fuggire e scrivergli: «Perdonatemi!... Il sagrifizio è superiore alle mie povere forze!»
- Ma, dopo? - aveva subito riflettuto. - Come ne godrebbero coloro che mi hanno dato la spinta! Prima tradí il marito; ora abbandona l'amante, e non ha aspettato neppur molto! Cosí direbbero, cosí. È orribile! Dunque una persona buona e onesta può diventar cattiva e miserabile anche quand'ella non vuole? E c'è chi grida: «La ragione! La ragione!...» A che giova, a che mai, se non è buona a salvarci dall'improvviso accecamento d'un dispetto, se ci lascia addentare e stritolare da una circostanza che decide, senza rimedio, dell'avvenire d'una vita? -
E trambasciava al ricordo di quei baci, come a rinnovantesi offesa.
- Che posso piú farci?... È inevitabile. In un pazzo impeto, non son venuta a dirgli: «Mi accusano d'essere la vostra amante; e sia, almeno; eccomi qui!» Ah! Si era figurata che bastasse soltanto dir ciò, per diventare amante come tant'altre. Invece, la gentile raffinatezza dell'uomo innamorato che le stava attorno senza chieder nulla, appagandosi di poco, aspettando, paziente... forse perché era sicuro; invece, quella gentile raffinatezza si mutava in martirio per lei.
- Oggi andremo fuori insieme - egli le disse una mattina. - Cercheremo il vostro nido. Mi è stato indicato un bel posto.
- Grazie. Voi pensate a tutto - rispose Giustina, sorridendo tristamente.
- È per vedervi meno seria... Mi sembrate cangiata. Dov'è andata la vostra bella serenità? Dove la tranquilla dolcezza del vostro sguardo?... Non lo negate: siete cangiata. -
Come potrei essere la stessa?
- Non osavo dirvelo; per non importunarvi; ma io vi vorrei come prima. Vi ho amata a quel modo e, sí, vi voglio a quel modo!
- Scendiamo -.
Il cocchiere, per isbaglio, li menava lungo una strada di campagna, inoltrandosi verso Porta a Pinti senza ch'essi vi badassero. Quell'aria tiepida, smagliante di luce; quel rigoglio di fronde che traboccava fuor dei muri di cinta con lieta foga primaverile; quel cinguettio di uccellini nidificanti tra le siepi o inseguentisi su pei rami, pigolando d'amore; quella gioconda fioritura di erbe e di piante selvatiche che profondeva sui cigli e lungo i lati della strada tesori di ciocche pavonazze, di bocci rossi e bianchi, di calici gialli, violetti, sanguigni, turchini, aperti e tremolanti su gli steli o mezzi nascosti tra le foglie; quella gran pace sorridente all'ombra degli alberi o al sole, su i vigneti, sugli orti umidicci, su i seminati dalle spighe quasi bionde;... oh, quel magnifico spettacolo essi non se l'aspettavano punto! E continuando a tenersi per mano, tacevano, distratti.
- Via Lungo il San Gervasio? - domandò il cocchiere a un contadino. Bisognava tornar indietro. Fasciotti rise del contrattempo e disse:
- Indovinate che pensavo?
- Se fossi stata indovina! - ella rispose.
- Pensavo... No, non voglio dirvelo -.
Giustina tacque. Le parve di veder lampeggiare in quegli occhi un affettuoso rimprovero meritato, e non volle mentire per iscusarsi. Le parve di veder lampeggiare in quegli occhi anche un'improvvisa fierezza d'amante risoluto di trionfare, come trionfava lí attorno tutta quell'irrompente forza di amor vegetale, ed ebbe paura di provocarla.
- Siete muta oggi - egli le disse, vedendo che lo lasciava parlare senza interromperlo, o gli rispondeva con monosillabi.
- Vi ascolto. Dite tante belle cose! -
Ma il suo accento era triste. E al ritorno, scendendo l'ariosa via tracciata dalla nuova Firenze a piè dei colli fiesolani, sentendolo ragionare allegramente del grazioso nido trovato per lei nella palazzina al numero venti di via Lungo il S. Gervasio, sentiva un grande accoramento:
- Quella carezzante allegria non era forse un'insidia? -

Piuttosto avrebbe preferito ch'egli avesse adoprato la forza: - Cosí sarebbe finita! -
E nelle notti insonni, ripassando a una a una le mute sollecitazioni indovinate in un bacio piú caldo o piú lungo, in un'occhiata, in una reticenza, ella s'incoraggiava. Chi sa? Quell'illogica repugnanza del suo corpo si attutirebbe nel possesso; sarebbe forse vinta; chi sa?... Oh, non voleva piú avere l'apparenza d'un'ingrata!
Sentendolo ritornare a casa, dopo una giornata di servizio alla Fortezza, gli uscí incontro sul pianerottolo. E la stessa rassegnata dolcezza che pietosamente le sorrideva negli occhi, le tremava anche nella mano stesa a dargli la buona sera.
- Che ore eterne per me! - egli le diceva in camera, accarezzandole i capelli e dandole dei bacettini su la fronte mentr'ella tentava di sfibbiargli dal fianco il cinto argentato della sciabola.
Le parve piú bello in quel punto, stretto nella divisa, con le spalline e i bottoni che luccicavano, e il maschio volto, dai baffi neri fieramente rilevati, rizzato sul collo chiuso nel goletto bianchissimo; e fece uno sforzo e gli tese le braccia teneramente.
Ma nelle ombre della sera che invadevano la camera silenziosa, al mormorio di quelle affettuose parole che le sfioravano la guancia, calde del fiato di lui, la riluttanza le si ridestava già e piú brusca, piú forte, quasi i nervi e il sangue, ribellati all'impero della volontà, la spingessero a gridare: «No, non dev'essere!...» mentre avrebbe voluto dire il contrario.
Egli lo capí, da quel lieve tremito che l'agitava, da quelle labbra ghiacciate che non rendevano i baci:
- Voi non mi amate ancora! L'ho sospettato.
- No, Emilio, t'amo! T'amo! - ella mentí, disperatamente, ingannando anche se medesima.
E poco dopo, mentre colui la ringraziava sotto voce, grato del possesso vittorioso, ella diceva internamente:
- Almeno m'ha creduto! -
E gli si abbandonava tra le braccia, scossa da un gran convulso di ribrezzo.

- Devi annoiarti in questa solitudine.
- Ho pianoforte, musica, libri!... E poi, mi dai tu forse tempo?
- Faccio quel che posso.
- Fai troppo. Non è un divertimento salire cosí spesso fin quassú.
- Non è neppure una marcia.
In quei primi mesi discorrevano talvolta cosí, alla finestra del salottino di via Lungo il San Gervasio, intanto ch'egli fumava, un po' impensierito di quella specie di stanchezza della voce di lei; e Giustina, co' gomiti appuntati sul cuscino del davanzale, continuava a rispondergli guardando ora il bel panorama di Firenze che rizzava laggiú, nella pianura, la cupola di Brunellesco, il campanile di Giotto e la guglia merlata di Palazzo Vecchio torreggiante sui tetti; ora il piazzale Michelangelo che pareva là, a due passi, col David che quasi si poteva toccare stendendo il braccio; ora monte Morello e gli appennini di Pracchia, sfumati fra i vapori, lontano.
- Ti annoi; perché negarlo?
- Ti dico di no.
- Tanto meglio -.
Quella volta, verso le sette di sera, presero una strada di campagna, poi svoltarono per una viottola solitaria, serpeggiante su la collina.
- Che bella veduta! - ella disse.
- Bellissima! -
E si sedettero sulla spalletta rustica d'un ponticello, simili a innamorati che abbiano ancora mille cosine da confidarsi. Infatti egli le confidava la sua speranza d'un prossimo avanzamento di grado; s'era già preparato a un esame.
- Quando saremo maggiore, - aggiunse scherzando - avremo piú autorità. Ordineremo: «Cara signora, vogliateci un po' piú di bene.» E la signora - la disciplina soprattutto! - ci vorrà un po' piú di bene. Con un maggiore non si canzona.
Giustina sorrideva: ma in quei grandi occhi tranquilli e su quelle grosse labbra colorite, il sorriso prendeva un'indefinibile espressione di dolorosa tristezza.
Il ragionare, dietro una cosa e l'altra, era cascato intorno all'amore.
- Perché m'ami? - gli domandò improvvisamente Giustina. - Non sono bella, tutt'altro; non sono capricciosa...
- Che ne so io? Sei qualcosa di meglio; lo giudico dagli effetti.
- Non hai detto la stessa cosa a tant'altre? Sinceramente, s'intende.
- Oh! Io credo che si possa aver amato cento volte e non aver mai provato una passione.
- Non lo capisco.
- Lo capisco ben io. Tu m'ami; mi vuoi certamente bene, ma...
- Quando una donna ha già dato all'uomo tutta se stessa... Gli uomini non possono figurarsi, neppure dalla lontana, che cosa significhi: darsi!
- Vi date forse? Vi lasciate prendere.
- Povere donne! E ne menate anche vanto.
- Ma lasciarvi prendere è la vostra forza. Nella guerra di amore, qualunque vittoria risulta sempre al rovescio. Chi capitola detta i patti e le condizioni.
- Come s'indovinerebbe il militare, anche senza la divisa!
- Ecco, per esempio, questo bacio qui...
- Emilio!
-...parrebbe, a prima vista, una violenza. Ma potevo non dartelo? La violenza l'ho sofferta io, da questi occhi, da questa bocca, da questa personcina che s'appoggia trionfante al mio braccio, e quasi mi sgrida... per un bacio!
- Emilio! -
Gli ulivi stormivano attorno, nel gran silenzio della sera.
- Faremo tardi, - ella disse dopo breve pausa.
- Avremo la «celeste paolotta...»
E additava, ridendo, la luna montante, rossa e grande, su le colline scure, nel cielo a pecorelle:
- Pare che salga di fretta dietro le nuvolette biancastre. -
- Di notte, la campagna mi fa paura - rispose Giustina.
- Anche quando l'esercito marcia in armi al tuo fianco? -
In verità ella aveva assai piú paura di quell'allegra eccitazione rivelata dalle parole, dagli slanci improvvisi, dal tono stesso della voce.
Scendevano silenziosi, a passi corti e lesti, per la viottola deserta, mentre i grilli trillavano al lume di luna, e i «chiú» di due assioli si rispondevano, distanti, a intervalli, e il gracidio delle rane dal vicino Mugnone saliva, quasi coro, monotono e solenne. Egli andava accarezzando sul suo braccio la mano di lei. E a quella carezza insistente che le produceva su la pelle delicata un sottile bruciore, Giustina sentiva riempirsi il cuore d'immensa commiserazione di sé. La vita le sarebbe parsa quasi felice, se tutto si fosse limitato a quella dolce intimità piú dello spirito che del corpo. Perché a lui non bastava? E il ricordo della terribile sensazione di ribrezzo che la frequenza, ahimè!, non attutiva e che l'illuso orgoglio dell'amante scambiava per tutt'altro, le faceva correre un brivido freddo per la persona e le inumidiva le palpebre.
- Ecco un fanale; sei contenta? - egli le disse. - Siamo quasi in città... Ma che hai? - soggiunse subito, vedendole inaspettatamente portare agli occhi il fazzoletto.
- Sciocchezza!... Pensavo... a quella bambina di cui ti parlai l'altra volta. Povera creatura!... Mi è venuta in mente tutt'a un tratto, con quel visino magro e palliduccio che sparisce tra i folti capelli castagni... Quando s'affaccia alla finestra dirimpetto, raccolta nello scialletto anche in agosto, e mi guarda, e mi guarda intentamente... mi fa quasi male. E nel pensare a lei... che sciocchezza! Parlava affrettata, come chi vuole ingannare, con un misto di pianto e di riso che le tremolava nella voce; e intanto si asciugava gli occhi.
- Via - disse Fasciotti, senza sospettare niente - quando ne avremo una anche noi...
- No, no! - ella lo interruppe.

