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I

DELFINA

Ceci n'est pas un conte
Diderot

Senza dubbio l'avevo veduta un'altra volta. Ma dove? Ma quando? Per tutta la giornata non ci fu verso di ricordarmene. E volevo rivederla, interrogarla, riannodare con lei una di quelle amicizie che cominciano da un nonnulla e diventano infine, massime trattandosi di donne, qualcosa di piú intimo dell'amicizia, un amore, che so io? Anche un matrimonio; ma dove cercarla? Come farmi intendere dalle persone che avrei dovuto interrogare?
Intanto l'imaginazione lavorava senza posa, e il cuore si accalorava e batteva piú forte. E piú mi accanivo a trovare nella memoria un ricordo di lei, piú i miei dubbi si accrescevano e le incertezze diventavan maggiori.
Il suo aspetto non mi sembrava punto cambiato. Erano scorsi degli anni, ma ella aveva conservato intatta la sua freschezza giovanile. Quel che di lievemente roseo e di diafano della sua pelle; quella delicata bianchezza delle sue mani; quella gentile e, direi quasi, carezzevole flessibilità della sua personcina: quell'incanto dell'andare, del muoversi di tutto il suo corpo bello di proporzioni e di struttura; tutto era rimasto tal quale, senza il menomo cambiamento. La voce dapprima, la voce soltanto, mi parve sonasse un po' diversa da quella di una volta. Il suo tono vivo, argentino si era alquanto abbassato, e aveva preso un che indefinibile di piú melodioso e di mesto che un giorno, mi sembrava, non ci era affatto. Ma riflettendo meglio, credetti di scorgere un'uguale mestizia nei suoi occhi, anzi un po' piú apertamente manifesta che non fosse nella voce. Che cosa le era accaduto? E, innanzi tutto, come si trovava ella in Catania? Le cento interrogazioni che mi rivolgevo affollatamente rimasero per quel giorno tutte senza risposta.
La mia memoria ha di rado un vivo ricordo dei luoghi e delle fisonomie; è un difetto che non son riuscito a correggere per quanto me ne fossi impegnato. Il giorno appresso però i luoghi mi vennero in mente con notevole precisione. Ricordavo benissimo di aver veduto quella donna in Firenze quattro o cinque volte, non piú, sui Lungarni, alle Cascine, a San Miniato al Monte, in casa di una persona a me carissima, la quale amareggiò da indi a poco la mia vita con un'indegna azione. Ricordavo di averle anche indirizzato una o due volte la parola; a che proposito e in quali circostanze mi era completamente sfuggito.
Non sapevo però capacitarmi per quale ragione l'impressione ora ricevuta fosse cosí potente da commuovermi, ed agitarmi come se io avessi riveduto in lei qualcosa di piú che una semplice conoscenza. Le sensazioni di cinque anni fa si erano rinnovate, rese piú appariscenti. Avevo tutto l'agio di osservarle, di studiarle; e piú le fissavo piú si facevano intense e fresche, tanto da produrmi l'illusione di una realtà lí presente. Gli atteggiamenti, i vestiti, la voce, il sorriso mi ritornavano alla memoria netti, precisi, benché avessi la certezza che allora ci avevo badato assai poco; e questo fenomeno cosí strano o molto fuor del comune contribuiva in gran parte ad accrescere la mia curiosità.
Ritornai due giorni di seguito alla Villa Bellini, gironzolai per le principali vie della città senza lasciar passare inosservato un sol viso di donna; ma nulla di nulla. Corsi al Grande Albergo. Chiesi ad un cameriere se vi fosse alloggiata una signora piccola, delicata, bionda; una lombarda dall'abito color perla, con un cappellino di velluto nero a fiori turchini, un manicotto di vera martora e un mantello color marrone a frange della stessa stoffa (indicazioni troppo vaghe e confuse, ma non potevo darne delle altre). Il cameriere rispose di no. Gli sembrava però di aver veduto, giorni fa, entrare nell'albergo una persona che quasi corrispondeva a quelle indicazioni; ma, dopo aver mangiato alla tavola rotonda, era ita via.
- Sola? - chiesi ansiosamente
- Sola, mi pare -.
Quel «mi pare» intorbidò un pochino il piacere che avevo provato alla prima parola.
Corsi allo stesso modo per altri due o tre dei principali alberghi della città e con ugual resultato Cominciavo ad arrabbiarmi. E piú che colla cattiva sorte, me la prendevo con me stesso. Perché non me gli ero avvicinato quando la incontrai sullo spianato della Villa? Ella mi aveva guardato a lungo, aveva quasi fatto le viste di riconoscermi; perché avevo esitato?
Passò una settimana. Quella donna mi aveva intanto messo il cuore sossopra. Già da due notti non chiudevo occhio. Ero, al mio solito, caduto in preda di una di quelle subitanee, irragionevoli passioni che mi han reso cosí infelice, e dal principio venivo condotto a non presagire nulla di bono per la mia salute e la mia pace. Avessi almeno potuto rivederla!
Il decimo giorno, un giovedí, mi recai alla Villetta della Marina, e stavo da un'ora appoggiato ad uno dei piloni del ponte della ferrovia, senza sentir nulla della musica e senza intender verbo di un lungo discorso del mio amico Michele che mi parlava di positivismo e di filosofia, un discorso opportuno! Divoravo cogli occhi tutte le signore che mi passavano davanti, provando spesso un sussulto, un fremito a un color di veste, ad un agitarsi di cappellino che scambiavo per la veste e pel cappellino di lei; e soffrivo una vera tortura in quel vano attendere, in quel frequente ingannarmi, in quel persistente sperare. Finalmente, quando la folla era piú densa, quando il passeggio era piú lieto e piú svariato, mentre la banda militare suonava il magnifico valzer del Fausto di Gounod, ecco affacciarsi al cancello della Villetta chi? Lei, proprio lei! E sola! Fui sul punto di venir meno, tanto il sangue mi rifluí violentissimo al cuore.
Passò davanti a me, a pochi passi di distanza; ma non potè vedermi, impacciata come pareva del rivolgersi degli occhi di tutti curiosamente su lei: sincero e tacito elogio della sua grazia, della sua bellezza e della sua eleganza. Un giovane uffiziale la salutò. Ella rispose con un piccolo cenno del capo ed un sorriso. Io ne avevo un gran dispetto. Un vivo sentimento di gelosia si era già destato a poco a poco dal fondo del cuore, e potevo a stento frenarmi di non impertinenzare tutti coloro che osavano metterle gli occhi addosso e far chiose e comenti.
Non volli avvicinarmele nemmen questa volta. Ero troppo commosso. Mi sarei imbrogliato. Tant'occhi si sarebbero fissati sopra di noi due! Ella girò pei viali, fermossi un istante sul ponticello di legno che cavalca il piccolo canale dove nuotano i cigni e uscí fuori della Villa. Lasciai Michele con un pretesto, deciso di seguirla con cuore tremante fino all'uscio di casa.
Le andai dietro un gran pezzo lungo la via Etnea, tenendomi sempre a distanza, ma non tanto che l'occhio potesse facilmente smarrirla. Evidentemente essa ritornava al solito posto della Villa Bellini. Avrei amato meglio che fosse andata a casa. Chi sa? Nella Villa Bellini mi sarebbe forse di bel nuovo mancato il coraggio di farmele innanzi.
Il mio turbamento infatti era straordinario davvero; ne stupivo io medesimo. Perché quella donna mi trascinava dietro a sé come legato da una catena invisibile, ma possente? Che sarebbe accaduto tra me e quella donna dopo che mi sarei fatto riconoscere? Speravo e temevo. La testa era confusa, il cuore palpitava rapidissimo. Riflettevo però come tutte le volte che mi era accaduto di amare avessi sempre amato a quel modo, con improvvisa violenza. In due, tre giorni l'amore era celeramente montato per tutti i gradini della passione, saltandone forse qualcuno; e prima che avessi avuto tempo di riflettere era giunto alla cima; forza era stato subirlo in santa pace, rassegnarsi a godere e a soffrire. Quello che in questo caso mi dava piú pensiero era un intuito confuso, inesprimibile di un passato che la memoria non riusciva ad afferrare; un sentimento egualmente confuso ed inesprimibile di gioie amare, di dolori profondi che l'avvicinamento di quella donna mi avrebbe fatto patire. Eppure la seguivo, e con acre voluttà avevo a poco a poco fatto sparire la distanza; talché, passato appena il cancello della Villa Bellini, mi ero trovato a pari passo con lei.
Si volse, ci guardammo un momento, io aspettando che fosse lei la prima a farmi un accenno, ella quasi tacitamente richiedendo ch'io fossi il primo a rompere quel diaccio importuno. Ci risolvemmo tutti e due nello stesso punto, tutti e due pronunziammo con vera soddisfazione un unisono «Oh! Lei!» e ci stringemmo la mano.
Cominciò una conversazione disordinata, arruffata. Eravamo impacciati allo stesso modo. Si taceva, ci facevamo delle domande, si tornava a tacere. Io godevo ch'ella potesse notare la mia confusione. - La donna - pensavo - è cosí acuta! Ne indovinerà subito il motivo. Qual donna non ha avuto la certezza di essere amata almeno due mesi avanti di sentirselo dire? Ci fermammo innanzi alla gabbia delle tortorelle e dei fagiani. Io dissi una delle solite trivialità sull'amore pacifico delle tortorelle. Ella notò invece il fagiano dal mantello bianco brizzolato, dalla cresta rossa, vellutata, che passeggiava altiero attorno alla modesta sua femina e di tanto in tanto la beccava.
- Creda - ella disse - non son le tortorelle l'ideale del la donna. Ecco una grulleria data ad intendere dai poeti! Se tutte le donne avesser agio di vedere questa scena dei fagiani, le direbbero di una voce che voglion essere amate a quella guisa. Il ragionare si metteva su di una buona via. Ma io tacqui, assorto com'ero in ciò che udivo; beato di vedere le sue labbra piccole, rosee, sottili muoversi e dare il varco ad una voce flautina, la quale pareva uscire proprio dal profondo del petto.
Sedemmo sur uno dei sedili dello spianato, a mano destra della cattiva statua di Androne. Non c'era anima viva. La giornata non pareva di gennaio. Il cielo limpidissimo. Il sole caldo come nel maggio. Le campagne attorno coperte di verde come nel meglio della primavera. L'aria tiepida, profumata, voluttuosissima.
- E non l'ha piú riveduta? - fece ella, riattaccando improvvisamente il discorso (Accennava alla persona un dí a me cara che aveva poi, come dissi sul principio, avvelenata la mia vita con una indegna azione.)
Risposi col capo di no. Guardavo ora il suo irrequieto piedino imprigionato in un elegantissimo stivaletto, ora le sue manine rivestite di guanti color perla, pari all'abito (lo stesso abito di quando l'avevo incontrata l'altra volta), ed ero come trasognato.
- Sono stata troppo importuna - soggiunse subito quasi mortificata - richiamandole alla niente dei dolorosi ricordi. Gliene chiedo perdono. La piaga non ha forse ancora fatto il margine, ed io…
- Ella s'inganna - mi affrettai a rispondere - non vi è nemmen cicatrice. Quella persona, quei fatti son già per me divenuti assai meno che un ricordo, quasi meno che un sogno. Sa? Io ho un'abitudine poco comune (forse dovrei dire: un singolare organismo); dei casi della vita ricordo i lieti soltanto. Mi pare che i dolori si succedano cosí frequenti nei pochi giorni della nostra esistenza da non dover poi tenerli, come si suol fare, in gran conto. Chi ne avrà mai difetto? Ma le gioie! Ecco: io ho segnato con delle gioie, piccole o grandi importa poco, i piú notevoli punti della mia vita… Dio volesse potessi aggiungervene presto un'altra che oso appena sperare!
- Ah! - esclamò ella con un tono tra la sorpresa e il disinganno. Ed abbassò il capo e chiuse gli occhi come per raccogliersi meglio e pensare.
A me pareva di aver detto, colle ultime parole, una gran cosa. Se ella fosse stata curiosa di domandarmi qual'era quella gioia che osavo appena sperare, la risposta era pronta sulle mie labbra; non l'avrei fatta mica attendere. Ma quell'«ah!» pronunziato a quel modo! Restammo silenziosi un buon pezzo.
Io avrei voluto rimaner lí, al suo fianco, per tutta l'eternità. Ero, oso dire, inebriato dal dolce profumo della sua persona, e godevo in vedere il fascino che mi aveva soggiogato, accrescersi a dismisura, invadermi e penetrarmi tutto con sensazione ineffabile.
Quei popoli che chiamano il fiore e la donna collo stesso nome, hanno indovinato un mistero. Vi son dei momenti però nella vita della donna nei quali il suo profumo si spande piú soave e piú ricco intorno a lei. Che un uomo capace di gustarlo e di apprezzarlo le passi allora di accanto, foss'anche alla sfuggita; sarà vinto, ammaliato, non potrà non amarla. Or io in quel punto non respiravo altro che questi divini profumi. Ad ogni boccata d'aria me gli sentivo confondere col sangue, immedesimar proprio colla pura essenza dell'organismo.
Già i minuti, segnati dal battito accelerato del mio cuore, contavano piú assai degli anni nella vita di quell'affetto nato da poco oltre una settimana. Piú stavo lí, al fianco di lei, e piú un'intima, rapida trasformazione mi faceva perdere il senso della realtà e delle convenienze sociali Mi pareva naturale ch'ella dovesse aver coscienza di ciò che il suo potere aveva operato dentro l'anima mia; mi pareva ancora piú naturale ch'ella sentisse nel suo cuore quel profondo rimescolarsi della vita che io provavo nel mio. Sicché il tagliar corto a tutti i preamboli, il fare a meno delle delicate transizioni, il lasciar da banda le riguardose reticenze mi sembrava una cosa non solo opportuna, ma urgente. Come la vita interiore, che batteva il suo ritmo sublime in noi due, non aveva niente di comune coll'andare ordinario del mondo, cosí non era sciocchezza l'assoggettarla nella sua rivelazione alle stupide leggi del mondo?
Io pensavo questo e ben altro durante quei momenti di silenzio, mentre gli occhi si deliziavano nella contemplazione di quella bellezza gentile. Ed ella intanto a che mai pensava? Sembrava assai trista. I suoi occhi stavano, è vero, fissati sull'Etna che si elevava orrido e maestoso lí rimpetto, ma pareva guardassero senza vedere. Da certi quasi impercettibili movimenti della pupilla, da certo sorriso leggiero e sfumatamente ironico che appariva ad intervalli sulle sue labbra, io capivo benissimo che quell'anima era anch'essa agitata; che un mondo forse di ricordi, forse di sogni e di speranze si muoveva confuso innanzi alla sua mente e la rapiva e teneva assorta. Ma, entrava il mio povero fantasma in un breve cantuccio di quel mondo? O era ella tanto lontana da me col cuore quanto io le ero vicino?