Aveva dovuto mentire. Il bambino suo, il caro bambino suo le era venuto in mente in quel momento, quasi il venticello che faceva stormire gli ulivi le avesse portato all'improvviso qualche profumo della villa Rosati, situata in mezzo al ristretto parco, presso lo Scrivia, dov'ella passava l'estate col figlio e il marito, lieta della fresca serenità di tutto quel verde e di tutta quell'ombra, tra i gridi allegri e i colpi dei cacciatori risuonanti dalle macchie a piè del colle.
E cosí mentiva tutti i giorni, ora che il rimpianto del passato tornava a riprenderla, ora che la sua ragione non dava piú torto a quegli altri che l'avevano spinta nell'abisso.
Non provava piú contro di essi il cieco sdegno di prima; non ne parlava piú con quell'accento duro e sbalzante, vibrato come guizzo di frusta dalle sue labbra convulse, nei giorni seguiti all'arrivo di Giulia da lei richiamata.
- Tu che sai!... - le aveva ripetuto interrottamente. E il cuore le si era vuotato d'ogni resto di fiele. Era stata ingiusta, al pari degli altri, forse piú; lo riconosceva. Le apparenze non stavano tutte, tutte!, contro di lei? Qual testimone poteva ella invocare per giustificarsi pienamente davanti a suo marito e a suo padre?... E non aveva, con quel colpo di pazzia, dato ragione all'accusa? Si strizzava le mani, si mordeva il labbro, aggirandosi smaniante pel salotto, quando non le riusciva di continuare a leggere perché i caratteri le si confondevano sotto gli occhi turbati e il pensiero andava via via, lontano, quasi a piangere dietro il portone della casa di suo marito, dietro il cancello della villa in mezzo al parco presso lo Scrivia, dietro l'uscio della casa paterna; a piangere e a domandar l'elemosina d'un perdono ch'ella sentiva di meritare e che sapeva, pur troppo!, non le verrebbe mai accordato.
E il pianoforte gridava allora, ripeteva la sua confessione, domandava perdono in nome di lei con le dolenti melodie dello Schumann e dello Chopin, con le divine suonate del Beethoven, con le rubeste sinfonie del Wagner e del Listz, che chiamavano alle finestre dirimpetto e a quelle del primo piano della casa i visi attenti e maravigliati di parecchi inquilini; e tutti gli amati fantasmi della sua vita le sorridevano attorno in quei momenti, la colmavano di carezze e la lasciavano commossa e spossata tosto che si dileguavano lontano, lontano, piú lontano della stessa infanzia, quasi in un'altra esistenza!...
- Ah, il mio bambino!... Ah, il mio caro bambino! - sospirava con le lagrime agli occhi, vedendo quel visino affilato di creaturina malaticcia che ella trovava sempre alla finestra dirimpetto, ogni volta che, terminato di suonare, s'affacciava a cercare con la faccia ardente la fresca impressione dell'aria aperta.
Un giorno la bambina le sorrise.
- Come stai, carina? - ella le domandò.
E la tenerezza di mamma desolata le addolciva la voce. La bambina non rispose, e continuò a sorriderle timida.
- Che fai lí?
- Mi diverto a sentirla suonare.
- Vieni qui, col permesso della tua mamma; suonerò a posta per te -.
Non le era parso vero d'aver potuto attirarsela in casa. Fasciotti la trovò agitata, rimescolata, con quella magra creaturina seduta su le ginocchia, stretta tra le braccia, e che aveva negli occhi la meraviglia di tutte quelle carezze inattese.
- Se tu sentissi che vocina! Pare un flauto - ella gli disse.
- Cosí, con lei, non ti annoierai in questa settimana di mia lontananza.
- Vai via?... Per l'esame?
- Questa sera, coll'ultimo treno.
- Signor maggiore, buon viaggio! -
Era anche allegra in quel momento. Ci voleva tanto poco per renderla quasi felice.
Appena però gli lesse in viso il malumore per la presenza della bambina, non ebbe piú coraggio d'accarezzarla, di baciarla, e la mise a terra, con cuore soffocato.
- Vo a casa - disse la bambina.
Giustina non osò trattenerla; e l'accompagnò fino all'uscio, facendosi promettere piú volte che sarebbe tornata
- Verrai tutti i giorni, è vero?
- Se la mamma vorrà.
- Perché non dee volere? -
E riprese a baciarla, indugiando.

Un dubbio la tenne su la corda: - Sospettava egli qualcosa? -
Era partito evidentemente malcontento dell'insolita resistenza di lei la sera del commiato. E per calmarlo, per scancellargli la brutta impressione, per cacciargli di mente ogni sospetto, gli aveva scritto parecchie lettere lunghe, affettuosissime.
- Mentiva forse scrivendogli cosí? No. Gli era grata di quella passione che pareva moltiplicasse la sua delicatezza e la sua forza nella crescente intimità della loro vita; e lo amava, sebbene in modo diverso, con grande slancio dell'anima... Che poteva farci se il suo corpo resisteva?... Ah, se ella avesse avuto un po' piú di coraggio! Se avesse potuto essere sincera e dirgli... Come dirglielo? Era impossibile. Gli dovea questo gran sacrifizio, dopo che quegli per poco non le aveva sacrificato anche la vita.
E quand'egli le rispose: «Tu m'ami meglio da lontano. Scherzi a parte, nelle tue lettere mi sembri un'altra. Strana creatura! Una frase, una sola frase di queste trovate ora, come tu dici, in fondo al cuore, pronunziata dalla tua bocca, mi avrebbe fatto salire ai sette cieli. Ed hai taciuto, cattiva!... Mille baci sui ditini che hanno tenuto la penna»; quand'egli le rispose cosí, il foglio le cascò di mano, e il subito lentore dello scoramento la fece anche impallidire.
- È suo marito che le scrive? Tornerà presto? - disse la bambina, raccattando il foglio.
Essa trasalí, ammutolita. I signori Castrucci, andati a farle una visita di ringraziamento per le tante cortesie verso la loro bambina, l'avevano fatta trasalire allo stesso modo, due giorni avanti, domandandole:
- Suo marito sta bene?
- Grazie - ella aveva risposto.
La signora Castrucci, che ciarlava volentieri, si era messa a compatire le povere mogli degli ufficiali:
- Dev'essere una vitaccia!... Ora qua, ora là, come gli zingari. Le spalline e la sciabola, sí, fanno un cert'effetto; ma un cantuccio di terra ben ferma sotto i piedi... Suo marito è capitano?
- Capitano -.
E se la conversazione si fosse prolungata un tantino di piú, i Castrucci l'avrebbero vista tramortire a quel: «Suo marito, suo marito» che le andavano ripetendo con l'idea di farle cosa grata.
Ah, la terribile logica d'un passo falso!... Non era mai giunta a persuadersi come si potesse mentire... ed anche quest'altra volta aveva dovuto, stando zitta, mentire!
Sí, il vero marito ella non se lo sentiva piú solamente dentro la testa, ma nel sangue, nei nervi, in tutto il corpo, incancellabile marchio di possesso fino a quel punto non avvertito! E il ribrezzo, il terribile ribrezzo che ogni volta quasi l'annientava, era appunto la sorda protesta di quel possesso, il rifiorire di quel marchio. Lo comprendeva finalmente, ora che la sua ragione vedeva chiaro, ora che poteva misurare dalla profondità del proprio abisso l'altezza da cui era precipitata in un momento di pazzia.
- Si sente male? - le domandò la bambina.
Ella la prese tra le braccia, coprendola tutta di baci. Ah, quelle gotine magre e palliducce non erano le gote piene e rosee della sua creatura lontana! Voleva però illudersi, voleva stordirsi; voleva, soprattutto, vincere il terrore che già la invadeva all'annunzio del ritorno del maggiore che quella lettera aveva recato.

E il martirio stava per ricominciare!
La giornata era grigia, come l'anima sua; l'aria afosa e pesante. Piú tardi, l'umidore della pioggiolina - che gettava un gran velo cinericcio su la pianura, sui colli attorno, su le montagne lontane - la penetrava fino al midollo, le si mutava addosso in tedio spossante, in torpida oppressione. Tuttavia ella ritornava spesso a osservare il tempo dietro i vetri della finestra, e rimaneva là con gli occhi fissi, quasi con l'orecchio teso ad ascoltare il lontanissimo fischio della vaporiera che in quel momento doveva forse montare su pei fianchi degli Appennini, divorando la strada, infilando le gallerie, spuntando gioiosamente all'aria aperta sull'orlo degli abissi e attraverso le fosche vallate, com'ella si rammentava d'averlo visto una volta, in un'altra giornata di pioggia, col sole che si affacciava di tanto in tanto dalle nuvole squarciate e faceva sorridere ogni cosa. E il treno correva, correva, serpeggiando, arrampicandosi; le parea proprio di vederlo. E vedeva anche lui, in un angolo di vagone, sdraiato, con gli occhi socchiusi, sorridente alle visioni della prossima felicità che gl'ingannavano l'impazienza dell'interminabile viaggio.
Ma il cuore le rimaneva triste, quantunque il cielo già si rischiarasse al soffio del vento che spazzava le nuvole verso monte Morello e verso Pracchia, gettando incontro al treno che veniva a gran velocità - le pareva ancora di vederlo - quello sprazzo d'oro risplendente su la campagna lavata allora allora dalla pioggia.
- Signora, c'è l'uomo coi fiori - disse Giulia sull'uscio.
- Sono le cinque? Aveva ordinato quei fiori per le cinque di sera, e la giornata era trascorsa cosí rapidamente ch'ella ne provava stupore.
- Il pranzo è per le sette e mezzo?
- Sí.
Giustina andava disponendo quei fiori un po' da per tutto, con arte gentile, scegliendoli dal gran canestro che Giulia le portava dietro. Giulia, di tratto in tratto, arrischiava qualche parola:
- Il signor capitano... il signor maggiore - ora bisogna dirgli cosí, è vero? - chi sa come sarà contento!... Dovrà fare una bella figura a cavallo; andremo a vederlo a le riviste... -
Giustina non rispondeva, e spargeva sul tappeto gli ultimi fiori rimasti, lasciandoseli cader di mano lentamente, preoccupata. L'odore delle rose, dei ciclamini e dei giacinti tuberosi riempiva il salotto.
- E il martirio stava per ricominciare! -
Ogni minuto che passava era un precipitarsi verso il fatale momento dell'arrivo. Colui tornava piú innamorato, piú illuso di prima. Vi aveva contribuito ella medesima; vi contribuiva ancora, abbigliandosi come per una festa, scancellando dal suo volto ogni traccia di sofferenza, tentando di farsi una maschera per continuare ad illuderlo...
- Poiché questa illusione lo rende felice!... Non sarebbe assai peggio se dovessimo soffrire tutti e due? -
E lo guardava quasi contenta, quasi illusa nei primi momenti, lasciandosi baciare una mano in ringraziamento delle bellissime lettere lette e rilette, e imparate a memoria...
- E tutti questi fiori?
- Non hanno nulla di guerresco - ella rispose. - Decorazione sbagliata. Dimenticavo la marcia! -
Suonate però poche battute della marcia del Tannhäuser, si levò dal pianoforte. La musica la eccitava, e non ne aveva punto bisogno.
- Raccontami, raccontami tutti i particolari dell'esame.
- Chi se ne rammenta piú? E poi... lascia andare!. -
Irrequietamente Giustina si levava da sedere col pretesto d'aggiustare un mazzo di fiori, di moderare la fiamma d'un lume, di spostare senza un perché qualche gingillo; e tornava a sederglisi allato, ripetendo:
- Raccontami, raccontami - con tremito della voce che si comunicava a quella di lui.
- Che vuoi che ti racconti? La cosa piú bella, piú deliziosa del mio viaggio è stato - occorre dirlo? - il ritorno; sono questi momenti, sono questi... Giustina tentava di schermirsi:
- Può venire Giulia lascia andare -.
Tenendola stretta stretta tra le braccia, egli intanto le ripeteva nell'orecchio una frase dell'ultima lettera:
- E hai taciuto!... Cattiva! -

Bevevano il caffè. Seduto presso il tavolino, sorridendo, tra un sorso e l'altro, Fasciotti spingeva verso di lei boccatine di fumo, come altrettanti colpi d'incensiere:
- Non sei il mio idolo?
Giustina, in piedi, assaporando lentamente col cucchiaino la calda bevanda e aspirandone il profumo, lo ringraziava con accenni del capo e degli occhi, ridiventata seria in quell'intimità del salotto che l'ora tarda e il paralume rosso, a testa di gufo, rendevano piú raccolta del solito.
Nel punto che Giustina posava la tazza, egli la prese per la mano
- Vieni, siedi qui -.
E le passava un braccio attorno alla vita e le teneva stretti i ginocchi sui suoi ginocchi.
- Voglio sentirti accosto, cosí. Fino a due settimane addietro, nel venire quassú, facevo la strada simile a un sonnambulo, dubitando sempre che e tu e questa palazzina e questo salotto e la nostra vita di amanti non avessero a sfumarmi dinanzi con lo svanire d'un sogno durato apparentemente sette mesi e in realtà qualche minuto. E quando penso che c'è stato un tempo in cui tutto questo non poteva avere per me neppure la fluida apparenza d'un sogno!... Ti vedevo di rado; tu mi evitavi. Se potevo passarti accanto e sentire il suono della tua voce... Ricordi?... Ricordi? Parlava sommesso, come in un soliloquio, tenendo gli occhi socchiusi fissi in un punto della parete dirimpetto, dove quelle visioni del passato gli apparivano e sparivano, dissolvendosi nella rapidità dello sfogo:
- Ricordi?... Ricordi? -
E Giustina gli rispondeva di sí, di sí, con lieve movimento della testa abbassata, stringendosi forte le mani perché egli non avvertisse come il cuore le spasimasse all'incosciente crudeltà di quell'effusione che continuava a sfiorarle il collo, verso la nuca, riandando i terrori, i dolori degli ultimi mesi, quando la sicurezza dell'amante felice traballava davanti a un ostacolo impalpabile e invisibile - non se n'era accorta? - che gli pareva si frapponesse a un tratto fra loro e li tenesse divisi, in distanza, a dispetto dei corpi che s'allacciavano, delle labbra che confondevano i respiri...
- Non te ne sei accorta? No? Terrori e dolori d'un secondo; non lasciavano traccia; ma cosí intensi!, cosí intensi!... Se tu avessi parlato prima! In quelle tue lettere, sí, c'era il suono, c'era l'accento della tua voce. Se tu avessi parlato prima!... Ci voleva la lontananza - non ti pare cosa strana? - per legarci piú intimamente. Oh! Io credo all'amore, sai? La sola sensazione non mi basta. Son rimasto un tantino collegiale, come mi canzonano i miei amici. Peggio per loro, se non sapranno mai quel che valgano questi divini momenti. Mi sembra che noi stiamo ricominciando da capo, quasi io avessi avuto finora soltanto metà di te... Ed ora tutta, tutta, tutta! È vero? -
Ella seguiva a dir di sí con la testa, macchinalmente, nell'indistinta percezione del suono di quella voce diventata mormorio sommesso di baci parlanti o di parole bacianti, non lo capiva bene; zufolio agli orecchi; rimescolamento di tutta la persona; gran male; dove? Nel cervello o nel cuore, non lo capiva bene egualmente. E non s'opponeva all'improvviso movimento con cui egli sollevatala su le braccia, la portava di là, in camera, delicatamente, quasi temesse di svegliare una persona addormentata. Respirava appena, nella estrema prostrazione della volontà e di tutte le forze vitali, sotto l'aggravarsi d'un incubo che le impediva di fare la minima resistenza all'irrequieto agitarsi delle dita che le sfibiavano il vestito, le tiravano le maniche e la spogliavano senza scosse, con perizia femminile... Ma appena, nel levar via il busto, le dita le sfiorarono, per caso, le vive carni del seno, Giustina scattò in piedi, appuntandogli le braccia contro il petto, con gli occhi smarriti:
- Per pietà, no!... Per pietà! -
E, nascondendo il viso tra le mani cadeva di fianco su la sponda del letto, scossa da un tremito violento, in singhiozzi: - Per pietà! -
Ella sentí, per qualche istante, un respiro grosso e frequente, quasi rantolo soffocato; e si restrinse tutta, aspettando il terribile scoppio di quel furore d'amante.
- Non vi accadrà piú, ve lo giuro! - disse una voce irriconoscibile.
E Fasciotti fece per uscire. Giustina gli si gettò a traverso, delirante:
- Emilio!... Emilio!... -
Senza rispondere, egli tentava di svincolarsi da quelle mani che lo brancicavano e lo afferravano e tornavano a brancicarlo.
- Emilio, siate generoso!... Fatemi male quanto volete...Ah! -
Aveva dovuto gridare; quegli le stritolava le mani, senza avvedersene, dalla rabbia di sentirsi ridicolo, sul punto di piangere come un bambino, con gli occhi che vedevano una pioggia di fiammelle attorno, e il cuore che gli scoppiava.
Fu un baleno.
- Perdonatemi... il torto è mio. Entrate in letto... vi ammalerete... Te ne prego, entra in letto - soggiunse con l'apparenza d'un sorriso. Le ravviava le coperte, le aggiustava i guanciali sotto il capo:
- Il torto è mio... Avrei dovuto avvedermene -.
E si buttò su la seggiola a piè del letto, molle d'un sudorino ghiaccio, quasi il rovescione che in quel punto riprendeva a sbattere furiosamente su i vetri della finestra lo avesse inzuppato da capo a piedi.

La pioggia continuava, fra gli urli del vento che pareva si raggirasse attorno alla palazzina per sradicarla dalle fondamenta. Che gliene sarebbe importato? Un piú orrendo colpo aveva distrutto in un istante il superbo edificio della sua felicità... e per sempre.
Giustina non osava guardarlo, né rivolgergli la parola, cosí sbalordita dell'accaduto da non accorgersi ch'egli stava là, rattrappito su la seggiola, da piú d'un'ora, e non poteva passare la nottata a quel modo. Non se n'accorgea neppure lui.
Finalmente si rizzò, scuotendo il capo, strizzando gli occhi; e visto che Giustina si levava anche lei e si metteva a sedere sul letto tenendogli le mani in atto supplichevole, le disse con voce alquanto calma:
- Vado di là, un momentino.
- Perché?
- Ho bisogno d'aria...
- Aprite pure quella finestra... Emilio, siate generoso! - ella ripeté, alla mossa di risposta sfuggitagli suo malgrado.
- Oh, non dubitate!... So il mio dovere -.
Tornato a sedersi, con le braccia sui ginocchi, le mani intrecciate, curvo, abbattuto dall'incredibile disinganno, egli ruminava
- Perché dunque è venuta da me?... «M'accusano d'essere la vostra amante, e sia!...» Chi l'ha forzata? Non lo sapeva forse che non avrebbe potuto amarmi? -
Giustina, tenendo la faccia tra le palme, riprendeva a singhiozzare
- Che ho mai fatto!... Che ho mai fatto! -
La pietà di lui, il terrore delle conseguenze di quella rottura - rottura irrimediabile, non poteva illudersi, con quel carattere - la inchiodavano lí, raggomitolata, quasi il mondo stesse per crollare ed ella attendesse di minuto in minuto il crollo finale: - Che ho mai fatto! -
La pioggia sbatteva furiosa su i vetri, il vento urlava e fischiava.

- Quanto mi ero ingannata! È stato assai piú generoso ch'io non osassi sperare -.
E quei mesi d'autunno le parvero un paradiso, con le tiepide giornate, gli splendidi tramonti, le belle serate che in quel posto, tra la campagna e la città, le producevano una soave sensazione di pace e di benessere in armonia con la pace e il benessere della sua vita, ora ch'egli continuava a visitarla non piú da amante ma da amico, e come se niente di nuovo fosse avvenuto tra loro. Lo avrebbe voluto, è vero, un po' meno serio, un po' meno freddo; si vedeva, forse, in quella sua indifferenza un tantino d'ostentazione, una lieve ombra di vendetta...
- Ma, povero cuore!, deve costargli un gran sacrifizio mantenere le apparenze. Gli son grata infinitamente di questo contegno. Neppure Giulia, ch'è in casa, s'è accorta di nulla -.
Ella si sentiva felice di poterlo amare a quel modo, come avrebbe voluto amarlo anche prima, come avrebbe voluto essere amata anche prima.
- Ma allora, Dio mio, non poteva essere! Mi ero illusa io pure, un istante -.
Ora respirava a pieni polmoni la libertà del proprio corpo in cui tutto era stato scancellato dalla purificazione del gran pianto. Delle atroci sofferenze dei mesi scorsi le rimaneva un'idea lontana, incerta, simile a ricordo di cattivo sogno; e in quanto all'avvenire, oh!, viveva perfettamente rassicurata. Ne aveva avuto parecchie prove.
Una sera, verso le dieci e mezzo, appena i Castrucci erano andati via con la bambina che cascava dal sonno, Fasciotti, acceso un sigaro, s'era messo a leggere il «Fanfulla», senza dire una parola, senza voltarsi un momento verso di lei che lavorava con l'uncinetto nervosamente, a testa bassa, nell'ansia angosciosa d'un'apprensione...
- Assurda, ne conveniva. Ma... che voleva egli insomma? Aveva già letto, da cima a fondo, il giornale; e intanto restava là, col sigaro spento tra le labbra, muto, mezzo imbroncito! -
L'orologio a pendolo, dalla mensola del caminetto, suonò le undici e tre quarti. Fasciotti si scosse. Giustina, vistogli posare il giornale, riaccendere il sigaro e lisciarsi i baffi, aspettava, impaziente, ch'egli parlasse. Dopo quella trista nottata, non erano mai rimasti cosí a lungo da solo a solo. Convinti tutti e due dell'inutilità e del pericolo d'una spiegazione qualunque, in quelle prime settimane l'avevano prudentemente evitata...
- Ora, forse?... -
Agitatissima, Giustina stava per lasciarsi scappare una domanda trattenuta a stento su la punta della lingua da un quarto d'ora, quand'egli la prevenne:
- Se volete andare a letto... Io resterò qui un altro poco... per Giulia, capite? Mandate a letto anche lei. Uscirò senza far rumore. È meglio che nessuno sappia... Giulia sopra tutti.
- Come vi piace. Buona notte -.
Giustina, improvvisamente commossa, non aveva saputo rispondere altro, stendendogli la mano.
- Buona notte -.
E Fasciotti gliela strinse leggermente.
Ma un'altra volta egli avea fatto di piú. Andata a letto per non contraddirlo, Giustina non poteva chiuder occhio, aspettando di sentirlo partire. Quell'incredibile prova di delicatezza e di riguardo le produceva una specie di contrazione alla bocca dello stomaco...
- Fino a che ora rimarrà in salotto? -
Alle due era ancora là. Ella però non osava muoversi, temendo appunto che in quella circostanza, contro ogni proponimento, una parola non li trascinasse alla dolorosa spiegazione evitata.
Quante ore erano passate? Non lo sapeva precisamente. S'era forse appisolata; non aveva inteso nessun rumore all'uscio di casa né al portone. E trepidante era saltata giú dal letto per accertarsi, con cautela, se c'era lume in salotto. E che respirone a quel silenzio e a quel buio!
La mattina dopo, molto tardi, Giulia le domandava: - Signora, si sente male?
- No, perché?
- Il signor maggiore, prendendo il caffè, mi ha raccomandato d'aspettare che lei avesse sonato.
- Ah!...
Gli occhi, tutt'a a un tratto, le si erano ripieni di lagrime.