Scosse e levò in alto, sospirando, la bionda testina, come per cacciar via i tristi pensieri che le si affollavano innanzi, e si volse a me cogli occhi e colle labbra sfavillanti di una luce e di un sorriso inattesi. Io, che non avevo perduto il piú piccolo dei suoi movimenti, le avevo letto nell'anima. Mi era parso di vederla fortemente lottare, esitare a lungo, poi decidersi a un tratto con risoluzione improvvisa. Aspettavo quindi ansioso che da quelle sue labbra cosí fresche e cosí belle uscisser parole da spiegarmi il mistero.
Giacché io non avevo siffattamente perduto il senso della realtà da non piú comprendere che quanto accadeva tra me e quella donna non fosse una cosa ordinaria; ma, circostanza ben strana, non ne provavo meraviglia. Vi sono certe situazioni dello spirito cosí complicate e sorprendenti, che un breve minuto può talvolta formare il tormento e la consolazione di tutta la vita. In quel punto (lo sentivo senza intenderlo) mi trovavo in una di esse.
- Chi l'avrebbe mai creduto - diss'ella cavandosi un guanto - che un giorno ci saremmo riveduti qui, in faccia al suo Etna e con questo magnifico sole che quasi sembra ci festeggi? Eppure, ora che ci siamo, mi par la cosa piú naturale del mondo
- Le cose piú naturali - risposi - non sono punto quelle che piú facilmente comprendiamo. Potrà ella, per esempio, spiegarmi perché non ebbi il coraggio di avvicinarmele la prima volta? Perché la memoria non mi diè subito i ricordi che la mia curiosità le chiedeva? Perché questi ricordi mi si destarono in mente a poco a poco, provocando nel cuore un lavorio, un turbamento, una smania che non si sono ancora acchetati? Intanto, che cosa di piú naturale?
- Davvero? -
E questa parola fu da lei pronunziata con un accento cosí dolce e cosí nuovo che voleva significare mille sentimenti ad una volta, cioè una sorpresa ingenua, una gioia pudica, una soddisfazione, un rimpianto, qualcosa di appassionato e di triste, d'infantile e di materno che mi colmarono di stupore e mi fecero perdere il cervello.
Senza che io me ne accorgessi, senza alcuna sua resistenza presi tra le mie mani una delle sue manine e accarezzandogliela (non osavo ancora stringerla) tutto di un fiato le dissi:
- Sí, Delfina, nulla di piú naturale, quantunque nulla di piú arcano. A certi istanti, lo confesso schietto, ho avuto fin paura, osservando lo sconvolgimento di tutto l'esser mio che la sua persona ha operato. Ero lieto, tranquillo, spensieratissimo. La vita mi correva come un limpido ruscello tra le aiuole di un giardino. Provavo anzi un immenso piacere nel ricordare il passato cosí buio, cosí tristo e confrontarlo col presente. Non temevo, non speravo nulla dall'avvenire. Vivevo come un fanciullo… Mi riposavo della vita… Ed ecco, Delfina, veggo lei… e tutta questa pace incantevole, tutta questa felicità semplice, ma benefica, sparisce ad un tratto! Non mi sento però infelice. L'arcano è qui! È un nuovo mondo che sta per aprirsi all'anima mia. Lo sento… ne son certo; e la chiave è tra le sue mani. Sarà, mi pare, una felicità diversa ma non meno bella; agitata, ma non meno benefica… Fosse anche un dolore! Non monta nulla! Ho un presentimento vago, indeterminato, che cotesto dolore mi dovrà esser caro piú di molte e molte gioie… Ben venga dunque! Oh! Creda! Io, io pel primo, son cosí sorpreso di quanto le sto dicendo e di quel che le dovrò dire! Ma c'è dentro di me una forza superiore alla mia volontà che mi costringe mio malgrado. Una voce insistente mi susurra all'orecchio: «o ora, o non mai!» ed io parlo e parlo senza nulla curarmi di ciò ch'ella può pensare! La mi perdoni, Delfina!… Vorrei meglio dire: perdonami, Delfina!… Tornerebbe lo stesso… E oramai!… Mi son messo fuor della legge, e mi piace di starci. Che avverrà di me? Non mi curo di saperlo. Quello che io so di certo è che non ho mai provato nulla di simile, e che tutto è mistero. Quello che io so di piú certo è che vi sono al mondo due sole parole per rivelare le mille sensazioni che in questo momento mi opprimono, e sono: t'amo!
Qui, come se queste due sillabe pronunciate basso e all'infretta mi avessero scottato le labbra, baciai commosso la sua mano quasi per attutire il bruciore con qualcosa di fresco, e mi alzai atterrito del mio insolito ardire. Se qualcuno ci avesse già visti! Girai gli sguardi da ogni lato. Fortunatamente nei viali piú lontani non appariva persona. Mi voltai allora trepidante verso di lei. Che avrebbe ella risposto?
Ella mi guardava sorridente, quasi tranquilla, cogli occhi che nuotavano nelle lagrime a stento rattenute. Il suo petto si alzava e si abbassava con una respirazione accelerata. Nulla però che accennasse o la sorpresa o lo sdegno. Pareva piuttosto quasi trasfigurata e come raggiante. Il suo volto acceso d'una fiamma leggiera aveva rapidamente acquistato un che di piú diafano meraviglioso. Gli sguardi, il sorriso le spandevano attorno alla fronte ombreggiata dal cappellino un'aureola a dirittura. Non sembrava piú dessa.
Io non mi sarei punto imaginato ch'ella potesse mai divenir bella a quel grado, e il piacere e la meraviglia che ne provavo guardandola mi fecero dimenticare per poco ciò che accadeva fra noi due. Infatti quando corsi a sedermi nuovamente al suo fianco, ero cosí fuor di me da non capire piú né quel che facevo, né dove mi trovavo.
Ella prese, alla sua volta, la mia mano, e stringendola forte:
- Grazie, Eugenio - esclamò; - grazie! -
Né potè piú proseguire. Era troppo commossa Tratteneva a stento i singhiozzi.
- Oh sí - continuò dopo essersi alquanto rimessa in calma; - noi siamo avviluppati dal mistero. Non viviamo forse in questo momento fuori del mondo? Non siamo come sopraffatti da una magica potenza che par trasmuti ogni cosa attorno e dentro di noi?… Eugenio! - indi soggiunse dopo un istante di esitazione - pensi di me quel che lei vuole; mi creda pure una matta, mi creda, che piú? una sciagurata, la quale abbia perduto ogni pudore… ma io non tacerò per questo, non posso affatto tacere! Io presto cieca fede a tutto quello che or ora mi ha detto; non la credo capace di mentire. Un uomo che fingesse avrebbe fatto altrimenti… Ma sia! E cominci pure col disprezzarmi. Son sicura che alzandosi da questo sedile ella mi avrà piú amore, perché mi avrà piú stima. La sua stima mi è cara. Questo momento, non è vero? È per lei proprio inatteso. Ma io, io l'ho invocato a lungo, l'ho sospirato degli anni, non ho mai disperato che giungesse! Dal giorno che la seppi partito da Firenze, pallido, sofferente, quasi sfinito di forze, da quel giorno fino alla mattina che il vapore mi recò a Siracusa io non sognai altro che la Sicilia, quest'immenso giardino. Quante ore passate ad imaginarmi queste città cosí diverse dalle nostre, la sua casa, la sua famiglia! E, a giorni, come fui felice per la sola illusione di avere, con un miracolo dell'amore, veduto davvero!
- Ma scusi, Delfina! - balbettai io, che a quelle parole mi sentivo sconvolgere il senno - Ho io inteso bene? Un miracol dell'amore? Possibile? Dio mio! Possibile?
- È una storia breve, trista, semplicissima; ma è tutta la mia vita. Stia dunque a sentire Sono di già cinque anni e par proprio ieri! L'Emilia mi trasse fuori della sala ove era riunita la solita società di casa F***, e mi condusse nel salottino verde facendomi trattenere in mezzo all'uscio. Aspettava lei. Voleva parlarle prima che fosse visto dagli altri. Io ero ritornata in Firenze da fresco Ero stata a Pisa sei mesi col babbo, e però poco o nulla sapevo del loro amore. L'Emilia cominciò, non richiesta, a dirmi ogni cosa, e con un tono cosí ironico e pungente ch'io previdi subito una rottura. Però dal discorso, tutto pieno di pretesti, non ci volle molto a comprendere che il torto stava dalla sua parte. Allora, Eugenio, mi entrò nel cuore una grande pietà di lei! Pensai: chi sa com'egli l'ama?… E intanto!
E insieme alla pietà un sentimento di disprezzo per quella trista ragazza; vergognai di esserle amica. L'Emilia diceva di averle scritto una letteraccia, proprio cosí: ed era ansiosa di sapere in che modo l'avesse lei presa.
«Ma insomma - le dissi - tu vuoi romperla ad ogni costo!»
«È troppo serio - mi rispose - i mutrioni gli abborrisco»
«Questo cuore non ha mai amato! Una simile leggerezza sarebbe inesplicabile. Ha creduto di amare e si è illuso!» pensavo io per vincere la mia stizza. Ma m'ingannavo. Quel cuore calcolava!
Suonò il campanello Era lei.
Io mi nascosi frettolosa nella stanza appresso e dietro la tappezzeria potei sentir tutto e vedere… Tremavo, sudavo diaccio. Non mi ero mai trovata a un caso simile. Intesi il suo passo sul tappeto della stanza, poi la sua voce che pronunziava affettuosamente il nome di Emilia… Ci furono alcuni momenti di silenzio. Indi cominciò tra voi due un dialogo che mi è rimasto impresso nella memoria parola per parola, un dialogo straziante, una vera lotta dell'amore colla freddezza e coll'egoismo, ma dignitosa e sublime! Quanta passione nelle sue parole! Quanta mestizia nel suono della sua voce commossa! E insieme quanta fierezza nei suoi sguardi e quanta nobile alterezza in tutto il suo contegno!
L'Emilia godeva e fremeva. Vedersi vinta nel suo stesso trionfo! Non se la sarebbe aspettata. Già la rottura, dall'indirizzo del ragionamento, si poteva omai dire inevitabile… Era lo scopo della letteraccia e di quell'abboccamento preparato con arte… Ma il modo le spiaceva, la contrariava; la si sentiva avvilita.
Eugenio! È impossibile far capire ciò che io provai in quegli istanti. Ascoltavo trattenendo il respiro, col cuore che mi batteva violentemente nel petto, come se da quel discorso fosse dipesa la felicità o l'infelicità della mia vita. Vi fu un punto in cui non seppi piú frenarmi di trarre la tappezzeria un pochino da parte per meglio udire non solo, ma anche per vedere. L'Emilia era stesa sulla poltrona, cogli occhi bassi, il viso contratto, e rodeva rabbiosamente la punta del suo collare di merletto… Ella invece stava in piedi, lí presso, col viso bianco come un cadavere, il capo abbassato e le mani immobili nelle tasche dei pantaloni. Di sotto le sue sopracciglia scappavano certe occhiate che pareva volessero fulminare. Parlava con accento basso, represso, profondo: la voce tremava. Quale scena per me! Non potrò mai dimenticarla.
Finalmente ella si scosse, passò una mano fra i capelli e sulla fronte, fece un moto colle spalle e poi disse:
«Addio, Emilia! Non ci pensiamo piú!»
Ma non si mosse. Attendeva forse una risposta. L'Emilia tacque. Ella, indegnato, voltò allora subito le spalle e andò via di corsa.
Io avevo le lagrime agli occhi. Dovetti buttarmi su di una sedia per non cadere a terra… Mi sentivo mancare «Poverino! - esclamavo; - poverino!»
E non sapevo dir altro. Ma quella parola diceva tutto.
Quando l'Emilia mi chiamò per rientrare in sala, io non potei trattenermi dal dirle:
«Sei stata crudele! Hai commesso una vera indegnità! Mi hai fatto proprio male!»
Ritornai a casa come istupidita, e corsi con un pretesto a mettermi subito a letto. Non potei chiuder occhio. L'avevo sempre dinanzi! E dentro le orecchie la sua voce! Era una cosa non mai provata per me. Il giorno appresso stetti sempre attristata, silenziosa, esclamando di quando in quando: «Poverino! Chi sa che farà mai? Come dovrà soffrire a quest'ora! Se potessi consolarlo! Oh, lo farei volentieri!»
E mi arrabbiavo di esser donna. Poi stupivo di quel nuovo stato dell'animo mio, e mi chiedevo, spaurita, che voleva egli dire; ma non riuscivo a darmi una risposta, o rispondevo soltanto: «Passerà!»
Ma non passava. I giorni si seguirono: il mio turbamento divenne maggiore. Provavo una smania di rivederla, rivederla da lontano, anche senza esser vista da lei… e quando, tre o quattro giorni dopo, io lo incontrai sui Lungarni, presso al ponte alla Carraia, appoggiato alla spalliera del fiume, cogli occhi fissi sulle acque, mi sentii dare un tuffo al sangue: mi parve di morire, tanta fu la stretta del cuore.
Allora cominciò per me un vero martirio senza nome. Che giornate! Che settimane! Che mesi! La sua imagine era diventata una necessità dell'anima mia; non sapevo saziarmi di fissarla e di adorarla. Amai quindi il mio patimento, e mi compiacqui di prolungarlo e di gustarmelo da tutti i lati. Mi pareva, che mattezza! che quel mio affetto cosí segreto, cosí fuori d'ogni speranza dovesse servirle di consolazione, di compenso pel vile tradimento dell'Emilia; e credevo che per cotesto santo fine non avrei mai patito abbastanza!
Era la prima volta, che il cuore mi si apriva alla vita ineffabile dell'amore! Né doveva amare piú mai!
Tre mesi dopo ella lasciò Firenze e la Toscana quasi disperato della salute. Il mio dolore fu immenso! L'unico e debole filo di speranza di che osavo talvolta lusingare i miei sogni e i miei delirii, si spezzava ad un tratto. Già tra me e lei, credevo, c'era omai di mezzo l'infinito. Dio mio! E sarei morta senza essere riamata un istante; senza che l'amor mio fosse da lei conosciuto! Potei rassegnarmi anche a questo; e divenni, se era possibile, piú sua; giacché mi strinsi, giurando solennemente, ad un voto: non mi avrebbe avuto alcun altri! Ho mantenuto.
Due anni appresso sposai, per crudele necessità di famiglia, un uomo il quale mi amava davvero, piú di quel che non meritassi e mi ama sempre. Sposa fedele, obbediente, servizievole, io non gli ho concesso che il mio corpo. Oh l'anima mia, no, non l'avrà mai! Son io colpevole? Non lo so; non voglio saperlo. Quando anche la fossi? Per me val lo stesso. Già ho tentato di amarlo, ma non ci son potuta riuscire. Tu, Eugenio, sei rimasto nella mia mente come una figura celestiale, bello di giovinezza immortale, sempre lo stesso, sempre l'Eugenio di quella sera fatale, col cuore immeritamente lacerato, coll'anima nobilmente dignitosa sotto un'onta vigliacca, e la tua immagine si scancellerà dal mio petto coll'ultimo respiro della mia vita!