Dimenticava però ogni cosa per la beata certezza di sapersi amata tuttavia. Le apparenze non potevano ingannarla. E, in ricambio, il suo cuore gli si dava tutto, senza restrizioni, pieno di confidenza nelle promesse che leggevagli in viso vedendolo diventare di giorno in giorno meno riserbato, meno freddo, vedendogli smettere a poco a poco quell'aria diffidente e guardinga contro di lei e di se stesso, che aveva reso cosí penose le prime settimane della crisi; allora pareva che l'amico non potesse punto adattarsi a sostituire l'amante, e che sul capo di tutti e due pendesse la minaccia di crisi peggiore.
La sua vita aveva già ripreso il tranquillo andamento d'una volta. Poco, quasi nulla le mancava per sentirsi nuovamente cullata nella lieta pace domestica, per tornare a rannicchiarsi nell'ingenuo egoismo d'indolente felice. Se lo rimproverava in certi momenti.
Quella bambina malaticcia, ma buona e intelligente, che veniva a tenerle compagnia da mattina a sera e ch'ella conduceva attorno nelle frequenti corse per le gallerie, pei musei, pei negozi e nelle passeggiate alle Cascine, al giardino di Boboli, o lungo il Viale dei Colli, non usurpava lentamente l'affetto materno, a danno della creatura delle sue viscere... alla quale forse avevano fatto credere che la mamma era morta? E le teneva un po' di broncio, per qualche ora, per mezza giornata, broncio di cui la bambina non s'accorgeva.
- Oh, Dio!... Come difendersi da quel naturale sentimento d'egoismo, ora che poteva finalmente riposarsi dopo tanti atroci dolori? Ora che almeno, a intervalli, le riusciva di sopire dentro di sé ogni ricordo del passato? -
Quella pace interiore le fioriva fuori, sul volto, in piú sorridente vivacità degli occhi, in piú facile zampillo della parola che riprendeva la gentile festività nelle conversazioni serali, quando Fasciotti veniva lassú accompagnato da due o tre ufficiali del suo reggimento, ed ella - dopo il the - cedeva di buona voglia all'invito di suonare qualche pezzo della solita musica indiavolata, come diceva il tenente Gusmano che in fatto di musica capiva soltanto quella del suo compatriotta Bellini:
- Il Dio della musica!... E Dio ce n'è uno solo!
- Les dieux s'en vont - gli rispondeva Giustina, ridendo. E per fargli dispetto si metteva a strapazzare un'aria della Norma, o una cavatina della Sonnambula:
- Tralalalliero, tralalalà! -
Né finiva il pezzo, ma attaccava subito, vigorosamente, la sinfonia del Vascello fantasma, un coro del Lohengrin, o qualcosa di simile.
- Bum! Bum! Bum! Bum! - replicava Gusmano - È musica questa? -
E Fasciotti rideva insieme con altri, dando ragione alla signora.
Rovistando le carte di musica, il tenente Gusmano avea tirato fuori quella fatale sonata del Berlioz che rimaneva da un pezzo sepolta sotto un mucchio di fascicoli.
- Ah! La signora ci nasconde le sonate. Berlioz... È un tedesco? - domandò Gusmano - No? Dunque questa dev'essere una cosa assai bella. La signora, per gastigo, viene pregata di sonarla -.
Gli occhi di lei s'erano subito rivolti verso Fasciotti, indecisi.
- Sí, Giustina, suonatela - egli disse con un che d'ironia. - Vo' persuadermi se gli effetti di questa sonata non provengano, in gran parte, dallo stato dell'animo di chi la sente. Rischio di perdere qualche illusione.
- Allora, no! - ella rispose.

- Dunque non m'ama piú!... Soltanto per pietosa generosità di gentiluomo egli fa il sacrifizio di continuare a venire da me. Sí, sí; lo vorrei detto piú chiaramente?... Non m'ama piú! Non mi ama piú!
Sul primo aveva sentito una leggera mortificazione d'amor proprio, lieve puntura di spillo al cuore, graffiatura a fior di pelle; nella nottata però non poté conciliar sonno, irrequieta sotto le coperte, con stupore e sbalordimento che aumentavano di mano in mano:
- Non m'ama piú? -
Le pareva impossibile. Fra le tante supposizioni fatte, il caso che Fasciotti potesse cessare d'amarla non le era mai passato per la mente. Doveva discutere un'assurdità? Lo stimava tale.
- Infine, che deve importartene? - si diceva da sé. - Non è anzi meglio? -
Non ne restava convinta. Si sentiva già venir meno la piú valida forza che le rendeva tollerabile quella vita d'isolamento e di sacrifizio a cui s'era volontariamente condannata. La sua pace, la sua tranquillità, dopo tante lagrime e tanti strazi, stavan per essere nuovamente distrutte?...
- E se m'abbandona col cuore, col piú terribile degli abbandoni, che sarà di me? -
Tortura di nuovo genere. Come rifiatare? Come lagnarsi di lui?... Quella settimana le parve un secolo. Ogni parola, ogni gesto di Fasciotti serviva a rischiararle, a confermarle la crudele certezza della scoperta. L'orgoglioso ritegno non le aveva impedito di mostrarsi piú cordiale del consueto con lui, d'umiliarsegli dinanzi con sfoggio di sottintesi imploranti misericordia.
- Sentite - aveva osato poi dirgli - questa vostra affezione d'amico è l'unico soffio che mi tiene in vita. Se venisse a mancarmi...
- Che fareste?
- Non lo so -.
Fasciotti, guardatala un momentino attentamente, colpito della insolita stranezza di quell'accento, aveva soggiunto
- Non vi è venuta meno finora. Il mio dovere...
- Disgraziatamente il cuore umano non conosce doveri. E poi, non si tratta di doveri.
- Me lo dite voi? -
Giustina non aggiunse parola. Credeva aver detto troppo; avea capito anche troppo. E appena fu sola, pianse.
- Non m'ama piú!... Ma perché non m'ama piú? Perché? A questo grido del cuore che le parve uscisse dalla bocca d'un'altra persona nascosta dentro di sé, rimase come fulminata.
- Come?... Lui mi tradisce cosí? Lui!... E perché non mi ama piú? Perché? -
Un atroce dolore alla nuca e alle tempie la distese per tutta la giornata sul canapè della camera e ve la tenne inchiodata fino a tardi.
Giulia, sentendola lamentare, era entrata piú volte, domandando
- Signora, debbo chiamare il dottore?
- No.
- Che si sente, signora?
- Qualcosa qui... Non è nulla -.
E, all'arrivo di Fasciotti, trovò tanta forza da levarsi, da nascondergli il gran male che le spaccava la testa.
- Dunque andrete a Pisa?
- Per un'ispezione; due, tre giorni.
- Mi scriverete?
- La mia lettera arriverebbe insieme con me.
Ella girava gli occhi attorno, con aria insospettita, cercando, annusando l'aria...
- Questo profumo... L'avete addosso voi?
- Io?
-... Mi va al capo, mi stordisce. Sí, l'avete addosso voi.
- Ah, è vero! - egli rispose, ridendo con qualche impaccio. - Per fortuna non siete nel caso di diventare gelosa.
- Oh, no... per fortuna! - balbettò Giustina, pallidissima.
- Vi fa proprio male?
- Sí, molto!
- Allora vado via; scusatemi.
- A rivederci -.
Si sentiva morire.

Due giorni di stupore e di delirio, sotto il tremendo colpo della meningite.
Giulia, atterrita, aveva telegrafato a Pisa:
«La signora è in pericolo di morte.»
Fasciotti, credendo quel telegramma esagerazione di cameriera affezionata, non s'era affrettato ad accorrere. Non tornava il giorno dopo?
La signora Castrucci, però, capita, dal continuo vaniloquio dell'ammalata, la vera condizione di Giustina, aveva detto a Giulia:
- Bisogna telegrafare anche al marito e alla famiglia di lei. Non vorranno mica lasciarla morire abbandonata cosí -.
Fu telegrafato. Nessuno rispose.
La poverina, con la faccia congestionata, le labbra tumide e pavonazze, sfigurita, aveva appena forza di balbettare delirando:
- Enrico!..., Te lo... giuro! Babbo!... Sono innocente!... Credimi almeno tu... tu solo!... -
La suora di Carità, in piedi presso il capezzale, le passava spessissimo un po' di ghiaccio su le labbra infocate, poi rimaneva immobile, con le mani dentro le larghe maniche dell'abito grigio, mormorando preghiere.
Sollevata una mano gonfia e contratta, Giustina cominciò ad accennare, quasi chiamasse qualcuno che credeva di vedere a piè del letto:
- Enrico!... Enrico!...
- Ah, il torto è tutto di suo marito! - disse Giulia alla suora che a quel nome aveva abbassato gli occhi.
Giustina rantolava, continuando sempre ad accennare a piè del letto con la mano gonfia e contratta:
- Enrico!... Perdonami!... En... rico!...
- Povera signora!... Se avesse saputo che, quando gli uomini non perdonano, c'è sempre Dio che perdona! - disse la suora. E inginocchiatasi, a mani giunte, cominciò a recitare: - De profundis!... -

Mineo, 25 marzo 1885.




XV

ANIME IN PENA



Dopo dieci anni di matrimonio, vivevano come nei primi giorni della loro unione, in pace trista che ora neppur la figliuolina riusciva a rallegrare.
Il marito, diventato piú giallo per stravasi di bile, col volto scarno e gli occhi grigi, sbiaditi, di pesce morto, metteva paura fino agli assassini quando li fulminava in nome della legge dal suo banco di procuratore del re, agitando per aria le mani da scheletro, e la voce gli usciva a scatti, cavernosa, dal fondo dello stomaco, quasi qualcuno parlasse di là dentro invece di lui.
Giovane e bella, pallida sotto la tinta bruna, con gli sguardi smarriti e sognanti, con la indolenza che le rendeva faticoso anche il parlare, le rade volte che si mostrava in pubblico al braccio di lui, sua moglie pareva una convalescente scampata da lunga malattia, cosí sbalordita, cosí fiacca gli si strascinava accanto, guardando sempre davanti a sé, lontano, senza badare né ai luoghi, né alle persone.
In quelle passeggiate di qualche ora, la figlia, alta e magra, tutta suo padre, e che mostrava nell'aspetto di bimba stentata e freddolosa piú età che non avesse, camminava a fianco della mamma o del babbo, muovendo lentamente le gambine di ragno sotto il vestitino corto, con le braccia penzoloni e la bocca semiaperta, come una grullina; e nei primi giorni del loro arrivo in Palermo, la gente si voltava per guardarli tutti e tre, curiosa di sapere chi potevano essere quelle strane figure.
Poi la loro storia si seppe, e la compassione fu tutta in favore della signora.
Quell'uomo l'aveva sposata senza dote, innamoratissimo, pur sapendo di non essere riamato; ed ora la gelosia lo rodeva vivo vivo, quantunque sua moglie fosse una santa. Non ricevevano visite, non ne facevano; vivevano, laggiú, a Porta Sant'Antonino, come chiusi in un carcere, in quel palazzotto silenzioso dalla facciata scura e massiccia, che pareva fabbricato a posta per loro. Le vetrate dei terrazzini che davano su la via maestra non s'aprivano mai. In certe ore della giornata, dietro i cristalli, fra le tende bianche, si vedeva appena il profilo d'una testa di donna dai capelli neri, ma non si capiva se intenta a leggere o a lavorare; e, accanto, la bimba, seria e malinconica creaturina, appannava i cristalli col fiato, segnandovi col ditino qualche cosa che subito scancellava, per ricominciare da capo. Piú tardi, dietro quei cristalli sempre chiusi, i vicini dirimpetto, che spiavano curiosi e maligni, vedevano comparire per un momento la faccia itterica del marito sotto il berretto di velluto nero; e allora mamma e figliuola sparivano, quasi colui avesse avuto paura di vedersi mangiare dalla luce quella moglie ancora giovane e bella che i parenti gli aveano consegnata in mano, superbi della loro figliuola, vestita di bianco e coronata di fiori d'arancio, chiamata a salire cosí in alto.
Allora ella aveva appena sedici anni.
Regio procuratore presso il tribunale di Catanzaro, Lupi abitava al primo piano della stessa casa dove la famiglia di lei nascondeva, al piano superiore, la decente miseria del suo stato di decadenza.
Due o tre volte s'erano incontrati per le scale, mentr'ella andava fuori con la vecchia zia; e quella figura gialla, magra, dagli occhi sbiaditi e i capelli grigi, che le gettava addosso lo sguardo diaccio diaccio e si fermava a vederla scendere, le aveva dato una sensazione di ripugnanza, quasi di persona che volesse farle male. Per questo, arrivata all'ultimo gradino, s'era sempre voltata in su e s'era sempre urtata in quell'uomo affacciato alla ringhiera del pianerottolo, e che continuava a fissarla con la cattiva malia delle pupille smorte.
- Dev'essere un jettatore - aveva detto alla zia, facendo di soppiatto un gesto di scongiuro.
Qualche mese dopo, s'era accorta che quel jettatore stava a divorarsela con gli occhi dal terrazzino di fianco, allorché ella mettevasi a lavorare, canticchiando, su la terrazza. Vistagli ripetere quest'operazione parecchi giorni di seguito, e alla stessa ora, quantunque non gli avesse mostrato di essersene avvista, ella aveva smesso di recarsi lassú, indispettita:
- Quel jettatore mi perseguita! - Una volta però la zia le disse:
- È matto di te; ti vuole per moglie. Che fortuna, figliuola! Regio procuratore! -
Carmelina non aveva saputo che rispondere, sorridendo con sorriso sciocco, incredula:
- Ma che? Posso essere sua figlia... Non è possibile -.
Eppure era stato. E aveva detto di sí, vinta dalle insistenze e dalle lagrime della mamma e della vecchia zia, intronata dalle interminabili loro chiacchiere, e, un po' anche lusingata da quel cambiamento di fortuna che la sbalzava nell'agiatezza di un posto onorato.

La prima cattiva impressione, però, di persona che volesse farle male, era rimasta, malgrado tutto quel che il marito le prodigava per legarsela, per rendersela affezionata ed amante, com'egli non disperava di poterla stringere un giorno o l'altro fra le braccia. E quando se lo vedeva, cieco dalla passione, inginocchiato dinanzi, smanioso di baciarle i piedi ch'ella tirava indietro impaurita; e quando sentiva ricercarsi avidamente, con labbra scottanti, le carni rosee e fresche, quas'egli volesse inebbriarsi del loro profumo e del loro contatto, Carmelina s'irrigidiva, diventava di marmo, e chiudeva gli occhi, e serrava i pugni e i denti; oppure s'abbandonava, come corpo morto. Poteva fare diversamente? Gli apparteneva, per sempre, Signore!... Per sempre!
- Lo so, non t'è facile amarmi - egli le diceva, un po' impermalito per la resistenza della giovine ai suoi abbracci d'uomo maturo. - Ma io, anima mia, non ti chieggo un affetto volgare, da schiava...
- Perché mi dite cosí?
- Vedi? - rispondeva. - Non ti riesce di darmi del tu! Non importa. Sei la mia vita, il mio sole! Quando avrai capito che nessuno al mondo potrebbe amarti quanto t'amo io... -
Carmelina avrebbe voluto almeno ingannarlo, per non parere cattiva, per non straziare di piú quell'uomo che l'adorava come la Madonna ed era geloso fin dell'aria. Non ci era stato verso però, per quanti sforzi avesse fatti!...
Il giorno che Lupi, dopo un anno e mezzo, dovette lasciare Catanzaro, gli occhi di Carmelina si velarono di lagrime, come nello staccarsi dai parenti, guardando forse per l'ultima volta dallo sportello della carrozza le care montagne attorno, che era solita guardare dalla terrazza, allorché canticchiava lassú libera, al sole, nella squallidezza della casa che le aveva addormentato in seno ogni vano desiderio ed ogni giovanile illusione intorno all'avvenire.
Questa vita modesta ma dolce le era spesso tornata in mente, rimpianta, nella nuova residenza di Taranto, dov'ella si sentiva come sperduta per l'isolamento in cui la manteneva la sospettosa passione del marito. Oramai però cominciava ad adattarsi, spossata da languori indefinibili, mezza assopita dal torbido silenzio che la circondava in quell'abitazione dalle stanze piccole e basse, tra quei mobili vecchi, del tempo di Murat, che stuonavano stranamente con le pareti imbiancate di fresco. Tra i riflessi bianchi di quelle stanze, suo marito pareva piú smorto quando tornava a casa dal tribunale e le si sedeva di faccia o a lato, e la prendeva per le mani commosso come al primo giorno che le aveva rivolto la parola.
Ah, egli era sempre lo stesso!
E, dopo due anni, continuava ancora a volerla seduta su le ginocchia come una bimba, e tornava a balbettarle parole mozze, da innamorato che si confonde e non sa parlare, intanto che le baciucchiava le palme delle mani, il braccio, il collo, dicendole:
- Vita mia!... Sole mio!... -
Carmelina non si sentiva piú irrigidire, non serrava i pugni e i denti, non s'abbandonava piú come corpo morto. Era rassegnata, quasi indifferente, dominata da quel fascino maligno che doveva aver maturato rapidamente la sua bella giovinezza e assonnato nervi e sangue.
Soltanto non riusciva a dargli del tu, com'egli avrebbe voluto. Il tu le moriva su le labbra:
- Che posso farci? -
E suo marito, che l'andava scrutando tutti i giorni e tutte le ore, con gli sguardi inquisitori di procuratore del re, in cui neppure la passione accendeva un lampo, s'inquietava ora per questa indolenza di lei, peggio che non avesse mai fatto per la vivace ripugnanza:
- Che hai dunque? A che pensi?
- Perché mi dite cosí? - ripeteva Carmelina. - Perché mi dite cosí? -
E gli alzava in faccia le grandi pupille stupite. Sentiva un accento di minaccia immeritato, e ne aveva paura.
No, no! Egli non la minacciava, tradito dalla brutta voce cavernosa, dalla faccia giallastra, emaciata per la gelosia che lo disfaceva. Avrebbe voluto vederla anzi allegra, sorridente, felice; e se le fosse sfuggito finalmente uno di quei gridi che soltanto la giovinezza e l'amore son capaci di trovare, oh, gliel'avrebbe pagato con tutto il sangue delle proprie vene! Né gli sarebbe parso pagato abbastanza.
- Che hai insomma?... Mai un desiderio!... Mai un capriccio!...
- Voi mi prevenite sempre. Che mi manca? -