Quando mio marito mi annunziò che il suo officio d'ingegnere delle strade ferrate lo chiamava in Sicilia, fui, dalla contentezza, sul punto di ammattire. Mi pareva che la Sicilia fosse come una sola città e che ti avrei infallibilmente riveduto. Ahimè! Messina, Siracusa, Augusta, Catania dove saresti tu mai? Avrei voluto fin morire in Sicilia per rimanerti vicina!
Giorni fa, oh! tu non puoi credere che festa fu la mia! E insieme che tormento! «Non mi ha riconosciuta!» dissi all'amica che avevo allato.
Ma non voleva dir nulla! Ti avevo trovato! Finalmente!
Ed ero decisa a cercarti. Oh non volevo andar via cosí lontano, in Oriente, senza dirti il mio segreto, senza sgravarmi il cuore da un peso affannoso!… Come sono ora felice!
Tu mi dimenticherai presto lo so; ma che m'importa? Mi hai amato un momento, almeno me l'hai detto, e voglio illudermi e credere. Non osavo sperar tanto. Ripetimelo! T'amo anch'io, Eugenio! T'amo! T'amo!
Ed ora andiamo via - soggiunse tosto - e si levò da sedere
- Delfina! Delfina! - esclamai trattenendola per la mano, né sapendo aggiunger altro
- Lasciami! Andiamo! - diss'ella con un accento dolce e quasi di preghiera
- Ma quando, ma dove potrò rivederti? - le chiesi allora atterrito
- Rivedermi? - fece ella, diventando seria tutto ad un tratto - Rivedermi? Mai piú! Credi che io sia tanto forte da sfidare il pericolo? No, Eugenio. Sono stanca. Lasciami, andiamo per pietà!
Non le ritenni piú la mano e il suo braccio cadde come un corpo inerte. La guardai in viso. Un pallore mortale aveva improvvisamente tinto le sue guance e scolorito fin le sue labbra
- Tu soffri? - le chiesi piú atterrito di prima
- T'amo! - rispose con voce spenta. E si avviò a capo chino
Fatti pochi passi, si rivolse verso di me che le tenevo macchinalmente dietro.
- Ti chiedo una grazia - disse, sforzandosi ad un sorriso: - mi giuri di accordarmela?
- Te lo giuro! - risposi non sospettando nulla di quel che avrebbe richiesto.
- Non seguirmi!
- Oh!
- Hai giurato! - riprese con autorevole dignità - Poi è inutile rivederci! Domani l'altro partirò con mio marito per Costantinopoli, ove la società delle ferrovie lo manda a dirigere e a sorvegliare i lavori. Perché metterci al repentaglio di mutarci in un rimorso questi tristi, ma grandi, ma solenni momenti di gioia? -
Scendemmo pei viali, silenziosi come due condannati a morte; io traendo a stento i passi, senza vedere né pensare; Delfina lesta e quasi affrettata. Giungemmo al cancello.
- T'amo! - ella mi disse sottovoce come addio, e mi strinse la mano.
- T'amo! - risposi. E mi appoggiai ad uno dei candelabri che sono lí innanzi.
Si allontanò per la via diritta andando in su, poi torse a destra. E quando vidi sparire dietro la cantonata l'ultimo lembo della sua veste, mi parve che metà della mia vita fuggisse via dietro a lei!



II

GIULIA



Sedetti. Ella tremava ancora; non riusciva a snodare il nastro del suo cappellino. Aveva gli occhi pieni di lagrime e faceva sforzi per rattenerle. Mi guardava sorridendo, rossa in viso come una bimba colta in fallo, ma non poteva parlare.
Anch'io non trovavo il verso di dire qualcosa; ero sorpreso e un po' stordito. Un'avventura cosí inattesa! Non sapevo intanto se dovevo proprio rallegrarmi della mia parte di cavaliere errante; temevo di aver fatto una ridicola figura. Gli urli, gli insulti di quei cialtroni, le risate ed i fischi quando, presa per mano la povera donna smarrita, la feci montare nel fiàcchere… Insomma, non sapevo che pensare.
Mentre il fiàcchere andava di corsa, ella era appena riuscita a balbutire due o tre volte un «grazie». Io, dal mio canto, non avevo voluto mostrarmi indiscreto. La curiosità di sapere chi avessi salvato dagli insulti di una mezza dozzina di beceri e di spazzaturai mi spinse però ad accettare l'invito di salire le scale del suo quartierino. Ma, entrato in quel salotto, non volli aver l'aria tanto poco generosa e tanto poco cavalleresca di cercar di sapere i fatti altrui, fossero stati anche quelli di una donna con cui poteva, come già sospettavo, farsi a fidanza.
Ella si era omai tolto il cappellino, si era sbarazzata dello scialle buttandolo negligentemente su di una sedia; e ravviati un pochino, quasi per istinto, i capelli, venne a sedersi con moto agile e grazioso sul divano, al mio fianco, ripetendo:
- Grazie, signore!
- Ma di nulla - risposi: - ogn'altro in simil caso avrebbe fatto lo stesso
- Oh, signore! - continuò - la mia gratitudine è poca cosa; ma io, stia certo, terrò memoria di questo per tutta la vita. -
veva una vocina dolce, insinuante, come se ne odono soltanto in Toscana; una voce, oserei dire, da fisarmonica; di quelle che t'incatenano a star a sentire anche quando non dicon nulla che valga la pena di essere ascoltato.
Senza scialle e cappellino la sua persona mi parve piú bella. Figurati! Un par di occhi magnifici, di un azzurro cupo stupendo; una chioma di capelli biondi, ricca e tutta sua, che s'increspava e splendeva come l'oro coi riflessi della luce; una taglia svelta, asciutta, delicata; e delle manine da principessa! Cento belle ragioni da rendere piú piccante l'avventura e piú goloso il mistero.
Quel suono di voce mi aveva quasi sconvolto. La voce parmi l'espressione piú immediata dell'anima; ha un che d'immateriale, di piú vicino ad essa, il quale mentisce di rado. Vi sono delle inflessioni, delle modulazioni che rivelano tanto, se son sapute studiare! La parola dirà una cosa, ma il suono ne dirà un'altra, chi gli pon mente; e dico suono e non tono, che è molto diverso. Secondo me, quella vocina non indicava un'anima volgare, benché potesse anch'essere caduta molto in basso; scendeva diritta al cuore ed ispirava subito confidenza. Però il facile scetticismo della vita non tardò a suggerirmi di stare in guardia. In ogni caso chi mi assicurava che dopo quella giornata io e quella donna ci saremmo nuovamente trovati insieme!
Nei brevi minuti trascorsi senza che nessuno di noi due avesse saputo appiccare una conversazione, ella si passò parecchie volte le mani sul viso, come per riaversi del disturbo avuto in piazza Barbano; io potei intanto osservarla un po' meglio e dare una occhiata al salottino ove, sconosciuti l'una all'altro, ci trovavamo muti, faccia a faccia. Il salottino era di una elegante semplicità, un vero nido da donna Le tendine verdi della finestra vi diffondevano un che d'incerto, di sfumato, di voluttuoso che montava al capo come un odore troppo acuto. Fu lei che ruppe il silenzio.
- Oso chiederle il suo nome - disse guardandomi in volto con un sorriso inesprimibile, un sorriso particolarmente degli occhi colmi ancora di lagrime.
- Dottor Camillo Samboni - risposi inchinandomi.
- Me lo scriverò nel cuore!
- E il suo, se non le dispiace? - dissi facendomi ardito.
- Giulia Lorini - rispose senza esitare.
Ma dopo un istante, abbassò gli occhi, si coperse il volto colle mani e diè in uno scoppio di pianto.
- Scusi, ve' - feci; - sono stato indiscreto. Se la mia presenza…
- No, no rimanga; mi fa tanto piacere!
- Allora, prego, smetta di piangere. Via! Non è stato nulla. Son cose che accadono tutti i giorni. Gentaccia ne capita sempre tra i piedi delle persone per bene. Non bisogna farci caso. -
Ella continuava a piangere, a singhiozzare, abbandonata sulla spalliera del divano e si torceva violentemente le mani. Cominciavo a sentirmi commuovere in modo strano
- Si calmi - le dicevo - farà peggio: si calmi.
- Mi lasci sfogare - rispondeva - mi lasci sfogare un pochino. Ho un nodo al cuore Soffro! -
Ero in piedi innanzi a lei e la guardavo con un sentimento di pietà intimo, quasi la fosse stata una amica di antica data.
- Il pianto le farà bene - pensavo; e continuavo a guardarla.
Ella di tanto in tanto alzava verso di me gli occhi bagnati di lagrime, e tentava di sorridere quasi avesse cercato scusarsi di quell'involontario sfogo; poi tornava a singhiozzare piú forte e si stringeva convulsa le mani.
Ho vergogna di dirlo! (Ma io ti racconto quest'avventura per darti appunto una prova di piú delle stranezze del cuore umano.) Ho vergogna di dirlo! Quel pianto, dopo pochi minuti, cominciò a diventarmi sospetto. Gli sforzi ch'ella faceva per rattenersi, per ridursi in calma mi parvero insomma un abile tratto di commedia. Mi compiacqui di questa idea, applaudii segretamente alla mia finezza di intendimento, e dissi tra me: - Facciamo il grullo! Vediamo dove l'amica vorrebbe condurmi. Questa scena ha uno scopo! -
La Giulia potè finalmente vincere se stessa, rasciugò le sue lagrime, e levatasi da sedere, accostossi a me con un'aria di timidezza e d'ingenuità che mi fece dispetto.
- Perdoni - disse con quel suo tono di voce incantevole: - non ho potuto frenarmi. Ella è cosí buono, che non se l'avrà, spero, avuto a male.
- A male niente affatto! - risposi dimenticando per un istante la parte che volevo rappresentare - Sarei troppo fortunato se potessi giovarle a qualcosa. -
E appena pronunziate queste parole mi arrabbiai nel mio interno di essermi già lasciato trarre in inganno dalla creduta apparenza.
- Grazie - ella rispose - grazie, di cuore
- Questo quartierino è una delizia - ripresi io, tanto per non far languire il discorso.
- Bene esposto ed arieggiato, ma un vero guscio di noce. Per me, se si vuole, è anche troppo largo.
- Sta sola?
- Sí sola… colla donna di servizio. -
E abbassò gli occhi sospirando.
- Forse sbaglio, ma lei non mi par fiorentina.
- Sono di Siena, però vivo in Firenze da due anni.
- Sempre sola? - osai chiederle con un accento che non voleva sembrare impertinente.
Ella non rispose, ma divenne prima rossa, poi pallida in viso.
- Soffre? - fec'io, pentito a un tratto di quella domanda.
- Un poco - rispose - ma ormai ci ho fatto il callo. Patisco talvolta dei mancamenti di cuore.
- Da parecchio tempo?
- Da due anni.
- E non ha pensato a curarsi?
- Che! - ripose con una leggiera scrollatina di spalle.
- Fa male - soggiunsi involontariamente premuroso di scancellare l'impressione di quelle mie parole.
- Bisognerebbe esser tranquilla.
- Chi glielo impedisce?
- Tutto! -
La guardai fisso in volto. Provavo ad ogni sua parola delle sensazioni forti e diverse. Mi sentivo ammaliato da quella fresca bellezza, ma temevo di fare al suo cospetto la figura di un grullo. Ero spinto a darle a capire che avevo già indovinato la sua condizione e che era inutile ogni arte per celarmela; ma non volevo nello stesso tempo parere scortese.
Noi siamo curiosi! Non sappiamo supporre che anche certe donne possano avere delle verecondie, delle delicatezze di sentimento, delle alterezze di carattere quanto ogni altra, e stentiamo a scomodarci per risparmiar loro un'umiliazione. Vogliamo forse vendicarci dell'incanto che proviamo; cerchiamo forse scusare con un'indecente rivolta la nostra fiacchezza di sensi.
In quel momento io facevo queste rapide riflessioni, però non mi decidevo a tagliar corto al discorso per non andare piú in là. Sentivo un'ebbrezza voluttuosa montarmi al cervello; vedevo in quei vapori, a poco a poco, sparire i nobili sentimenti della mia coscienza di uomo, e non mi sforzavo alla menoma resistenza. In pochi minuti avevo bella e accomodata una di quelle transazioni del cuore che indicano ordinariamente il marcio del carattere di una persona, e ripigliavo con curiosità:
- Come tutto? -
La mia domanda fu accompagnata da un gesto confidenziale che invitava la bella donnina a sedersi di bel nuovo.
- Signore! - ella disse ubbidendo rassegnata; - noi siamo due sconosciuti. Se io, per rispondere alla sua gentile interrogazione, le facessi delle confidenze, sarei forse sicura di esser creduta? Lei, dal canto suo, non ha davvero nessuna ragione di prestar fede alle mie parole. Le infelici mie pari sono condannate al martirio della diffidenza. Oh! I nostri dolori veri non li diciamo a nessuno. Il meglio che possiamo fare è tentare di dimenticarli -.
Con la fina penetrazione della donna ella mi aveva letto nell'animo e aveva risposto franca, schietta. Mi sentii piccino innanzi a lei.
- Non esigo delle confidenze - risposi, onde celare la mia sconfitta; - sarei troppo ardito Volevo solamente rammentarle ch'ero un dottore come un altro, e che le offrivo i servizi della mia poca scienza.
- A che pro? Ella curerebbe i miei nervi, e il cuore e l'anima disfarrebbero l'opera sua. Ho inteso dire che in questa sorta di malattie la tranquillità interna val piú di qualsiasi rimedio: è difficile averla!
- Ma dunque?
- Si lascia correre l'acqua per la china, e quel che succede è bene -.
Durante il ragionare avevo guardato l'attaccatura del suo collo, una vera perfezione. La pelle di una bianchezza quasi scintillante lasciava trasparire certe piccole vene azzurrognole che sembrava volessero svelare il sorprendente congegno della vita di quel bellissimo corpo; mentre il respiro un po' rotto e frequente dava ai movimenti della gola un che di cosí molle e voluttuoso da metter la voglia di mangiarsela dai baci. Mi sentivo un pochino girare il cervello.
Non ho mai compreso, come in quel momento, il predominio che possono i nervi prender talvolta sulla ragione. Fosse l'ora, il locale, le circostanze e quella bella figurina di donna seduta al mio fianco, cosí poco lontana da sentirmi di quando in quando sul viso il lievissimo e tiepido alitare del suo fiato; fosse in quel giorno una facile disposizione del mio spirito a vagare nell'indefinito, a trarre dalla stupida realtà imagini e visioni che la rendono trasformata; fosse qualche altra recondita ragione che non vo' star a cercare, certo è insomma che io provavo dentro di me una insistente e piacevole violenza, la quale ricacciava indietro tutte le riflessioni sagge ed oneste, e lasciava libere le dorate tentazioni uscenti a nugolo in mille forme dalla fantasia riscaldata.