La mattina in cui lo sconcerto delle viscere, agitate a un tratto e insolitamente, le rivelò quel che già era accaduto, Carmelina si scosse indignata contro di sé, quasi la sua volontà fosse stata complice, quasi da quel momento si vedesse già caduta in pieno possesso di lui, e si sentisse tiranneggiata nel piú intimo del proprio organismo. E non gli disse nulla; prima, sperando d'essersi ingannata; poi, sperando che la natura avrebbe avuto pietà di lei e l'avrebbe fatta abortire. Era offesa, violata da quel mistero di vita che le germogliava nel seno:
- Non basta quel ch'io soffro? Dovrà soffrire anche questa creatura che verrebbe a intristirsi con me nella desolazione della mia vita? -
E di essa già risentiva tutto il gran peso, come nei primi giorni. E quella sensazione di repugnanza, di persona che volesse farle male, le si rinnovava forte alla presenza del marito; il quale intanto l'adorava piú che mai e la sopraffaceva con sottomissioni da fanciullo, con delicatezze da donna
- Oh! Oh!... Perché non me l'hai detto subito? -
Quell'unica volta i suoi occhi grigi e smorti si erano animati d'un lampo di gioia, aveano sorriso imbambolati dalle lagrime, mentr'ella ricadeva sfinita nella tristezza indolente, da cui non la destarono neppure i vagiti della gracile creaturina che, nascendo, ne aveva messa in grave pericolo la vita.
Cosí l'allattò, cosí la vide crescere, quasi non fosse stata pure sangue suo. Non si sentiva madre, come non s'era potuta sentir moglie, come non si sentiva piú giovane, né donna, né nulla!
- Sí, qualcosa dev'essersi rattrappito dentro di me; il cuore, certamente! -
All'opposto, suo marito cominciava a provare un'irritazione per questa resistenza passiva:
- Neanche la maternità la lega a me! -
E si mise a sorvegliarla piú inquieto, provocandola con qualche parola un po' dura, adombrandosi di tutto, senza nasconderglielo come aveva fatto fino allora.
- Che motivo avete? - ella rispondeva tranquillamente.
- Sei ingrata. Donna senza cuore! -
A questi rimproveri amari, restava muta e impassibile, non volendo ch'egli si mettesse in collera e gridasse dinanzi alla figliuola e alla persona di servizio. Spesso però il suo silenzio faceva peggio.
Da qualche tempo in qua, stando in casa, egli si chiudeva nella stanza da studio, fra libri legali e processi. E non la scienza l'occupava, non i processi ammonticchiati sul tavolino dentro le polverose copertine rosse e azzurre, legati in fascio. Sprofondato nella poltrona coi gomiti appuntati su un libro aperto a caso, la testa fra le mani scarne, pensava a colei che non lo amava, a colei ch'egli amava sempre piú, disperatamente, per quegli occhi neri e grandi, per quella fresca carnagione bruna che il lieve pallore rendeva piú bella, per quel corpo delicato e perfetto, e che non vibrava, mai!, sotto la furia dei suoi baci, tra le strette di quei suoi abbracci da cui sarebbe stata animata fino una statua!...
- Ah! Chi sa quali fantasmi le passano per la testa? Chi sa quali visioni agitano quel cuore che il seno piccolo e bianco nasconde ai miei sguardi? Come sono infelice! Come sono infelice!... -
E a un tratto appariva nella stanza dov'ella lavorava straccamente camicine per la bimba, dando un punto a ogni quarto d'ora; appariva sull'uscio com'un fantasma, per sorprendere, chi sa?, qualche indizio in quegli occhi sognanti, su quelle labbra chiuse e contratte che non avevano piú sorriso da che egli l'aveva sposata.
Carmelina non alzava palpebra, indovinando senza farglielo capire. La bimba, seduta per terra sopra un tappetino dove arruffava con grande attenzione i ritagli di trine e di mussolina raccolti fra le magre gambine aperte, levava il visetto sparuto per guardare suo padre accostatosi a farle una carezza, serio, taciturno.
- Il babbo! - balbettava, vedendolo andar via, rivolta alla mamma. E la stanza ricadeva nel silenzio, bianca, inondata di luce.

Una volta egli parlò apertamente:
- Mi rode una gelosia pazza!... La colpa è tutta tua!
- Perché?
- Perché soltanto in apparenza m'appartieni, per effetto della legge e del sacramento, non per legami di cuore!...
- Signore!... Che debbo fare?
- Quel che non hai fatto finora: amarmi!
- Non vi amo forse? Non vi rispetto? Di che potete lamentarvi? Come s'ama? Non lo so.
- Lo vedi in me come s'ama!
- Non riesco mai a contentarvi!... Signore!... Quanto sono disgraziata! -
Vedendola piangere, s'era sentito rimescolare; e l'aveva presa tra le braccia, tremante, confuso, ripetendole:
- No, non voglio che tu pianga! Non piangere! -
E Carmelina aveva dovuto farsi forza per non irritarlo. Quel giorno egli provava uno dei soliti accessi di tenerezza che lo assalivano di tanto in tanto e lo lasciavano maggiormente triste e sconsolato; specie di febbre d'amore, che lo estenuava come febbre vera. Allora sembrava un altro. La sua voce diventava quasi dolce e il suo pallore si coloriva di leggiera tinta d'incarnato.
- T'amo troppo. Oh, come t'amo! Io non so esprimermi. Bisogna compatirmi. Mi mancano le parole... -
E l'andava accarezzando, ammirandola da capo a piedi, rapito.
- Me n'accorgo, in certi momenti riesco increscioso; incresco fino a me stesso! T'amo troppo. Ti vorrei tutta mia, tutta, tutta! E vorrei poter leggere qui, dietro questa fronte, dietro questa fronte piú splendida del cielo.
- Non vi nascondo nulla. Che potrei mai pensare da nasconderlo a voi? -
Infatti, nel languore delle lunghe giornate di solitudine non pensava proprio a nulla, oppressa da grave stanchezza e da strana sonnolenza, quasi gli occhi diacci di suo marito, che le stavano sempre addosso, le buttassero, prima ch'egli uscisse di casa, una malia da tenerla legata.
Massime ora che si sentiva piú sola dopo che i suoi parenti erano tutti morti, lontano, in quella casa di Catanzaro dove la sua giovinezza avea cantato e sorriso al cospetto delle montagne attorno, scure di verde o bianche di neve, sempre belle al gran sole.
Non le era rimasta nell'anima altr'eco del mondo. Ripensando, vedeva soltanto quei colori di campagne e di cielo; sentiva soltanto quel susurro di voci paesane, che le ronzava negli orecchi dolce e sommesso: e allora il suo povero cuore dava un debole segno di vita, s'agitava per un istante nell'allegria dei ricordi.
S'agitava anche, ma per compassione, quando le veniva dinanzi la bimba che cresceva stenta, pianticina senza umore, aduggita. Per lei, nelle belle giornate, osava qualche volta chiedere al marito di condurle un po' fuori. E quegli le conduceva lungo la spiaggia sabbiosa, nei posti piú solitari, per strade di campagna fuori di mano.
Pareva che la bimba provasse le medesime sensazioni della mamma, abbagliamento, stupore della violenta intensità della luce e della freschezza dell'aria pregna di salse emanazioni marine. Non correva, non saltellava, non si sentiva tentata dalle erbe e dai fiori che spiegavano la pompa del rigoglio e la festa dei colori pei campi; si teneva stretta alla mano della mamma, guardava con gli occhietti sbalorditi, senza godimento, senza voglie, e presto diceva:
- Babbo, torniamo a casa? -
Come avrebbe voluto dirgli Carmelina, se non avesse avuto paura di destar sospetti.

Nella casa di Palermo la solitudine era piú grande. Mettendo per la prima volta il piede in quelle stanze vaste, dalle volte che si sprofondavano nell'ombra, dagli usci dipinti a grandi fiorami sormontati da paesaggi anneriti dal tempo, dal pavimento di mattoni di Valenza che agghiacciava le piante dei piedi, dalle pareti sbiadite e ornate di specchi in immense cornici dorate che si accartocciavano baroccamente, Carmelina s'era sentita mancare il respiro.
- Tutta questa decrepitezza, tenuta ritta, non si sa come, l'ha cercata a posta, per farmi invecchiare piú presto? -
Vi s'era però facilmente abituata, e non v'invecchiava piú che altrove.
Gli anni, la vita inerte le avevano anzi un po' arrotondato il corpo; e la pelle bruna, sbiadita all'ombra, dava gran risalto a gli occhi neri e ai capelli nerissimi. Guardandosi nei grandi specchi lievemente appannati, che la riflettevano intiera, quasi dentro una nebbia sottile, se ne maravigliava:
- No, non sono invecchiata! -
E un baleno di civetteria femminile le passava sul volto.
Il tempo e l'abitudine mutavano la sua tristezza in tale sentimento di riposo e di pace, ch'ella non avrebbe voluto mutare stato. La lassezza da convalescente, la indolenza che le rendeva faticoso fin il parlare, prendevano per lei le stesse attrattive voluttuose della soave pigrizia del corpo e dello spirito, che la teneva raccolta, scalducciata, e le mettevano ne le grandi pupille la strana aria di sognante che impressionava le persone.
Per questo il frastuono della vita cittadina da cui era assediata coi gridi dei rivenditori ambulanti, coi rumori delle carrozze che scotevano i vetri delle finestre echeggiando cupamente per le volte, e col sordo affaccendamento di lavoro che si ripercoteva indistinto là dentro, serviva soltanto a renderle maggiormente caro l'isolamento e la muta severità delle vecchie cose dalle quali era circondata.
Fin suo marito non le dava piú la solita sensazione di ripugnanza o di persona che volesse farle male. E stava ad ascoltarlo intenta quand'egli le raccontava il processo discusso alle Assise nella giornata, quasi volesse appellarsi a lei contro i giurati che s'erano lasciati infinocchiare dalle sonore ciance avvocatesche.
In quelle sere la bimba non voleva andare a letto per ascoltare anch'essa le storie dei ladri e degli assassini; e guardava a bocca aperta ora il babbo che parlava, smorto smorto, nell'ombra della ventola, con le mani sui bracciuoli della poltrona illuminate dalla luce viva, e le lunghe gambe nascoste sotto la coperta rossa del tavolino; ora la mamma che taceva, o esclamava di tanto in tanto: - Povera gente! -
Cosí le stagnava la vita, senza che l'umor tetro del marito vi producesse piú neppure un lieve increspamento a fior d'acqua; e cosí durò fino al giorno in cui la bimba cadde ammalata, e per le stanze mute s'intese frequente il rumore cadenzato dei tacchi del dottore, che, vista la gravità della cosa, veniva a visitarla tre o quattro volte al giorno.
Le tristi occupazioni d'infermiera le furono di sollievo. Le medicine da somministrare d'ora in ora, esattamente; i piccoli servigi che la costringevano a muoversi da una stanza all'altra; il dover ragionare e venire a patti con la malata per indurla a star cheta sotto le coperte, o a prendere un cucchiaio di medicamento in ricambio dei bei regali di nastri, di oggetti d'oro, di ninnoli di porcellana che voleva schierati sul guanciale o ficcati dentro il letto; la stessa ansiosa aspettativa del resultato della malattia, tutto concorse a produrle una specie di risveglio di sensi.