Il ragionare aveva preso un tono troppo serio. Tentai condurlo ad una certa gaiezza.
- Se lei avesse delle ragioni per non amare la vita - risposi - questo disdegno starebbe bene Ma lei è giovane, è bella, ricca delle piú liete promesse dell'avvenire…
- Promesse! - m'interruppe - ha detto bene
- Che spesso valgon meglio della realtà - soggiunsi. - Secondo me, la felicità della vita non consiste nel possedere, bensí nel correre dietro un fantasma che sempre ci fugge di mano. Il possesso è la morte.
- Senta! - mi rispose - Nessuno sa prendere la vita pel suo meglio piú di noi povere donne. Siamo, come lei dice, sempre alla rincorsa del fantasma che fugge; ma se lei crede che non ci si stanchi, che non ci si sfinisca è perché non l'ha mai provato. Noi rifacciamo la tela di ragno della nostra situazione nel mondo con una buona fede che gli uomini non sanno capire. La dicono leggerezza di cuore! Volubilità! Che! Noi vogliamo solamente carpire la realtà come ella è, ed è brutta assai. Quella leggerezza, quella volubilità ci costano lagrime, tormenti impossibili a dire; ed è per istanchezza, per disperazione, per ispavento da cui ci vien tolto di veder bene, se infine ci buttiamo capofitto in una vitaccia che Dio solo sa quanto pesa! Andiamo! Ne convenga: voialtri uomini siete crudeli!
- E le donne? - feci io con un sorriso che voleva esser malizioso e che nessuno può dire quanto fu da imbecille.
- No, no! - rispose con fiera energia - Vi sono delle azionacce che noi, per tutto l'oro del mondo, non sapremmo commettere. Debolezza o delicatezza d'animo che sia, nemmeno ci passano pel capo; non arriviamo neanche a spiegarcele! -
E la sua voce tremava commossa. I suoi occhi riscintillanti dell'improvviso sdegno mi si fissarono in volto, non saprei dire se per farmi una terribile interrogazione o se per trionfo. Ella si mordeva leggermente il labbro inferiore e colla mano destra mantrugiava un lavoro di trine steso sulla spalliera di una poltroncina lí presso.
- Oh, noi siamo fatte male! - continuò dopo un istante; - dovremmo esser piú forti. Dovremmo una volta finalmente trar profitto della trista esperienza e non piú lasciarci ingannare!
- Via! Non si arrabbi! - esclamai con un tono di confidenza quasi bambinesco; e le presi una mano e cominciai a lisciargliela colla mia come se quella carezza avesse potuto attutire il suo sdegno.
Lasciò fare. Io le lanciavo da un pezzo certe occhiate ardenti di desiderio, lunghe, esprimenti quel languore delizioso, proprio delle persone innamorate. E non erano mica bugiarde. Mi ribollivano in cuore mille cose; il sangue vi affluiva con febbrile frequenza e spargeva indi per tutto il mio corpo un calore che doveva accendermi il viso piú che se io non fossi rimasto alcun tempo innanzi la brace.
- Non è rabbia - ella rispose, - è indegnazione. Ma, dica, la mano posta davvero sulla coscienza, abbiamo noi donne altro torto che quello di prestarvi fede con un'ingenuità troppo balorda?
- Siete fatte per questo.
- È un'infamia!
- È la natura.
- Credevo lei di piú bel cuore! - sclamò con aria di cortese rimprovero.
- E si è ingannata, e sta bene.
- Fa per celia, per isvagarmi dalla mia fissazione; non è vero?
- Faccio per vederla imponente nello sdegno e maestosa come una Dea -.
E stesi il braccio onde ravviarle una piccola ciocca di capelli che le si sbizzarriva sulla fronte. Ella venne incontro alla mia colla sua mano, e impedí quell'atto senza parere di aver avuto una intenzione severa.
- Parliamo degli uomini e lasciamo stare la Dea - disse sorridendo a fior di labbra.
- Ne parli a sua posta; - risposi - io mi gusterò zitto zitto la felicità di ascoltarla.
- Come siete crudeli voi altri! - continuò attaccando forse il discorso a delle idee che rapide le passavano per la mente. - Vuol dire che nella vostra vita arriva un punto in cui scherzate coi dolori altrui senza rimorso e senz'onta! Arriva un'ora in cui la ebbrezza, e la sazietà vi fanno calpestare ogni cosa piú gentile e piú sacra. Diciamolo senza rossore, senza sottintesi, senza reticenze di sorta: quando noi concediamo qualcosa, concediamo tutto; corpo ed anima, vita e felicità: non sappiamo fare a mezzo. Voialtri non volete capirlo; fingete, forse, perché cosí vi torna conto. Siete delle bestie feroci, ingorde di piacere, di sensazioni violente. Non avete, amando, altro scopo. E cosí quando incontrate una infelice che per mezzo del suo corpo vorrebbe attaccarsi ad un'anima, vi mettete a ridere, gli date la berta e cavate di tasca il salvacondotto della morale per insultarla impunemente o precipitarla giú a rotta di collo in un baratro senza fondo. Dio mio! Anche lui!… -
Aveva pronunziato queste parole con un'inflessione monotona, repressa, piena di emozione crescente; si era fermata un pochino prima di esclamare: «Dio mio! Anche lui!…» e incrociate le mani in atto di strazio profondo, ricominciò a singhiozzare. Ci voleva poco ad intendere che quel «lui» non ero io.
- Che! - pensai stizzito; - si torna da capo? -
Ed era la conclusione di un ragionamento opposto al suo, fatto nel mio interno mentr'ella parlava - Ecco - avevo detto - le solite cose! Pare una lezioncina imparata a memoria. Infine, se il resultato dev'essere sempre uno, e si potrebbe anche fare a meno di queste noiose storielle! Già se sto qui a recitar la parte del collegiale andremo nell'un via uno. Furba, permío! -
Ma pensavo cosí per isforzo; il cuore non stava piú a bada. Dentro aveva un tumulto di sentimenti diversi che si facevano guerra tra loro, e c'era in mezzo anche la vergogna di quello stentato scetticismo con che volevo dar ad intendere a me stesso che ero un uomo di mondo.
Oh, la vanità! Quante perfidie suggerisce!
Però mi mancava il coraggio di quei sentimenti. Contavo di arrivare all'intento per via di finezze diplomatiche, di passaggi graduati, senza parere insomma, e mulinavo.
- Scusi, veh - diss'ella all'improvviso, reprimendo colla volontà la sua viva agitazione; - è piú forte di me.
- O lasci andare! - risposi; - si è fissata sul caso di poco fa!
- Ma senta che infamia! - esclamò con improvviso abbandono - Non voglio occultarmi… E poi sarebbe inutile!… Avevo un amante -.
Io sorrisi. Ella capí - Non era il primo - soggiunse con altiera franchezza - ma l'amavo piú del primo. Questo voialtri non lo intendete; vi pare un assurdo: ma è la verità. La lusinga di attaccarsi ad un affetto durevole ci rende piú appassionate e migliori. Basta! Si era fatta vita insieme per quasi un anno. Già fabbricavo dei castelli in aria e mi confortavo con essi: mi sentivo felice! Quando si è cadute in questa miseria non abbiamo altra smania che di uscirne. Ci illudiamo facilmente; proviamo un gran bisogno di illuderci. A poco a poco intanto mi accorsi che lui non era piú quello di prima: si annoiava meco, diventava stizzoso e quasi inurbano… Ebbi un gran colpo al cuore! Ma, gua'! Ero abituata ai disinganni. Un giorno feci un gran sforzo (pativo a vederlo in quel modo) e gli dissi:
«Pierino, non so come sia avvenuto, ma non ti voglio piú bene»
«Toh! - rispose ridendo sgangheratamente - e siamo in due!»
«Tanto meglio! - esclamai colla morte nel cuore; - separiamoci amici. Non ci vedremo piú!»
«I morti non si rivedono!» fece lui, scendendo le scale come sgravato di un gran peso.
Io diedi in un pianto da matta, e giurai di mutar vita. Non è come dirlo! Pare impossibile! Il lavoro ci schiva, quasi la nostra colpa lasciasse del sudiciume sulle cose che non si possa levar piú via. Stentai dei mesi, vivucchiando di certi lavoretti di cucito che mi costavano molto e mi recavano poco piú che nulla; ero decisa a lasciarmi morire! Non avevo voluto vendere un solo dei piccoli oggetti che mi ricordavano lui. Questo salottino è proprio come lui l'ha lasciato; non vi è fuori posto nemmeno una sedia; giacché, per quanto facessi, non me lo ero cavato di mente.
Ieri l'altro, ad un tratto, me lo veggo davanti. Trasalii, volevo mostrarmi sdegnata e non dargli retta: ma lui disse e fece tanto! Mi lasciai accalappiare! Diemmi ad intendere che aveva mutato casa, che teneva in serbo un progetto per farmi del bene, e mi disse che voleva ad ogni costo mostrarmi la sua nuova abitazione. La sua zia era morta (aveva soltanto una zia): poteva omai starmene liberamente con lui e far da padrona di casa. Perché non dovevo credergli? Chi l'aveva costretto a venire?
Ero lieta e trista: non mi diceva il cuore di andarvi. Tutta la notte arzigogolai, mi pentii parecchie volte di aver promesso, ma poi non seppi resistere e non mi parve vero che fosse giorno. Andai, esitando, con un cattivo presentimento, e picchiai a quell'uscio che egli mi aveva indicato.
Un servitore che io non conoscevo m'introdusse in una bella stanza e mi lasciò lí ad attendere. Dopo un pezzetto entrò un uomo sulla cinquantina, alto, grigio di capelli, vestito tutto di nero. Rimasi! Impalai!
«Siete voi, carina?», mi disse con un accento straniero (era forse inglese, che so io?).
Cascai dalle nuvole! Mi scese una benda sugli occhi e fu miracolo non mi svenissi. Ma ripresi subito ardire; e quando quell'uomo mi si accostò e stese la mano per farmi una carezza, lo ributtai indietro con violenza e corsi verso l'uscio. Ei mi ritenne per un braccio. Sghignazzava e borbottava in gola non so che parole poi mi disse:
«A che pro queste scenate? Non sei tu la donna di Pierino? Io sono l'amico di cui ti ha parlato».
Divenni di bragia dalla vergogna e dal dispetto, ed ero intanto fredda, un diaccio. Tremavo a verga a verga.
«Mi lasci andare! - balbettai; - non son io… mi lasci!»
«Senti - egli mi disse - far l'onesta è tempo perso. Chi per caso entra qui donna onesta, n'esce tutt'altra. Tienlo a mente».
Mi voleva far sedere sulla poltrona vicina. Io resistetti dibattendomi, e poi me gli piantai innanzi inviperita dall'onta.
«Signore! - urlai - posso anche esser quella che lei dice; ma non mi si vende o non mi si cede! Mi lasci! Altrimenti salto a quella finestra e mi metto a chiamar gente!»
«Per pietà! - indi soggiunsi in tono di preghiera; - sono stata vilmente ingannata… mi lasci andare. Ritornerò, se vuole, un'altra volta (dicevo tutto quello che mi veniva in bocca), ma ora mi lasci… Per amor del cielo!… Non vede come soffro?»
Si persuase, e aperse l'uscio.
«Grazie!» gli dissi; e stavo per mettere il piede fuori della stanza.
«Verrai davvero?» fece lui.
«Sí, verrò - risposi - domani».
Avrei promesso ben altro per liberarmi!
Osò offerirmi del denaro. Benché mi sentissi tratta a buttarglielo in viso, rifiutai urbanamente, e mi trovai per le scale mezzo morta. Fui subito in piazza Barbano, agitata, disordinata com'ella mi vide. Non riuscivo a infilare una via. Quei beceri che mi avevano veduta entrare, cominciarono ad urlarmi dietro. Dio mio! Mi pareva di ammattire. Le gambe mi si piegavano sotto. Volevo correre ed inciampavo… Chi sa, se lei non era, che cosa mi sarebbe accaduto?… Dica intanto - riprese ella dopo una piccola pausa, - dica se per queste infamie non ci vogliano proprio gli uomini? Se non son prodezze unicamente da loro? -
Ero tra commosso e non saprei definire che altro La musica di tutto quel suo racconto mi aveva dolcemente deliziato le orecchie come un gorgheggio di usignuolo. Ero stato a guardare, ad ammirare l'espressione del suo viso, il movimento delle sue labbra, tutta l'aria fiera, nobile della persona che si rizzava sul busto quasi minacciosa, ma bella nello stesso punto, ma magnifica, ma piena d'un fascino immenso. Non mi ero mosso; avevo quasi rattenuto il respiro: e intanto, tra la emozione, sorridevo internamente con una forzata incredulità che mi faceva proprio comodo, ma che avrei però voluto celare a me stesso. Mi era uopo di credere ch'ella avesse fatto a quel caso un pochino di frangia; avevo bisogno di persuadermi che il caso non fosse poi andato davvero a finire com'ella aveva raccontato. L'uomo è cosí: quando non può trovar una scusa nella realtà delle cose, fa di tutto per persuadersi che le cose stiano preciso come giovano a lui.
Nulla risposi alla focosa interrogazione, anzi le ripresi pian pianino la mano. Ma ella non fu contenta; voleva ad ogni costo dicessi qualcosa.
- Eh? - fece, recando il suo viso rimpetto al mio e piantandomi in fronte quel suo par d'occhi divini.
Trovai una scappatoia.
- Come medico - risposi - le proibisco di piú occuparsi di quest'affaraccio. E spero di essere ubbidito - soggiunsi affettando una gravità semiseria che la fece sorridere.
- Bisogna rifarsi! - esclamò con un sospiro.
E rimase pensosa.
- Oh! - disse dopo un momento - io non saprò mai come ricambiarle la sua squisita bontà.
- Cominci con un bacio! -
E la fissai per vedere l'impressione di quella mia sfacciataggine.
Ella abbassò gli occhi, strinse un pochino le labbra, e poi, freddamente, mi diede il bacio richiesto. Volevo ricambiarglielo, ma trasse indietro il capo un po' rossa in viso
- Ed ora che pensi di fare? - chiesi, reso piú ardito dal mio trionfo e mostrando, col darle del tu, che volevo andare piú innanzi.
Stette a guardarmi, sorpresa che doveva essere di quel tono cosí confidenziale e, piú che sorpresa, addolorata; poi rispose:
- Lo so io? Morire sarebbe meglio.
- Al diavolo le ubbie!
- Ci vuol poco a dirlo!
- Piú poco a mandarle via! -
Mi ero messo in vena di Don Giovanni e facevo il bellumore
- Sai che qui, in due, ci si sta proprio bene? - soggiunsi tosto mettendole una mano sulla spalla. Ella tentò cortesemente di levarmela di quel posto; ma io le ritenni prigioniera la mano. Pareva contrariata, impacciata da quel mio modo di operare, ma non osava far resistenza.