Da la finestra che il dottore voleva aperta finché il sole era alto, irrompeva nel palazzetto addormentato un giocondo tumulto di vita; voci che chiamavano e rispondevano; scoppi di risa, canti allegri di operaie che lavoravano all'aria aperta nella via di fianco, godendosi il dolce tepore del sole di aprile. E quel canarino che trillava a la finestra della casa accanto!... E quel merlo che fischiava piú in là... E gli squilli argentini di quell'incudine, piú in là ancora, sotto i colpi di martello!... Che festa!
Non si saziava di guardare fuori, seduta al capezzale della bimba, tenendo strette fra le mani le manine febbricitanti; non si saziava di guardare, quasi quelle donne che sciorinavano la biancheria sui terrazzini della casa di faccia, lassú, distante; quasi quella monaca casalinga, che, piú in qua, innaffiava i vasi di fiori e si soffiava il naso col fazzoletto turchino; quasi quei due, marito e moglie certamente, che s'abbracciavano in mezzo alla stanza credendo di non essere veduti, fossero uno spettacolo per lei. Un'altra mattina, invece di biancheria, lassú sciorinavano dei tappeti. Quella giovane in veste grigia da camera dai grandi ricami rossi che si vedeva distintamente, e che faceva luccicare al sole l'oro della sua folta capigliatura, pettinandosi sul terrazzino, servendosi dei vetri dell'imposta per specchiera, doveva essere molto bella. Andava e veniva, forse per cambiare il pettine, forse per prendere delle forcine... Parlava con qualcuno che non si vedeva... Era allegra, rideva... Doveva esser felice!...
- Ah, Signore!... Che cosa avviene dentro di me? -
Si sentiva quasi destare da profondissimo sonno. Il sole che inondava la camera le metteva vivi formicolii per tutta la persona; gli sbuffi d'odor di zagara che il vento trasportava da lontano, dai giardini di aranci della Conca d'oro, le turbavano la testa. E se ne stava tutta la giornata rifugiata là, come in un angolo di paradiso, senza piú impensierirsi della malattia della bimba; paga di stringerne fra le mani le manine arse dalla febbre; bevendosi tutta quell'aria, assorbendosi tutta quella luce, inebbriandosi di quei rumori e di quegli odori. E quando, sul tardi, all'abbassarsi del sole, bisognava chiudere l'imposta, e compariva nella cameretta la faccia gialla e scarna del marito ritornato dal tribunale, ella provava una stretta al cuore, e ricadeva nella torpida inerzia che durava da anni ed anni.
Poi quei turbamenti, quelle vertigini le diedero insonnie tormentose, le stesse insonnie di suo marito. Fingeva però di dormire, rannicchiata nel proprio cantuccio di letto, quasi raffrenando il respiro; e la mattina, saltava giú che non era neppure l'alba, con la scusa della bimba, ma veramente per riprendere la seggiola del capezzale e veder ripetere l'incantesimo del giorno avanti.
Poi, quando la bimba cominciò a star meglio, ella che non s'era mai affacciata a un terrazzino - per indolenza, perché l'eccessivo movimento della vita cittadina le dava noia - si sentí attratta a quella finestra e vi restò a lungo, coi gomiti appuntati sul davanzale, la faccia sorretta dalle mani, girando attorno i grandi occhi desti, scoprendo cose che non aveva veduto e avrebbe dovuto vedere: quel campanile, quella terrazza dove una cagna allattava dei cagnolini bianchi e neri, quel comignolo, quei rami verdi d'una pianta di limone che sorpassavano un tetto nuovo. E stava là lunghe ore al sole, come una lucertola, voltandosi di tanto in tanto verso il lettino della convalescente e sorridendole con insolito sorriso delle labbra e degli occhi; stava là stordita, meravigliata di sentirsi tuttavia capace d'avere quelle sensazioni; talora sconvolta da turbamenti improvvisi ch'ella non sapeva spiegarsi, da brividi che le correvano su su per la schiena e la scotevano tutta; e cosí assorbita, e cosí sopraffatta, da non pensare a tirarsi indietro per evitare la insistente curiosità di quel signore mezzo nascosto fra le cortine, il quale tornava ogni giorno a guardarla, coll'indiscreto cannocchiale da teatro, dal terrazzino a mancina.
Gli aveva rivolto appena un'occhiata il primo giorno soltanto; e quella figura alta e bruna, dai capelli un po' radi nel centro del capo, dai grandi mustacchi castagni che si curvavano in su, le si era stampata talmente nelle pupille, che continuava a vederla durante la insonnia, con quel cannocchiale appuntato, con quei polsini bianchi e lustri dai piccoli bottoni d'oro fuor delle maniche del vestito... E se ne stizziva
- Chi è? Che cosa vuole? -
Che volesse colui, ella lo capí a un tratto una mattina, da certe mosse di occhi...
- Mamma, che hai?
- Niente, figliolina, niente! -
Intanto si era ritirata dalla finestra con brusco movimento, smorta in viso. La bimba si stupiva che le labbra che la baciavano fossero diacce e tremanti.
- Mamma, che hai?
- Niente, figliolina! -
E affondava la faccia nei guanciali, accanto alla testina della bimba, dolorosamente.

Per parecchi giorni di seguito non s'affacciò alla finestra e tenne i vetri socchiusi, quasi avesse avuto paura delle lusinghe dell'aria tiepida di quelle giornate primaverili, delle seduzioni di quel sole smagliante che irrompeva nella camera insidioso, a traverso i vetri; indignata della propria debolezza contro quel fantasma che la premeva da qualunque parte ella si volgesse... alto, bruno, dai capelli un po' radi, dai grandi mustacchi rovesciati in su, dai polsini bianchi e lustri con piccoli bottoni d'oro, dalle mani affilate che tenevano il cannocchiale fissato addosso a lei, insistentemente...
Ed ora che sapeva che cosa egli volesse, la sua alterigia d'onesta s'inalberava, protestava, quantunque il suo amor proprio si sentisse un po' solleticato; protestava, anche con quella strana pietà pel marito, quantunque se lo vedesse dinanzi piú giallo, piú magro, piú innamorato e piú geloso ancora, quas'egli presentisse il tranello teso al cuore di sua moglie...
- Oh, no, no! - ella pensava; - sarebbe un'infamia!... Ma già, forse, si tratta d'un castello in aria della mia fantasia riscaldata. Perché costui mi ha guardata tre, quattro volte... Sciocca!
Resisteva però alla smania per cui avrebbe voluto affacciarsi alla finestra a fine di persuadersi che s'era ingannata, e mettersi il cuore in pace.
- Ha paura dell'aria? - le disse il vecchio dottore. - Apra questa finestra, cosí!... L'aria è balsamo di vita -. E l'aperse egli medesimo.
Stiede un pezzetto sulla seggiola del capezzale, irrequieta, lottante, quasi la finestra fosse stata un abisso che le dava la vertigine; poi s'affacciò, rigida, deliberata di non guardare, coi gomiti appuntati sul davanzale, la faccia tra le palme... E appena s'accorse di quell'uomo ch'era là ad attenderla... forse, il cuore cominciò a sussultarle, le orecchie le zufolarono, gli oggetti attorno le barcollarono sotto gli occhi intorbidati...
- Domani, oh, domani sarò piú forte!... -
Intanto, quantunque assolutamente risoluta di non dargli una occhiata, nel tirarsi indietro lo aveva guardato, di sfuggita, suo malgrado...
- Avrei dovuto mortificarlo, con una guardatura sdegnosa, da dargli una lezione! -
E quella sera suo marito la sentí tremare sotto i baci e tra gli abbracci, quasi ella cercasse d'evitarli.
- Ti senti male?
- Sí, un po'...
- Che ti senti?
- Nulla, non saprei... Forse la stagione -.
In alcuni momenti, quand'era sola, tutt'a un tratto il cuore le diventava grosso grosso, gli occhi le si riempivano di lagrime, i singhiozzi le annodavano la gola... Quella volta, sentendosi soffocare, era corsa alla finestra, per prendere un po' d'aria, senza pensare a colui. E vedendo ch'egli la guardava sorridendo tristamente a fior di labbra, e le rimproverava la severità con lieve movimento degli occhi e del capo - Ah, Signore! - quella volta s'era sentita afferrare a tradimento, violentemente; gli aveva risposto con un sorriso, con tale sorriso!... e si era tirata subito indietro nascondendo la faccia tra le mani:
- Oh, Dio, mi par di morire! -
Si sentiva venir meno. E avrebbe voluto morire davvero nel punto in cui aveva ceduto, dandosi incondizionatamente, da non riprendersi piú.

Fu uno scatto, quasi avesse avuto tuttavia sedici anni, e si fosse sentita tale forza nei polsi da lottare col mondo intero! Sentiva bisogno di muoversi, di gesticolare, di ridere, di cantare, ella che fino a poche settimane addietro aveva passato le giornate sonnecchiante su una delle poltrone addormentate anch'esse negli angoli oscuri di quelle stanze fredde e silenziose. E s'aggirava da una stanza all'altra, leggera, saltellante, levando le mani giunte e gli occhi alle divinità mitologiche dipinte nel centro della volta, per ringraziare non sapeva chi di quella grazia vivificante che le era stata concessa! Debole, ingenua, rimasta quasi bambina sotto l'opprimente gelosia del marito, ella si svegliava in un subito gagliarda, esperta di tutte le astuzie, di tutte le malizie, di tutte le ipocrisie della donna abituata a ingannare:
- Ah, finalmente la mia povera vita ha uno scopo, finalmente so!... -
Non sapeva nulla; illusa che tutto si sarebbe limitato là, e che l'immagine di quell'uomo ch'ella teneva chiusa nell'intimo del cuore, come in un tabernacolo, per prostrarlesi dinanzi col pensiero in adorazione spirituale, non le avrebbe chiesto nient'altro...
- Che potrò dargli di piú?
E, alcuni giorni dopo, allorché quel «che» le balenò per la mente, la sua dignità di moglie si rivoltò inviperita: - Spezzerò piuttosto, calpesterò il mio cuore! No! no! -
E continuò a vedere quell'uomo fra un nimbo abbagliante; e, accostandoglisi con la delirante adorazione di donna che amava per la prima volta, le pareva d'elevarsi, materialmente, e non sentiva piú il terreno sotto i piedi.
Perciò fu atterrita e sentí crollarsi il mondo addosso la mattina in cui ricevette una lettera di lui - imprudente!... - che le chiedeva di poterla vedere da vicino, di parlarle; lettera breve, quasi imperiosa col suo carezzante tono di preghiera.
- Imprudente!... -
Per fortuna, in quel momento neppure la persona di servizio era in casa. E alla vecchia mendicante, che attendeva la carità e la risposta, restituí la lettera con sotto poche parole tracciate in fretta in fretta: «Impossibile! Se mi amate, non mi scrivete piú!»
Lo disse anche a quella donna, mettendole in mano un pugno di monete: - Non venite piú, buona donna. Se mio marito vi vedesse!... E lo ripeté a lui dalla finestra, coi gesti, supplicandolo trambasciata, piú e piú giorni di seguito.
- E insiste!... E non sa persuadersi!...
- Vuoi dunque che venga io?... Son deciso... sí, sí... E subito... Comincio a vestirmi.
- Ah! N'è capace. Bisogna impedirglielo, a ogni costo! -
La forza del terrore le offuscò il cervello, quasi non fosse peggio ancora quel ch'ella stava per fare. Non riusciva a infilarsi le maniche della mantelletta, a annodarsi i nastri del cappellino.
- Torno subito - disse alla serva che la guardava meravigliata. - Non dire alla bimba che vo fuori -.
Aveva negli occhi il bacio di ringraziamento scoccatole da colui al cenno che gli rispose: - Aspettatemi, vengo io. - E scendendo le scale, ripeteva mentalmente: - No, no!... -
Era andata per romperla, per dirgli ch'era impossibile, per persuaderlo con le preghiere, facendogli capire le difficoltà del proprio stato... E appena colui la ricevette su l'uscio, prendendola per una mano, sorridente, da persona abituata a simili avventure; e appena si vide in quell'elegante appartamentino da le imposte socchiuse in penombra tentatrice... gli cadde tra le braccia, senza dir motto, quasi vi fosse andata a posta e per nient'altro!

Da qualche mese il marito la osservava, chiuso nel suo silenzio d'itterico, intrigato da quel raggiare d'una seconda giovinezza che le scoppiava dal colorito del viso ridiventato piú fresco, da quel fosforeggiare di lampi mal rattenuti negli occhi...
- Doveva credere a un inatteso mutamento? Il tempo, l'abitudine potevano produrre anche quel miracolo. Perché no? -
Invece, ora ritrovava in lei la stessa resistenza che nei primi giorni del loro matrimonio, quando la giovinezza e la novità del legame potevano in qualche modo scusarla; invece scopriva in lei rapidi movimenti d'impazienza, d'alterigia, quasi di ribellione!...
E lo ferirono peggio d'una pugnalata le parole che la bimba disse una sera alla mamma:
- Mamma, perché non canti come questa mattina? -
Egli non fece un gesto, né batté palpebra; ma vide l'occhiataccia lanciata dalla mamma a la bambina.
- Ah! Dunque cantava?... Dunque cantava? -
Tutta la nottata non ruminò altro. E il giorno dopo, mentre i testimoni facevano le loro deposizioni, mentre gli avvocati declamavano dinanzi ai giurati dando colpi di pugno sui tavolini, egli tendeva l'orecchio, col capo rovesciato sulla spalliera della sedia a bracciuoli, gli occhi chiusi, terribilmente pallido nella toga nera; tendeva l'orecchio per afferrare da lontano una nota di quell'insolito cantare di sua moglie nell'assenza di lui:
- Perché cantava, ella che non aveva cantato mai!... -
E, in casa, gli occhi grigi gli si scurivano, perduti dietro questa ricerca, quasi avesse voluto trovarne la traccia su pei vecchi mobili, o nell'aria di quelle stanze che doveano certamente saperne qualcosa.
Carmelina non gli badava, ingannata dall'apparenza, con la cieca temerità di chi non sa valutare il pericolo e con la fierezza di chi è deliberato, in ogni caso, a sfidarlo. Non voleva riflettere, non voleva ragionare. Il terrore dei primi giorni, quando le pareva che avrebbe visto sprofondarsi il pavimento sotto i piedi se la serva, inavvertitamente, avesse accennato al padrone che la signora era stata fuori; lo sbalordimento di quant'era accaduto quella mattina, senza che la sua volontà vi avesse concorso - anzi!... anzi!... - tutto era stato trascinato via dalla piena irrompente della passione che diveniva piú minacciosa di giorno in giorno.
Appena un mese dopo, ella garriva il suo amante:
- Come? Ora hai paura tu? E mi chiami imprudente?...
- Penso a le conseguenze; uno scandalo, forse un processo!... -
Ella alzava le spalle, irritata che colui riflettesse troppo, mentr'ella avrebbe affrontata anche la morte per venire a trovarlo un momento, per dargli un solo bacio. Invece sentiva domandarsi:
- E... lui, lui non sospetta ancora nulla?
- No -.
Un giorno, rimettendosi in furia il cappellino, ella gli disse:
- Che vita!... Vedersi soltanto per pochi minuti!... Se venissi a stare con te, nascosta in quella stanza in fondo dove nessuno potrebbe vedermi?
- E tua figlia?... - aveva risposto l'amante, fissandola per osservare l'effetto delle sue parole.
- Mia figlia?... È figlia di lui!... Ne avrò un'altra... tua, sai? -
E gli buttò le braccia al collo, senz'accorgersi che l'amante era diventato freddo freddo, e aveva aggrottato le sopracciglia, impensierito.
Però il sospetto di qualcosa d'indegno cominciò a turbarla, dopo che i pretesti per evitare le sue visite divennero piú frequenti. Ai rimproveri, egli rispondeva sorridendo con tranquillità d'uomo sazio e annoiato, negando fiaccamente, in maniera da far capire che negava per mera cortesia di persona bene educata...
Un giorno, sul tardi, pochi momenti prima che suo marito rientrasse in casa, ricomparve la vecchia mendicante, con un'altra lettera e per la carità. Anche quella volta la fortuna l'aveva aiutata. Sentendo picchiare all'uscio, era andata ad aprire; la serva trovavasi in cucina.
Quella lettera non potuta leggere, cacciata in fondo a la tasca del vestito col cuore abbuiato da terribili presentimenti, era stata una lunga tortura durante il pranzo, per tutta la serata, mentr'ella ricamava e suo marito leggeva un giornale, e la bimba, mezza stesa bocconi sul tavolino, coi capelli scuri che le cascavano dietro gli orecchi, ritagliava un vecchio figurino di mode sotto il lume, accompagnando al movimento delle forbici uguale movimento di labbra.
Aveva indugiato fino alla mattina del giorno dopo - fino a che suo marito non andò fuori di casa - masticando il tossico dell'incertezza, tastando di tanto in tanto la busta in fondo alla tasca, quasi avesse potuto, palpando, indovinarne il contenuto. Poi aveva letto febbrilmente, abbracciando con l'occhio due, tre righe in una volta... e s'era sentita lanciare nel vuoto da immensurabile altezza, giú, giú, giú, in quell'abisso che la lettera le spalancava sotto, abisso senza luce che se la inghiottiva vivente!

Colui aveva detto alla vecchia serva:
- Se venisse quella signora... starò fuori di casa fino a notte. Se volesse aspettare, metti alla finestra il solito segnale, finché non sarà andata via -.
E la vecchia aveva messo il segnale. La povera signora aspettava da piú di due ore, ostinandosi, quantunque la vecchia s'affacciasse di tratto in tratto sull'uscio per ripeterle:
- Non tornerà prima di notte; mi ha detto cosí.
- Sí, sí; aspetterò. Chi sa? Potrebbe tornare anche prima -.
E ricascava, abbandonata, nell'angolo di canapé dove s'era buttata arrivando.
Si sentiva precipitare tuttavia giú, giú, giú, in fondo all'abisso senza luce; e non aveva altra sensazione. Quella vertigine della testa, del cuore, di tutta la persona, le impediva di pensare, d'accorgersi degli oggetti circostanti, di formarsi un'idea netta del tempo che passava, e dell'enorme pazzia ch'ella commetteva restando là. A intervalli, la nebbia fosca della sua mente veniva solcata da un chiarore; un quadretto dalla cornice dorata, un oggetto di porcellana con una punta di luce viva, un'impugnatura di fioretto appariva su la parete in un canto del salottino, e le spariva sotto gli occhi appena ella tentava fissarli.
Soltanto allorché sentí domandarsi: - Vuole che accenda il lume? - soltanto allora si riscosse, atterrita:
- Ditegli che ho aspettato finora e che... non tornerò piú!...
Soffocava. E andò via, ritta su la persona, come fantasma, mentre la vecchia le faceva lume. Cosí montò le scale di casa; e cosí, come fantasma, senza esitare, passò davanti al marito che le aperse e non ebbe la forza di dirle nulla, e richiuse lentamente l'uscio dietro il quale era stato ad attenderla da parecchie ore, bevendo le lagrime che gli irrigavano il viso sconvolto, in agguato per scannarla, com'era suo diritto, come si meritava questa sgualdrina, ora ch'egli sapeva tutto!...
- Oggi la signora ritarda... -
Rientrando, gli era parso d'aver capito male. Il suo istinto geloso s'era subito svegliato:
- Oggi?...
- Credevo che il signorino sapesse... - disse la serva, spaventata dal tono di quella domanda.
- So, so: le altre volte però è tornata sempre piú presto...
- Sempre.
- Tutti i giorni?...
- Nossignore; una, due volte la settimana.
- E... da quando?... Da quando?
- Ma, se il signorino lo sa...
- Rispondi! Da quando?
- Da quattro mesi, forse... Non ricordo bene... Oh, vergine santa!
- Da quattro mesi!... Da quattro mesi! Una, due volte la settimana!... -
Ogni esclamazione, era lampo di vivissima luce che gli rischiarava il cervello; era scoppio di fiamme avvolgentisi al corpo che intanto sudava diaccio...
- Da quattro mesí!... Due, tre volte la settimana!... - E i minuti passavano, e i quarti d'ora passavano, via via, sul quadrante dell'orologio a pendolo dov'egli teneva fissi gli occhi; e le ore squillavano pel salotto lentamente nell'attesa mortale, quasi annunziassero un'immensa catastrofe!...
- Meglio per lei, se il mondo finisse prima di rimettere il piede in casa, in questa casa insozzata dalla sua infame persona!... Ecco perché rifioriva!... Ecco perché cantava!... E la gelosia non mi ha servito a niente!... Balordo! Balordo! -
E i minuti passavano, eterni come quarti d'ora! E passavano, via via, gl'interminabili quarti d'ora che sembravano secoli!
La serva aveva sentito suonare con violenza...
- Prendi il tuo fagotto ed esci da questa casa, subito, subito, ruffiana!
- Vergine santa! Che dite mai, signorino!
- Esci! Esci, ruffiana! -
E spintala con un urtone fuori dell'uscio, facendole sbalzare in terra il fagotto, aspettò. S'aggirava dietro l'uscio, simile a tigre pronta a slanciarsi, assetato del sangue della infame.
La bimba, accorsa con la serva, non avendo mai visto il babbo cosí infuriato, era andata a rincantucciarsi nel salotto, impaurita; e, poco dopo, s'era addormentata su la seggiola, con le gambette spenzolanti e la testina cascata sul petto.

Carmelina la guardò, ebete; e sbarazzatasi convulsamente dello scialle e del cappellino, si rovesciò su la poltrona. Gli orecchi le rintronavano d'un sinistro rumore di case crollanti.
- Dove sei stata? Dove sei stata?... -
Alla stretta di quelle mani piú fredde e piú forti dell'acciaio e che le stritolavano i polsi, ella cacciò un grido:
- Ammazzatemi!... Avete ragione!... Ammazzatemi! -
E fissava con avida angoscia qualcosa che gli aveva visto luccicare fra lo sparato del panciotto. Le tardava di morire. Per che doveva piú vivere?
Ma colui si strappava i capelli, ma colui le si rotolava ai piedi, mugolando il nome di lei. E quand'ella credette alfine che le si slanciava addosso per ucciderla, si sentí brancicare, amorosamente, su i capelli, su la faccia, per tutta la persona; e si sentí furiosamente baciare e ribaciare, fra singhiozzi e lagrime irrompenti, quas'egli avesse voluto riprendere quel che gli era stato rubato: la sua vita, il suo sole, la sua donna adorata!
- Come hai potuto, infame?... Come hai potuto?...
- Non lo so... Non lo so... -
Alle incalzanti domande ripeteva sempre:
- Non lo so... -
Ma pensava a quello sguardo diaccio diaccio, di persona malefica, incontrato per le scale della sua casa, a Catanzaro.
A un tratto Lupi si rizzò in piedi:
- Lisa, Lisa! -
La bimba, riscossa piú dall'urto del braccio che da la voce soffocata del babbo, spalancò gli occhi e saltò giú mal desta, lasciandosi trascinare.
In quel punto l'istinto della vita scattò nel seno della madre disgraziata, quasi voce che gridava aiuto dalle viscere sussultanti; e vedendo il marito che trascinava quell'altra creatura, dicendo con voce cavernosa: - Guarda; dovrai ricordartene; guarda! - gli si levò incontro, tendendo le braccia supplicanti.
- Per quest'innocente che ho nel seno!
La bimba vide luccicare una lama e poi sua madre ripiombare, stravolgendo gli occhi fino al bianco...
- Mamma! Mamma! - gridò senza comprendere niente in quel momento.
Mineo, 10 novembre 1883.



EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Racconti" di Luigi Capuana, 3 volumi (TOMO I, TOMO II, TOMO III), a cura di Enrico Ghidetti, collezione: I novellieri italiani, Salerno editrice, Roma, 1974







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