- Lascerò presto questa casa - rispose - vi son troppe memorie.
- Non tutte tristi.
- Tristissime!
- Andiamo - feci, sdraiandomi sulla spalliera del divano e dandole certe occhiate che dicevano tanto.
Però non mi riusciva di spingermi oltre; volevo risparmiato lo sforzo di una dichiarazione piú aperta. Giacché in mezzo a quell'ebbrezza di sensi appariva di quando in quando un bagliore di coscienza, e sentivo un'acuta punta di rimprovero ferirmi il cuore a guisa di sottilissimo ago; talché avevo una rabbia di me stesso e della mia debolezza, che mi avvelenava il piacere di quella situazione inattesa.
Stetti cosí un pezzo, curioso di spiare i menomi movimenti di lei, stizzito di leggerle sul volto un misto di stupore, di pena mal celata e di rassegnazione sdegnosa; poi, con uno scatto, mi levai da sedere.
- Va via? - ella chiese con un tono che pareva volesse assicurarsi se non partivo di lí offeso di quel suo contegno.
Io non ero piú buono a nascondere ciò che in quel punto provavo.
- Vo via - risposi; - che sto piú a seccarla? -
Rizzossi e mi si fece innanzi con un'aria di profonda tristezza, ontosa di aver già troppo capito le mie balorde intenzioni e nello stesso tempo proprio decisa a sdebitarsi con me come meglio mi sembrava.
- Se vuol restare! - pronunciò quasi sottovoce; e l'accento rivelava tutta l'amaritudine di quel cuore piú, forse, sdegnato della mia bassezza che del suo avvilimento.
Parve mi avesse sputato in viso. Quella mia ebbrezza cessò ad un tratto.
- Oh! oh! - esclamai inorridito - perdono! -
E corsi in cerca del cappello per celarle il mio rossore e la mia estrema confusione.
Quelle tre brevi parole: «se vuol restare!» erano state pronunziate in modo da significare: «Vilissima creatura! Io volevo pagarti di gratitudine; volevo darti per sempre un nobile posto nel mio cuore! Se tu ora non hai saputo un momento esser diverso da tutti gli altri; se hai vista un'infelice e non sei stato bono di resistere alla tentazione d'insultarla; via, pagati pure la tua buona azione col possesso d'un istante! Dopo almeno avrò il diritto di disprezzarti come tutti i tuoi pari!»
- Addio! - le dissi senza nemmeno poterla guardare in faccia
Ella prese allora la mia mano e la baciò con effusione, esclamando:
- Grazie! Grazie! Quanto è stato generoso! -
Scappai via
Scendendo quelle scale e quando fui all'aria aperta, abbottonai con grande soddisfazione il mio soprabito; poi mi posi a camminare colla testa alta e col cuore in festa, come chi ha fatto il suo dovere.



III

FASMA



Fu un'apparizione fugace; pure ha lasciato nel mio cuore un'indelebile traccia. Di rado passan dei giorni che questo gentile fantasma non mi si presenti innanzi gli occhi e non mi faccia tristamente fantasticare. Una folla irrequieta d'imagini luminose e leggiere danza allora attorno a me come tratta via da un vortice che le mescoli, le mescoli e poi le riduca a una sola. La fisonomia, il suono della voce, i discorsi, i piú insignificanti gesti di lei prendono un carattere indefinibile di gioie negate, di desideri perduti nel vuoto, di speranze morte in un istante come una bolla di sapone; e una gran parte della mia vita vi si vede meravigliosamente riassunta, senza che io abbia ancora saputo intendere per qual segreta attinenza.
Chi era costei?
Non lo so; ignoro perfino il suo nome. Nulla può farmi credere che sotto ci sia stato un qualche inganno. Manca il motivo di sospettarlo: sii giudice tu stesso.
La vidi per la prima volta in Firenze, mentre scendeva da un legno entro il cortile della stazione della strada ferrata.
Era vestita di nero, con rara semplicità e con piú rara eleganza. Una borsa di cuoio russo appesa al braccio, un ventaglio e un ombrellino, ecco tutto il suo bagaglio.
Entrò sotto la tettoia con passo affrettato e s'indirizzò verso lo sportellino ove si distribuivano i biglietti.
Io le tenni dietro, guardandola attentamente; mi era parsa agitata. Una donna giovane, bella (oh, immensamente bella!) che mostra di essere colpita da un sentimento vivo e penoso, che viaggia sola, senza bagagli renderebbe curioso anche un santo.
Quando venne la sua volta ella chiese al distributore dei biglietti:
- Uno per Genova, prima classe.
- È piemontese - pensai, giudicando dall'accento.
- Uno per Empoli… prima classe - dissi io che m'ero introdotto dietro lei.
E quel «prima classe» venne da me pronunziato un po' spiccatamente, sia perché la risoluzione della scelta era stata improvvisa (viaggio sempre in seconda), sia perché proprio volevo ch'ella se ne fosse accorta. Voltossi infatti, secondo il mio desiderio, a guardarmi un istante, poi si allontanò lestissima per entrare in sala.
Avevo in pochi minuti raffazzonato un progetto: montare nel vagone ch'ella avrebbe scelto e tentar di appiccare conversazione con lei. Niente altro; un capriccio! Quelle poche lire di piú spese pel biglietto di prima classe mi sarebbero parse benissimo impiegate, se potevo entrare in discorso sul motivo del suo viaggio. La vera mia curiosità era questa: non dico la sola.
I sentimenti del cuore umano son cosí complicati che quando ci mettiamo a sbrogliarli non si arriva a finire. Sotto la pellicola di uno se ne cela un altro e poi un altro; e quello che a prima vista tu diresti il piú semplice, talvolta all'esame risulta il piú complicato.
Sotto la mia curiosità c'era naturalmente il piacere di poter contemplare per un'ora e cinque minuti il piú stupendo spettacolo della creazione, una bella donnina. Un paesaggio, con tramonto di sole o con chiaro di luna, è - non dico di no - qualcosa di magnifico a vedersi. Quando si ha quel vivo sentimento della natura che cogliendo ogni armonia, ogni perfezione di linee e di colori, ne traduce i segni materiali in sentimenti indefiniti; quando per una dolce illusione, che aggiunge incanto allo spettacolo, tu riversi addosso alla natura tutta la poesia del tuo cuore, mentre intanto ti figuri scaturisca da essa come da vergine ed inesauribile sorgente, è sempre la cosa inanimata che ti fa sentire e pensare; i tuoi sentimenti, le tue riflessioni son circoscritti e limitati nella loro stessa indeterminatezza.
Una bella donnina invece è tutto l'infinito e, se fosse possibile, qualcosa di piú. Qui la poesia che t'inonda non è un'illusione. La realtà supera qualunque sforzo di fantasia; quel corpo vive e pensa. O trovami un limite, se ti riesce!
Io mi tuffo in quest'immenso con una voluttà da non potersi dire; una voluttà sui generis, dove il sentimento dell'arte entra spessissimo per piú di tre quarti. Mi basta o un par di occhi, o un nasino, o una fronte, o una chioma di capelli, o due labbra, o una pozzettina del mento; giacché per via dell'umana imperfezione bisogna limitare anche l'immensità e contemplare tutto un po' alla volta.
Che problemi da risolvere! Che scoperte da fare! Sotto quella bellissima forma c'è un sangue che bolle, un cuore che palpita; c'è un'anima! Che vuol dire quel sorriso degli occhi? Quel movimento delle labbra? Quelle linee della fronte e del naso? E la voce? E quella ilarità cosí cordiale? E quei passaggi improvvisi dall'allegria alla tristezza? E quella malinconia profonda, congenita che sta fitta tra le sopracciglia e la pupilla e ti commuove ogni fibra?
Sotto la mia curiosità si nascondeva pure un altro sentimento.
Hai dovuto osservarlo. Talvolta fra te e una bella donnina passa qualcosa che non vien giustificato dalla sua sola bellezza; molte belle donnine non producono simile effetto. Vuol dire (è la fisiologia che lo attesta) che tra i due organismi vi sian rapporti materiali di piú intima natura, rapporti d'identità. Ci si guarda, la prima volta, come se ci si fosse conosciuti non si sa dove né quando. Se si dà il caso di potersi avvicinare, la franca corrente dell'intimità prende l'aire subito subito. C'è una confidenza reciproca, un abbandono che altrimenti rimarrebbero degli inesplicabili misteri; c'è, non di rado, la fatale necessità da cui nascono quelle invincibili e spesso tragiche passioni che gli sciocchi battezzano con una comoda parola: mattezza!
Questo sentimento, che vo' chiamar fisiologico, io lo avevo già provato in quel punto Per dire piú esattamente ne avevo avuto una sensazione indistinta; il sentimento sviluppossi piú tardi, un quarto d'ora dopo.
Nella sala di aspetto ella era andata a sedersi in fondo, presso il caffè. Con un gomito appoggiato al tavolo, colla faccia appoggiata alla mano, aveva preso un atteggiamento tristo e pensoso. Fissi gli occhi sul pavimento, guardava distratta, o piuttosto seguiva coll'occhio certi bizzarri segni che la sua destra tracciava idealmente sul marmo colla punta dell'ombrellino; ma il suo pensiero non era lí; se ne sarebbe accorto anche un cieco.
Sedetti rimpetto a lei, e cominciai a farmi intanto un mondo di domande a cui dovevo trovar poi le risposte. Fantasticare è una delizia.
Le si accostò Beppa la fioraia, e le porse un mazzettino di viole tricolori. L'incognita guardolla in viso come destata da un sogno, prese e pagò il mazzettino, poi ricadde quasi subito nel suo malinconico torpore, e le dita si diedero a sfogliare ad uno ad uno, con visibile sbadatezza, quei poveri fiori. In quest'atto non c'era, dalla sua parte, né rabbia né piacere; le dita agivano per conto loro. Infatti quando la campana dié il segno della partenza, ella si riscosse, guardò sorpresa i gambi rimastile in mano e le foglie sparse per terra, scosse la bella testina come per dire: oramai! E s'introdusse nell'imbarcatoio.
Corse difilato al vagone piú lontano e, credo, per calcolo. C'era molta probabilità di rimaner sola.
Lasciai che montasse.
Ella si affrettava a chiudere lo sportello, quando mi presentai io colla valigetta alla mano.
- Oh, scusi! - ella disse; e si trasse indietro e andò a sedersi al lato opposto.
- Scusi me - risposi, esitando qualche istante a salire.
- Faccia il suo comodo - ella soggiunse, vedendo che restavo incerto sul gradino.
Entrai e dopo aver riposto in alto, sulla reticella, la valigia:
- Son dolente - ripresi con una di quelle piccole ipocrisie a cui siamo tanto abituati - son dolente di averle forse tolto il piacere di rimaner sola. Ma la colpa non è mia. Quest'amministrazione delle strade ferrate va cosí male! I vagoni non son mai in numero sufficiente.
- Un vagone per due! - osservò ella sorridendo; - ci si può contentare.
Forse arrossii a questa ingenua risposta; certamente mi sentii mortificato.
Il convoglio frattanto aveva preso le mosse.
Come suol accadere in simili occasioni, il ragionare corse un po' intorno il bel tempo, le ferrovie, i viaggi, i compagni di viaggio; e a tal proposito le domandai di nuovo scusa dell'averla forse infastidita colla mia presenza
- Però - continuai - le darò noia per poco: mi fermo ad Empoli. E lei? (Ipocrita domanda anche questa).
- Ho preso un biglietto per Genova, tanto per avere uno scopo - ella rispose coll'involontaria loquacità delle persone afflitte da qualche sventura - Sento un gran bisogno di distrarmi: vorrei fuggire da me stessa. Già forse scenderò alla prima fermata e tornerò addietro Comincio a pentirmi della mia risoluzione. Ella è d'Empoli, credo?
- No, di Firenze Ho preso in affitto una villa a due miglia da Empoli, un punto grazioso e appartato. Conto menarvi due mesetti di vita eremitica, coi miei libri, s'intende. Tornai ieri a bella posta. Ho svaligiato il Bocca, il Bettini, il Paggi di tutte le novità francesi ed inglesi; romanzi, filosofia, critica letteraria, scienze naturali, una trentina di volumi: ne ho per un pezzo. Quando si è costretti a una certa vitaccia, due mesi di solitudine riescono proprio un ristoro. Ne conviene?
- Di certo. Ci ha giardino?
- Sí, un piccolo aborto andato cosí a male che fa pietà.
- Non le piacciono i fiori?
- Moltissimo: però a coltivarli ci ho poca pazienza -.
Parve pentita di essersi lasciata cogliere a questa conversazione. Si accostò allo sportello e diessi a guardare la campagna che fuggiva vertiginosa.
Io guardavo lei. Era bella! Quel che si dice bella, cioè della bellezza squisita che Bacone scrisse non esser mai tale senza una certa stranezza di proporzioni. Nessuno l'avrebbe detta una statua greca! Fidia certamente non le avrebbe fatto né quel nasino, né quel mento ma non per questo avrebbe avuto ragione. Quelle piccole stonature erano il meglio di lei! C'erano anche le labbra, due labbra tumidette, rosee, sensualissime, di una freschezza portentosa. C'era, a dir vero, anche la mano, bianca, con dita piccinine, con unghie perfette, non magra né pienotta, una cosa di mezzo da far strabiliare.
Io però badavo poco a tutto questo. Ciò che piú attirava la mia curiosità era il carattere, era l'anima di quella donna intravveduta pel sottile spiraglio delle brevi parole: «Vorrei fuggire da me stessa!» Che dramma doveva agitarsi nel suo cuore! Le si leggeva negli occhi.
- E quanto paga di fitto? - ella chiese rivolgendomisi improvvisamente.
- Cento franchi il mese - risposi; - però ci ho quasi tutti i diritti di padrone sulle frutta e sugli ortaggi, quanto occorre per mio uso, si capisce.
- Ed è lí?
- Da venti giorni
- Senza la famiglia?
- Coi fittaiuoli del posto, bravissima gente che non mi dà punto noia; ci han tanto da fare!
- Perdoni la mia curiosità - disse dopo un momento; - il caseggiato è ristretto?
- Anzi vasto; otto stanze, oltre la cucina, e una magnifica terrazza; poi cantina, stalla, rimessa, roba inutile per me -.
Stette un momento a capo chino, forse per raccogliere meglio i suoi pensieri; poi, quasi avesse (secondo quel che le frullava in testa) risoluto di no, tornò ad affacciarsi allo sportello e a guardare la campagna, come se nulla fosse stato.
Però io avevo cominciato a notare in lei una commozione nervosa che si accresceva di momento in momento. Quando le rivolgevo la parola, ella mi guardava in viso con una cert'aria da parere volesse far dei confronti, o rammentare qualcosa e aver dispetto di rammentare. La mia voce doveva particolarmente produrle un'impressione assai strana. Mentre parlavo, ella stava ad ascoltare come se avesse voluto udire qualche suono lontano, o pure scrutar qualcosa nel suono di essa.
Io mi smarrivo tra mille supposizioni, ma provavo intanto un gran piacere. Mi ero accorto (ci voleva poco) che non solamente non le riuscivo antipatico, ma che già si era tra me e lei sviluppato quel sentimento fisiologico di sopra accennato. Le confidenze potevano, dovevano venir fuori; tutto dipendeva dal sapervele attrarre.
Bene spese quelle poche lire! Avevo avuto una grande ispirazione, un vero colpo di genio! Io, si vede, non stavo a far il tirato nel lodarmi da me stesso!
- E, scusi, Dio mio! sono troppo importuna - fec'ella dopo un lungo intervallo di silenzio, durante il quale parve fosse tornata sopra la sua risoluzione negativa ed avesse mutato parere.
- Dica, mi fa un regalo.
- Sarebbe - continuò esitando - nel caso di cedere una parte, quella che gli farebbe meno comodo, del suo caseggiato? - A dir vero io non mi attendevo una simile domanda e la guardai fisso negli occhi.
- Ma, a seconda - risposi - Vi son delle persone alle quali non si può mai dire di no.
- A una sconosciuta non la cederebbe dunque?
- Perdoni, signora! Possono esservi delle sconosciute che si conoscono subito meglio di una vecchia conoscenza.
- È un epigramma?
- Me ne guarderei bene; né un complimento.
- Sia pure. La stranezza della mia situazione in questo momento potrebbe espormi anche a peggio. Che pensa ella di me?
- Oh, nulla di male, stia certa!
- Non dice la verità.
- Dico quello che penso, ma non credo d'ingannarmi. -
Non saprei significare che sorta di sentimento io provassi intravvedendo la possibilità di avere la bella incognita qual ospite della mia villa. C'era, non lo nego, da mettersi in sospetto ad una simile proposizione fatta cosí alla lesta. Ma quella gentile figura proprio impediva si pensasse male di lei Chè! Non era un'avventuriera; si vedeva da lontano un miglio! Doveva però essere o una donna molto strana e capricciosa, o una grande sventurata. Queste due ipotesi lusingavano la mia vanità. Della curiosità non è a parlare!
Io già ho avuto sempre un gran gusto per le cose impreviste. C'è tanta poesia! Anche quando si arriva, dopo molti stenti, al fondo e si pesca un granchio, a dir poco. L'imprevisto anzi è il mio forte. Figurati dunque se tremavo che la bella donna non si pentisse la seconda volta! Mi pareva un gran peccato.
- Non ardisco offerirle tutta la villa, per quel che posso disporne - diss'io vedendo ch'ella taceva tra irresoluta e peritosa; - ma se nessun'altra considerazione la ritenesse, mi farebbe veramente dispiacere a non accettare.
- Accetto - rispose con un impeto di franchezza, che mi piacque tanto - Ma, ad un patto! - soggiunse - Ella mi cederà metà, un quarto del caseggiato, come meglio le giova, ricevendosi anticipatamente la parte del fitto che mi spetta.
- Questo poi no - feci io un po' piccato - Tanto, il fitto non è piú da pagare, e, solo o con altri, val lo stesso.
Parve offesa delle mie parole, e un po' indispettita rispose:
- Non se ne parli piú. Già era una follia!
- Se questa mia sciocchezza - mi affrettai a soggiungere - dovesse impedirle di accettare, la ritenga per non detta; pagherà.
- È una follia! - ripetè l'incognita come parlando a se stessa.
Il convoglio si fermava.
- Empoli, chi scende! Empoli, chi scende! - urlavano due o tre impiegati della ferrovia
- Io m'impossesso del suo bagaglio - dissi arditamente, prendendo l'ombrellino e la borsa di lei
- No, no - rispose con un accento languido e irresoluto.
Intanto ero saltato fuori del vagone e le stendevo la mano.
- Che penserà di me? - disse fermata sullo sportello per guardarmi in viso, accompagnando queste parole con un'espressione di dolore profondo che il rossore delle sue guance modificava un pochino.
- Tutto il bene possibile - risposi; e le diedi braccio.
Non credevo a me stesso. Mi pareva di aver vinto la prima battaglia del mondo. I viaggiatori che scesero ad Empoli e ci squadravano curiosi già li scambiavo preciso con dei moscerini. Non credevo a me stesso, e la tenevo stretta sotto il braccio perché avevo paura del treno che non si decideva a ripartire. Che animale doveva essere quel capo-convoglio! Una fermata di un secolo! Volevo fare un ricorso. Quando udii il fischio della locomotiva e vidi il convoglio volar diritto fumando e strepitando, trassi fuori un sospirone che la fece sorridere; certamente aveva capito.
Mezz'ora dopo un fiàcchere ci depositava innanzi il cancello della villa, senza che nessuno di noi due avesse, dalla stazione fino a lí, pronunziato una sillaba sola. Pure, che vertigine avevo in testa! Quanti milioni di cose non mi eran passati pel capo; milioni, non esagero.
Lungo il piccolo viale che dal cancello conduceva diritto al caseggiato:
- È curiosa - dissi - che nessuno di noi abbia cercato di sapere il nome dell'altro. Mi presenterò da me, Oreste Lastrucci. Posso ora conoscere chi sia la mia gentile pigionale, giacché si vuole cosí? La sua fronte e gli sguardi si annuvolarono per qualche secondo. Arrestossi colla testa bassa e mormorò:
- Non ci avevo badato! -
Poi scosse una o due volte il capo e si rivolse a me sorridente dicendo:
- Che importa il mio vero nome? Me ne dia uno a suo piacere. Varrà lo stesso. Si ricorda? Giulietta diceva a Romeo:
What's in a name? That which we call a rose,
By any other name would smell as sweet.
- È vero - risposi subito - Però talvolta tra un nome e una persona c'è tale misteriosa relazione da sembrare che quella non avrebbe potuto chiamarsi altrimenti. Dargliene uno diverso spesso equivale a torle qualcosa di essenziale
- Non è il caso. Qui la persona è talmente insignificante - ella riprese sorridendo sempre con grazia infinita, che questo o quel nome non importerà nulla. Mi ribattezzi dunque… Sarà una stranezza di piú
- Fasma! Un nome greco - dissi improvvisamente.
- E significa?
- Apparizione, fantasma! Le torna a capello. Non è nuovo; il povero Dall'Ongaro intitolò con esso uno dei suoi piú gentili lavorini di soggetto greco.
- Questo volevo dire - ella soggiunse; - ne avevo un'idea confusa. E sia Fasma! - continuò; - mi piace. Cosí Oreste non stona. O i contadini che diranno? -
Questa interrogazione mi scosse. La moglie del fittaiuolo che ci aveva scoperti quando eravamo a mezzo viale, ci veniva incontro insieme alla figliolina, una bimba di sette anni.
- Passerà per mia sorella - diss'io alla Fasma; - non bisogna dar campo a sospettare. I contadini son la razza piú maligna del mondo.
- Anche questa!
- E permetterà che innanzi a loro ci diamo familiarmente del tu.
- Non se ne può far di meno - sclamò ella ridendo di cuore: - un passo obbliga all'altro -
La bimba volle caricarsi di una parte del nostro bagaglio; la fittaiuola mi tolse di mano la valigetta che pesava un pochino perché zeppa di libri, ed entrammo in casa.
- Prendi tutte le stanze che ti occorrono, le dissi (la fittaiuola era presente); due son sufficienti per me. Queste qui son le piú libere e le meglio esposte.
- Basta - rispose; - farò la scelta piú tardi -.
Non potè trattenersi dal ridere
- Ed ora pensiamo alla colazione - ripresi; - è la cosa che in questo punto mi pare importi il piú.
- Ci ho già pensato - disse la fittaiuola; - se voglion vedere...-
Infatti poco dopo eravamo seduti l'una rimpetto all'altro, con un monte di frutta, del burro, del cacio e delle uova davanti a noi.
La Fasma aveva perduto un po' di quella profonda tristezza che pareva la tormentasse. Non già che a volte non rimanesse tutt'assorta nei suoi pensieri e quasi straniera a quanto la circondava; però era ad intervalli che di mano in mano si andavan facendo piú brevi.
A tavola parlammo poco, ma con schietto buon umore. Avevo un magnifico appetito. Mi accade sempre cosí; quando son lieto divoro. E in quel momento ero piú che lieto, felice. Di che? Di nulla; di vedermela lí innanzi, di sentirla parlare, di riflettere che quella notte ella avrebbe dormito sotto il mio stesso tetto! Honni soit qui mal y pense!
Terminata la colazione, si affrettò a darmi innanzi tutto i venticinque franchi del suo fitto di un quarto di villa, piú altri cencinquanta pel vitto: io dovevo pensare a ogni cosa. Non ricusai, né rifiatai, perché sapevo di farle dispiacere. Dopo questo scendemmo a girare un po' pei campi. Voleva, come si dice, fare una ricognizione dei luoghi.
- Ella non smetterà le sue abitudini - mi disse per le scale; - mi farebbe pentire troppo presto di averla disturbata.
- In campagna - risposi - abitudini non se ne hanno. Si fa quel che piú piace. Gli alberi e le siepi sono d'una tolleranza e d'una discrezione a tutta prova -.
Ed infilammo una viottola.
La campagna era inondata d'una luce diversa e migliore di quella del sole? Io credo di sí. La bella figurina doveva senza dubbio proiettare invisibili raggi che mutavano la faccia delle cose. Le infinite e leggiere gradazioni del verde; le tinte vivaci dei fiori che brizzolavano qua e là, in tanti toni, l'aspetto fresco e vegeto dei campi; i susurri delle frondi; i mormorii delle acque correnti pei rigagnoli e zampillanti dai getti di una piccola vasca; i pigolii malinconici, i gorgheggi chiassosi degli uccelletti affaccendati alla cova su pei rami degli alberi; il profumo che imbalsama l'aria; le mille intime voci della natura sprigionantesi da ogni parte con impeto folleggiante ai bei ultimi giorni del maggio; ogni cosa aveva, per virtú di lei, acquistato un sentimento nuovo, un soffio di vita piú allegra. Le donne son maghe senza volerlo. Figurati lei!
Pure la Fasma appariva trista e quasi stizzita di quelle correnti di gioia che la indifferente Natura emetteva, senza curarsi d'altri, per proprio conto. Che so? Quel paesaggio non slontanavasi forse abbastanza pei suoi sguardi e pel suo cuore. Forse il posto non aveva un aspetto tanto diverso da qualch'altro che ella avrebbe voluto dimenticare. E cosí, mentre il piede s'inoltrava lesto, potrei dire affrettato, lungo le viottole o fra l'erba, la sua anima fuggiva, fuggiva chi sa dove e parlava agitata con se stessa. Le labbra infatti le si atteggiavano di quando in quando a un che da non potersi dire né un sorriso, né un'espressione di rabbia o di sdegno: qualcosa di straziante, d'immensamente doloroso; un pianto (sicuro, era proprio cosí) un pianto dell'anima. E intanto gli occhi brillavano a volte, lampeggiavano, parlavano quasi allo inverso. Io la guardavo stupito
- Strana la vita! - esclamò ella ad un tratto - Due che poche ore fa erano perfettamente sconosciuti l'uno all'altra, si trovano ora vicini, ospiti della medesima casa, in via di diventare forse amici. Domani la fatalità che gli ha riuniti li sbalzerà di nuovo per lati opposti, e verrà dí che torneranno ad incontrarsi senza nemmen riconoscersi.
- Impossibile questo! - risposi.
- La vita ha cose peggiori! - soggiunse tentennando il capo.
- Badi qui; mi dia la mano. Eravamo all'orlo di un ciglioncino ch'ella voleva saltare. La sua manina fremette nella mia mano come colta da brividi, e la lasciò quasi subito.
In questo punto due farfalle ci passarono davanti l'una inseguendo l'altra. Ella fermossi e, proprio stizzita, diessi a sparire coll'ombrellino quella che pareva inseguisse, il maschio probabilmente.
- Rissa di amore! - diss'io.
- Dica violenze - rispose, - violenze del piú forte.
- S'intende, l'amore è una divina violenza: per questo è una gran cosa -.
Guardommi con tal cipiglio che non potrò mai dimenticare. Parve meravigliata osassi ragionar dell'amore; me ne rimproverava cogli occhi.
- Ho detto male? - richiesi.
- No;… che vuole che io ne sappia! - rispose correggendo coll'esitazione quel suo primo slancio - Solamente…
- Prego, parli
- Solamente (badi, ve', è una mia opinione) io credo che gli uomini non abbiano diritto a discorrere d'un sentimento che non possono mai provare.
- Non possono?
- Certo. L'uomo non ama, fa all'amore.
- È una distinzione troppo sottile
- Ma verissima. Noi donne…
- Giusto quel che volevo domandarle!
- Noi donne invece, una sola volta in vita nostra (non piú) noi amiamo davvero. Pel resto, noi non si fa mica all'amore; viviamo dei bricioli di quel primo banchetto della vita. Se gli uomini se ne persuadessero! Già spesso non ce ne persuadiamo neanco noi stesse.
- È la teorica del primo amore portata all'eccesso - osservai ridendo.
- S'inganna - rispose - Ciò che comunemente dicesi il primo amore è una sensazione quasi animale, istintiva, e può indefinitivamente prolungarsi per diversi stadi della vita. Frequente è il caso che parecchi uomini nel cuor d'una donna rimangano, l'un dopo l'altro, sempre un unico primo amore. Creda, la donna è capace del vero amore soltanto nella pienezza del suo sviluppo, dai vent'anni ai venticinque.
- Quanta poesia ella mi ammazza!
- E c'è peggio - continuò con arguta malizia - Non tutte le donne possono amare: fra cento, appena due!
- Qui bisogna intendersi - dissi - sul preciso significato che si dà alla parola.
- È un significato che non si spiega, s'intuisce. Noi donne lo comprendiamo quasi tutte. Che discorsi, non è vero? Mentre si ha dinanzi gli occhi una cosí bella campagna, con questa magnifica giornata, con quell'usignuolo tra i pioppi che gorgheggia divinamente! -
E corse, mutata d'un subito, alla fonte lí presso.
Il capelvenere rivestiva per intero la rozza muratura fatta a proteggere l'acqua dalle frane della collina; gli acanti vi crescevano rigogliosissimi alla base colle loro larghissime foglie frastagliate, riverse a guisa di capitello; e i lati venivano protetti da una siepetta di rovi fra cui si erano intrecciate certe campanule a fiori bianchi e grandi che non so come vengan chiamate dai naturalisti, né mi importa saperlo.
- Com'è bello qui! - disse; e tuffò nell'acqua le mani per spruzzarsi un pochino il viso con bizzarria fanciullesca.
Avessi tu visto che incanto! Che capolavoro di quadretto non avrebbe potuto farsi con quel piccolo sfondo verdeggiante e pieno di ombra e la sua gentile personcina ritta in piedi innanzi la fonte, cogli occhi chiusi e il capo riversato all'indietro, nell'atto che riceveva la fresca e cara impressione dell'acqua spruzzata!
Meravigliato piú che curioso, fermato a dieci passi di distanza, io domandavo intanto a me stesso: - Ma chi è costei che cita Shakespeare in inglese, ragiona dell'amore con tanta sottigliezza, e prende in affitto il quarto d'una villa dove sa doversi trovare sola a solo con un uomo ch'ella ha visto ora per la prima volta? Non sapevo che rispondere. Vi era tanta semplicità, tanta franchezza in quel suo fare, dirò anche tanta imprevidenza, che invece di sospettare qualcosa intorno a lei, io provavo verso la bella creatura un sentimento di rispetto e di tenerezza quasi protettrice, e la ringraziavo in cuor mio.
Questo sentimento somigliava l'impressione provata alla lettura di una di quelle serene e meravigliose pagine che Omero fra gli antichi e Goethe fra i moderni ebbero, quasi soli, la fortuna di poter scrivere: né piú, né meno. Infatti, per una strana associazione d'idee, io mi sentivo mulinare nel cervello:
Come vider venire alla lor volta
La bellissima donna i vecchion gravi
Alla torre seduti…
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
… Essa all'aspetto
Veracemente è Dea!
E ci mancava poco non mi stizzissi di quella pedanteria fuori stagione.
- Fuori proposito, anzi! - riflettevo alle dieci di sera, quando ella si era già ritirata nelle sue stanze, ed io appoggiato sul davanzale della finestra, col sigaro acceso, riandavo i menomi avvenimenti della giornata.
Poco prima avevo visto lí, sullo spianato, la famiglia dei fittaiuoli mangiar la minestra all'aria aperta; gli avevo sentiti calmi e alla buona ragionare di bestiame, di agli, di polli, di grano turco, di una piccola tirchieria del padrone, di tutto il lor mondo. E osservando la massaia belloccia un tantino, pulita, di un carattere mite e sottomesso, ero stato naturalmente tratto a confrontare le due vite, quella della Fasma e di lei, le due anime, i due cuori. Che differenza! Che sproporzione! E le mie simpatie non erano mica per la massaia, la donna all'antica, ma per la nervosa, per l'agitata, per la tormentatissima Fasma. Ecco perché dicevo che i versi di Omero mi eran venuti in mente a sproposito. Tra Elena e Fasma non ci scorgevo rapporto di sorta e irriverentemente concludevo: - Elena! Elena! È la massaia! -
Suonava la mezzanotte all'orologio di Empoli che nel silenzio notturno si sentiva benissimo fin là. Quei cento tocchi picchiati e ripicchiati cosí solennemente che dominavano cupi e lontani lo stormire delle frondi, il canto di alcuni grilli e il gracidare di qualche rana, accrebbero il senso d'indefinita malinconia e di sconforto, la quasi voglia di piangere che mi opprimeva in quel punto.
Quel fantasma vivente ne aveva già richiamati due altri che da un pezzo non mi si erano piú presentati alla memoria, o, se si erano, n'erano stati facilmente scacciati via. Ricordi lontani e recenti, immenso tesoro di aurei sogni, di grandiose speranze, di desideri ardentissimi, di dolcezze, di possessi, di dolori, di smanie, di disperazioni, quanto aveva insomma influito piú che ogni altra cosa sulla mia vita, e modificato l'anima e il cuore con indelebile stampo; tutto mi si era rimescolato nella memoria dietro quei due fantasmi di donne!
- E questo qui? - mi domandavo inquieto
E tornavo a fantasticare, a creare colla rapidità dell'elettrico dei veri romanzi onde spiegarmi l'enimma della giovane donna che forse, certo fantasticava alla sua volta tre stanze piú in là della mia
- L'amerò? - insistevo finalmente a domandarmi - l'amerò? E facevo e rifacevo un rigoroso esame di coscienza; però conchiudevo sempre di no. Non sapevo capirlo; ma c'era un che da cui mi veniva interdetto il sentimento preciso dell'amore: una forza repulsiva, un fluido misterioso (benefico o malefico, chi avrebbe potuto giudicarlo?) che mi teneva, come suol dirsi, a rispettosa distanza da lei. Ed io ora mi consolavo di questo, ora me ne sentivo un po' offeso; infine avevo trent'anni!

Il giorno dopo ella volle dei libri. Li scelse da se stessa, l'Ernesto Maltravers del Bulwer, i Nouveaux contes fantastiques del Poe, tradotti dal Baudelaire (due libri agli antipodi l'uno dall'altro) e stette quasi tutta la giornata nella sua stanza, ove io non osai andare a disturbarla.
Però dal finestrino di un piccolo andito potei, non visto, osservarla a lungo: leggeva a sbalzi. Sdraiata sur una poltrona, si lasciò due o tre volte cadere il libro di mano e non lo riprese che dopo un pezzo. Era il libro che slanciava quell'anima irrequieta dietro le visioni del passato, o incontro alle incerte nebbie dell'avvenire: o non aveva esso tanta potenza da impossessarsi completamente dell'attenzione di un cuore rigoglioso e travagliato dalla stessa sua forza, che pur tentava forse dimenticare il passato, forse dominare le fatalità del futuro?
A volte ella si levava, con uno scatto, da sedere; passeggiava su e giú per la stanza, ora rapida, ora lenta; poi si fermava colla testa bassa, colle braccia alzate in avanti e le mani aperte, quasi avesse voluto impedire a certi ricordi di accostarsi alla sua memoria, e restava in quell'atteggiamento per piú secondi; indi rimettevasi a leggere.
Verso le quattro pomeridiane scese in giardino e diessi a ripulire i fiori, ad annaffiarli, facendosi aiutare dalla fittaiuola. Mi affrettai a raggiungerla e fui molto sorpreso di non trovarle sul volto nessuna traccia di quell'agitazione interna della quale ero stato spettatore (per quanto dalle umane azioni si possa indurre con certezza i sentimenti e i pensieri).
La sua fronte era serena, d'una serenità verginale, illuminata dal tranquillo splendore della pupilla e da quello del suo sorriso; giacché il suo sorriso ora splendeva ed ora scintillava: almeno a me mi faceva quest'effetto. Vi era nel suo gesto una calma gentile; e dal suono della sua voce erano affatto sparite quelle vibrazioni tremule, imperiose, che davano alla parola un'espressione altiera, imponente, efficacissima.
- Questi poveri fiori! - disse vedendomi: - perché farli nascere e poi lasciarli morire di sfinimento?
- Crede ella che si accorgano di soffrire? - risposi.
(La fittaiuola si era allontanata per riempire d'acqua l'annaffiatoio)
- Non lo so - replicò - ma infine non mi pare una bella cosa. Io però ritengo che tutto soffra nella natura quando gli vien meno ciò che dovrebb'essere il suo alimento, il suo sostegno; l'anima, come il sasso: non vive ogni cosa?
- Sí; ma non ogni cosa ha la coscienza di vivere.
- Soffre meno forse; ma noi, per questo, restiamo meno cattivi? E continuò attentamente, con pazienza proprio materna, a levar via qua delle foglione riarse, là delle erbucce parassite; qua a smuovere la terra, lí ad accostarla piú al ceppo, rimondando, ripulendo, strappando; e i fiori pareva la ringraziassero quando il venticello gli agitava.
- Sa? - riprese dopo un pezzetto; - ho dovuto dire una bugia.
- Grossa? - feci io, sorridendo.
- Piccina, a dire il vero. La fittaiuola mi ha domandato come non avessi, benché sua sorella, l'accento toscano.
- Va'! Le bugie hanno le gambe corte. Ed ella ha risposto?
- Lo supponga. Sono stata lungamente fuori casa, maritata in Piemonte. Son vedova adesso.
- Una bugia veritiera?
- Ecco! - esclamò con gesto di rimprovero - lei rompe i patti. Ieri sera si fissò che nessuno dei due dovesse chiedere all'altro indicazioni di sorta sul passato; dovremmo prenderci per quel che si apparisce, due piovuti dalle nuvole.
- Ha ragione. Mi mordo la lingua -.
Quest'incidente bastò per turbarla. Lasciò in asso i suoi fiori, portò una mano alla fronte e voltommi le spalle avviandosi a manca, pel piccolo viale delle acacie. Fatti alcuni passi però si rivolse addietro e mi chiese:
- Non vuoi venire?

Passarono cosí parecchi giorni senza che il mistero di quella donna si chiarisse per nulla, ma non senza che la nostra famigliarità non divenisse piú intima e piú espansiva
C'era in quel carattere un po' del giovinotto e del virile, mescolato a quanto di piú finamente femminile possa trovarsi in una donna; ed io a poco a poco avevo, conversando, perduto il ritegno di toccare con lei certi soggetti scabrosi. Ci mettevo, è vero, tutta la delicatezza, tutto il pudore possibili; ma ritenevo anticipatamente ch'ella non avrebbe mai fatto la contegnosa fuori proposito. Mi pareva all'inverso, che il suo carattere elevato la dovesse difendere da qualunque bassezza. Infatti non c'è che le donne nobili di cuore e di mente per non arrossire di nulla in conversazione e tollerar quasi tutto.
Dopo due settimane ella veniva piú frequente nella mia stanza. Era un raggio di sole! Un nugolo di sentimenti vaghi ed incerti, di desideri confusi ed inestricabili, di dolcezze indovinate e non assaporate, le quali si eran lasciate dietro la smania di gustarle fino all'ultima goccia, turbinava, turbinava a guisa del pulviscolo dell'aria in quel soavissimo raggio, ed io me ne sentivo rischiarato fin dentro i piú ciechi nascondigli del cuore.
Ella si affacciava sorridente, esitando; spesso rimaneva a lungo fermata sull'uscio e poi si slanciava nella stanza con un piccolo salto. Voleva non mi levassi da sedere, né lasciassi l'occupazione che avevo per le mani; ed ora veniva a guardarmi a scrivere o a leggere e si appoggiava alla spalliera della mia sedia per dar un'occhiata al libro in lettura; ora andava attorno lesta come una rondine, mettendo in assetto ogni cosa, garrendomi del disordine seminato dappertutto.
- Facciamo un po' gli uffici di buona sorella! - diceva ridendo; e la luce del suo sorriso, direi anche il profumo della sua persona restava impresso e attaccato su qualunque oggetto ella toccasse. L'orma del suo piedino mi pareva vederla luccicare sul pavimento come del fosforo stropicciato.
- Sa - le dissi un giorno - che io finirò coll'innamorarmi pazzamente di lei?
- Non ha ancor cominciato? - rispose; - sarà troppo tardi!
- Per amare non è mai tardi - replicai un tantino punto sul vivo dal suo tono frizzante.
- Faccia presto, per carità! - continuò sullo stesso tono.
- Ma è proprio cattiva! - esclamai.
- Anzi troppo buona, mi pare. Cred'ella d'avermi fatto un bel complimento dicendomi che finirà coll'innamorarsi pazzamente di me? Quando un uomo non s'innamora, cioè, non sente la voglia di far all'amore a prima vista; quando può rivedere una donna, parlarle impunemente per due settimane e dirle infine scherzando: «Quasi quasi commetterei la sciocchezza di far all'amore con lei!» pretenderebbe forse che la donna gli dovesse rispondere: «Oh, grazie!» e gettarglisi al collo? Siete capaci anche di questo voialtri! Si metta in collera, via! -
Rimasi di stucco a quest'uscita. Ella si accorse del mio imbarazzo, e mutando intonazione, mentre rassettava sul tavolo le carte ed i libri, continuò senza guardarmi:
- Stia tranquillo; non mi amerà! -
E la sua voce tremava alquanto.
- Chi glielo assicura? - feci io, rinfrancato.
- Il mio cuore - rispose - Se non avessi questa certezza, capisce?, non rimarrei qui -.
La sua gaiezza sparí ad un tratto, e poco dopo ella andò via dalla mia stanza, piú che stizzita, turbata.
Quai ricordi, quai dolori, quali passioni le avevo destati nell'anima con quelle parole? N'ero tanto piú dispiaciuto, quanto piú convenivo ch'ella avesse ragione. Non l'amavo; era cosa certa: non mi sentivo tratto ad amarla. Avevo sbadatamente parlato a quel modo. Ella mi piaceva immensamente, mi inspirava un rispetto illimitato, misto ad un senso di compassione profonda: qualcosa che so io? di religioso, di superstizioso, di fanciullesco; amore, no di sicuro. Perché? Ecco il problema che non mi era riuscito di risolvere, e me lo ero messo innanzi piú volte. Avrei dato un occhio perché fosse stato diversamente. Vanità, sciocchezza o altro, mi attristavo di non amarla e di non esserne riamato. In quel cuore (non occorreva un gran sforzo) scorgevo sepolti inestimabili tesori di affetto, d'ingenuità, di sacrifici, di pudiche debolezze, di care fantasie, di nobili sdegni, di tenerezze quasi violente; non mancava uno solo di tutti i divini elementi onde la natura e la civiltà traggono fuori la sublime creazione della donna moderna: e mi pareva di doversi ritenere per fortunato davvero chi avesse potuto dire con piena coscienza: «Quel cuore mi appartiene!» Perché non dovevo esser io? E se non l'amavo, non avrei potuto amarla fra qualche giorno, fra una settimana, ed esserne riamato? Il cuore intanto, testardo! rispondeva sempre di no.
Ella però dimostrò, nei giorni appresso, voler quasi compensarmi di questa privazione con un mondo di gentilezze, di attenzioni cortesissime e cordiali che avevano il lor pregio e soddisfacevano in alcuni momenti le piú strane esigenze dell'amor proprio.
Potei sorprendere nei suoi sguardi, nel suo accento, nei suoi discorsi certi lampi di abbandono inusitati, involontari, che mi diedero i brividi. Giacché a volte, curiosa questa! provavo paura di essere amato da lei. La sua forza mi avrebbe sopraffatto; non sarei piú rimasto lo stesso! E rifuggivo da un amore in tal guisa. Avrei, all'opposto, voluto foggiarla a modo mio: cosí soltanto potevo meglio assicurarmene il possesso. Ma era un'assurdità! Pure! D'allora in poi ripetetti piú volte quel «pure!» pieno di tante cose; mi lasciai lusingare.
La vedevo di giorno in giorno venir a me con delle concessioni piú larghe. Erano atti, gesti, occhiate, bizzarrie, motti lanciati a mezzo, che indicavano evidentemente un segreto lavorio del suo cuore, un'effervescenza che non poteva piú venire padroneggiata dalla sua energica volontà; qualcosa piú forte di lei. Ma quando mi ero illuso un pezzetto, mi accorgevo da lí a poco che avevo torto. Il segreto lavorio, l'effervescenza, l'abbandono erano dei fatti da non potersi negare; ma tra questi sentimenti e la mia persona non ci scoprivo finalmente relazioni di sorta. Intravvedevo un sottinteso; ero, che dire? Un pretesto. E siccome sentivo avvilirmi troppo da quest'idea, correggevo: un capriccio. Ci scapitavo in tutti e due i casi e tornavo di bel nuovo, e di proposito, a illudermi.
In alcuni momenti il suo fascino diventava proprio immenso. Sentirmi avviluppare e compenetrare da quella malia era una delizia indicibile che, sopratutto, veniva dal suono della sua voce molle, velato, con la greca rotondità vantata da Orazio, che io non avevo capito fino a quel punto: la quale non era soltanto nel suono delle parole, ma nelle cose ch'esse esprimevano, in un'armonia che non si apprende.
E poi quel suo carattere a sbalzi! Quei passaggi inattesi! Quei contrasti cosí strani che pur riuscivano cosí naturali, perché venivano da lei!
Io mi stancavo a seguirla in tutte queste rapide trasformazioni, in tutti questi nuovi e sorprendenti avatara del suo cuore ch'ella spiegava forse ad arte innanzi i miei occhi sbalorditi, e mi davano le vertigini. Non c'ero abituato; scotevano troppo e, infine, perché? Non dovevo piuttosto rimanermene passivo, indifferente, in guardia (se cosí volevo) e lasciar fare? Non provavo anche in tale situazione un piacere squisito? Che andavo di piú cercando? Ma il «pure!» ecco, veniva a galla insistente; il filtro della Fasma operava. Le mie illusioni diventavano piú lunghe, piú frequenti; non osavo toccarle con la punta di un dito per tema di non vedermele volar via a stormo, come degli uccellini spauriti. Ella mi guardava in un modo! Mi sorrideva con tal'espressione! Finalmente non ero mica di marmo! L'illusione fu completa. Mi credetti amato davvero! Chi non l'avrebbe creduto?
Un giorno ella venne nella mia stanza, col volume del Poe. Scrivevo una lettera di affari; la pregai mi scusasse. Appoggiossi al davanzale della finestra, colle spalle rivolte alla campagna, e continuò la sua lettura.
Di tanto in tanto non potevo far a meno di levare gli occhi dall'uggiosissima lettera per contemplare quella bella figura illuminata dai lievi riflessi della luce che venivano di fuori. Una o due volte i nostri sguardi s'incontrarono: sorridemmo a vicenda.
Quand'ebbi terminata e suggellata la lettera, la Fasma mi parve talmente assorta nel libro, che non volli disturbarla. Stesi la mano ad un volume arrivatomi fresco fresco la sera innanzi, l'Eva del Verga, ripresi anch'io la lettura interrotta e fui legato alla mia volta Quel volumetto, si sa, proprio divora il lettore: ella me ne aveva parlato Ma in quel punto le mie sensazioni non provenivano soltanto dalla schietta bellezza del libro. L'imaginazione traduceva, interpretava, a modo suo quelle pagine appassionate. Eva e Fasma si confondevano bizzarramente: non le discernevo piú. L'opera dell'artista toglieva ad imprestito dalla realtà; la persona vivente dall'opera d'arte; e qualche volta sparivano tutte e due perché io le avevo lasciate chi sa dove? molto indietro, e mi ero lanciato alla ventura entro una vaporosa immensità tutt'ombre e splendori, tutta musiche e profumi, l'immensità dei sogni ad occhi aperti, e stentavo a rivenirne.
Infatti non mi accorsi che la bella Fasma si era pian pianino accostata e che, posatami leggermente una mano sui capelli, china col viso fin sulla mia spalla, osservava curiosa qual libro leggessi.
- Eva! - esclamò con stizza improvvisa, strappandomi il libro di mano.
Il libro, sfogliandosi tutto, era volato in un canto.
- Perché? - chiesi stupito.
- Perché quel libro è cattivo! -
Credetti accennasse al falso concetto della moralità di un'opera d'arte che è in voga fra noi.
- Sono forse una ragazza? - le domandai ridendo.
- Non dico questo - rispose - È cattivo perché quell'Eva par viva e commove ed interessa e si fa amare come a una vera donna riesce di rado. Che infamia è l'arte! Possiamo noi entrare in lotta colle sue creazioni, con la sua potenza che spoglia la realtà da ogni triviale bassezza, da ogni accidentale stonatura e la rende immortale? Ma, quando vi siete montati la testa con tali visioni degne dell'oppio e dell'haschich, che ci rimane a noialtre infelici colle nostre debolezze, colle nostre miserie? Come ispirarvi interesse, compassione, amore? È una lotta disuguale: la donna colla Dea, e la povera donna soccombe! Che infamia è l'arte! Per un minuto di effimera consolazione spreme anni intieri di pianto. Il suo male non è ciò che dice, ma quel che non dice e costringe a supporre e a indovinare. Allorché questa morbosa facoltà si è sviluppata (e la si sviluppa tosto) il suo potere non ha confini; l'ebbrezza stimola all'ebbrezza. Quelle raggianti figure ch'essa evoca col potere della sua magica bacchetta passano gloriose e trionfanti innanzi ai vostri occhi e li fanno tremolare di sensazioni vivissime. Che siam noi rimpetto ad esse? Volgari, meschine, spregevoli ombre e, sopratutto, noiose, noiose all'eccesso! Qual terribile confronto! Ecco; ella guarda ancora il libro buttato lí e tenta, forse, ricostruirsi l'illusione che gli ho rotta. Ecco; non mi bada nemmeno!
- Ma no! - esclamai, levandomi dalla sedia e tentando di trattenerla per la mano.
Era scappata via come un lampo.
Dapprima, lo confesso, avevo creduto scherzasse; ma dall'accento compresi a un tratto ch'ella diceva davvero. Divenuta pallidissima, le sue labbra tremavano agitate, frementi: già pareva fosse lí lí per dare in uno scoppio di pianto.
- Mi ama! - dissi con superba compiacenza; - gelosa fin di un fantasma! Nessun critico aveva fatto a quel libro un elogio di tal sorta.
Mi lasciai tutto di un pezzo cader sulla seggiola e stetti lí chi sa quanto! Assaporandomi a centellini la sublime scoperta. Perché intanto non l'amavo anch'io?

Verso le cinque pomeridiane cadde quel giorno una delle solite pioggerelle del maggio, e l'aria ne rimase cosí rinfrescata da non permetterci affatto la nostra passeggiata serale.
La bella Fasma, del resto, non si fé' mica viva. Volevo questa volta picchiare due colpetti al suo uscio (omai me ne riconoscevo tutto il diritto); pure non mi parve conveniente: montai sulla terrazza.
Il vento aveva disperso qua e là le nuvole che, ridotte leggiere e trasparenti come tante ondate di fumo bianchiccio ai raggi della luna, facevan l'effetto di slontanare piú e piú l'azzurro cupo del cielo seminato di stelle. Dai prati attorno levavasi un fresco sentore di humus piacevolissimo, una vera sensazione della vita della natura, la quale pareva godesse coi suoi mille esseri affollati pei campi e pelle colline i dolci sogni della sua lieta giovinezza, dei veri sogni di amore. La campagna infatti spiegavasi lí innanzi scura, con ondulazioni diverse, con linee larghe, con masse immense, imponenti, nel fondo. Era come accovacciata e ripiegata su se stessa; rifiatava appena, sotto una pioggia di pulviscolo argentato cadente dall'alto quasi a proteggerne il sonno
Stetti lí circa fino alle due dopo la mezzanotte, col capo scoperto, incurante del freddo e del sonno, incurante spesso anche di pensare; immerso nell'onda dolcissima di un piacere senza nome, di una sensazione tiepida, snervante, che finiva col tormi la coscienza del mondo e di me stesso; e la mattina ero in preda d'una fiera emicrania; tolleravo appena la piú debole luce; tenevo a stento gli occhi aperti.
Mi ero, la notte, buttato vestito sul letto; e in tale stato ella trovommi verso le nove della mattina, quando, aperto lievemente l'uscio, chiese a bassa voce:
- Si sente male? -
Non ebbi la forza di darle subito una risposta; sicché ella accostossi premurosa sulla punta dei piedi al mio letto, e, vedendo ch'ero desto, tornò a domandarmi, questa volta:
- Ti senti male? -
Benché mezzo stordito capii la forza di quel «ti» e apersi gli occhi per ringraziarla con uno sguardo e con un sorriso. Nel tempo stesso m'impadronii di una sua mano e l'accostai alle labbra.
C'era qualcosa di nuovo, di sorprendente in lei, come un'effusione, uno straripamento di affetto che si versava dalle pupille tremule e imbambolate di tenerezza. Non avevo mai udite tante carezze nel suono della sua voce, né mai veduto tanto abbandono nel suo gesto.
- Ti senti male? - replicò per la terza volta con accento ognora piú affettuoso e piú carezzevole, chinando il viso presso il mio.
Tenni chiusi gli occhi. Sentivo il tepore della sua pelle e il suo respiro, e non osavo rispondere per paura di rompere colla mia voce quell'incanto. La sapevo cosí bizzarra, e cosí strana!
- È la mia solita emicrania - risposi finalmente per non tenerla piú sulla corda.
- Hai medicine? - tornò a domandarmi.
- Sí, ho preso il guarana. Passerà. Vorrei star peggio e averti sempre vicina! - soggiunsi dopo E ribaciai la sua mano.
Ella mi posò lievemente le labbra prima sulla fronte, poi sugli occhi, poi sulla bocca (e qui ve le tenne piú a lungo) Fece cosí due o tre volte, sempre lievemente, toccando appena la pelle come per non farmi male. Io mi sentivo guarire. Non erano mica baci quelli lí, erano qualcosa di meglio; una dolcezza nuova, ineffabile che, se non mi guariva, mi avrebbe ucciso. Il dover ristorare, ravvivare i nervi sofferenti e intorpiditi dimezzò la loro potentissima azione, e fu bene davvero.
La stanza era al buio. Verso la parte del letto veniva di rimbalzo la poca luce di mezz'uscio aperto e copriva tutta la sua persona, facendo luccicare le pieghe della sua veste di faglia nera con riverberi smorzati. Il suo volto specialmente era illuminato per intero; ma piú che da quella, pareva lo fosse da una luce sua propria, da uno sprigionarsi d'atomi brillanti dalla pelle e dagli occhi che le svolazzavano attorno.
- Mi ami dunque? - le chiesi attirandola verso di me col braccio che le cingeva il busto
Liberossi improvvisamente dalla mia stretta e balzò in piedi. Impaurito di quell'atto sorsi anche io sul sedere. Sorrise, mi porse le due manine, e guardandomi fisso in volto, con un'indefinibile civetteria che era nell'accento, nel sorriso, nell'atteggiamento, in ogni cosa, domandommi:
- Che piú ti piace di me?
- La bocca - risposi
Aperse gli occhi quasi atterrita, lasciò cadere le braccia e ripetè macchinalmente:
- La bocca! La bocca! -
Era pallida: tremava. Io non capivo davvero. Che mai potevo aver detto di male? E per stornarla da quell'impressione mormorai nuovamente:
- Mi ami dunque?
- Dio mio! - fece ella portando, con acuta espressione di dolore, le mani al suo volto.
E scappò via.
- Fasma! Fasma! - le gridai dietro, ma invano.
Avevo avuto torto. Che importava quella domanda? Non era anche troppo ch'ella mi facesse evidentemente capire ciò che io volevo confessato dalle sue labbra? Perché tormentarla? Perché quasi avvilirla innanzi a se stessa esigendo un'inutile conferma del mio trionfo?
Fosse l'emozione o il guarana, l'emicrania era sparita. Saltai giú dal letto, apersi le imposte e la improvvisa inondazione della luce (il sole era in alto) mi giunse incresciosa.
Colle ombre amiche e discrete parve s'involasse dalla stanza la miglior parte delle dolcezze poc'anzi provate, e quando colla superstizione di un contadino richiusi le imposte, credetti sentire dei lievi e ironici cachinni dietro i cristalli, al di fuori. Erano le fuggite impressioni che si facevano beffa di me.

Mi son chiesto piú volte perché l'amore si compiaccia volentieri di ombre e di mistero.
Dei sentimenti che tu hai tenuto lunga pezza nascosti, che ti son montati piú volte a fior di labbra e gli hai ricacciati indietro, sdegnoso persino di confessarli a te stesso, in un luogo appartato e privo di luce, ecco ti sgusciano dal cuore senza ritegno, senza che tu te ne accorga, e il cuore si sente come levar una macina di addosso.
Affare di nervi o m'inganno!
La luce irrita, mette in attività, distrae le cento forze dell'organismo, e l'amore, questo terribile autocrate, non può tollerare che una menoma parte dell'attività vitale sia impiegata altrimenti quando esso governa. Innamorati, cerchiamo perciò la notte con indomabile istinto. Un bacio dato allo scuro val piú di mille baci scoccati sotto i giocondi testimoni dei raggi solari. Una parola sussurrata senza che si veggano le labbra dalle quali ci viene, dice un mondo di cose che tu non trovi nella stessa parola pronunziata di giorno da due labbra stillanti dolcezza.
Consigliati forse da quest'istinto, la Fasma ed io ci evitammo, quel giorno, a vicenda. Le imposte delle nostre stanze rimasero chiuse; desinammo alla meglio, ognuno per proprio conto; ed io mi rimisi a letto e guardai per delle ore il soffitto, da cui mi brillava nella mente certo rosone di fiori stranissimi osservato altre volte, il quale intanto serviva di pretesto a dei soavi pensieri
Levatomi dopo il tramonto apersi l'uscio e le imposte, attesi con impazienza di sentire il fruscio della sua veste nella camera attigua, e quando fu il momento sporsi fuori il capo ad interrogare l'espressione del volto di lei.
Era di una tristezza rassegnata, una tristezza di amore però e di nient'altro; si vedeva.
Le andai incontro, le strinsi la mano senza dire un sol motto; e indovinata la sua intenzione d'uscire all'aria aperta, le accennai si avviasse.
- Che stupenda serata! - diss'ella scendendo lenta le scale.
All'orizzonte il cielo somigliava un lago di purissimo verdemare con spuma di oro lucente Su quei spruzzi di nuvole, su quei vapori crepuscolari la luce del sole tremolava di mille riflessi sempre cangianti che smorivano chiari, con bellissimo effetto, sulle linee nette e frastagliate dei colli, e in alto con dei toni di azzurro sempre piú densi e piú cupi, di tale trasparenza e di tale unità da far disperare qualunque artista.
L'aria agitata leggermente da un venticello vespertino, fresca, asciutta, profumata da odori indistinti, avviluppava il corpo e lo penetrava con una sensazione di ristoro efficacissima; lo rendeva una piuma.
La campagna aveva sussurri, gemiti, mormorii, rumori vaghi, canti interrotti di galli, trilli sommessi d'insetti, agitar d'ali impercettibili, rosicchii continuati, affacendamenti misteriosi, abbaiare di cani, tintinni di campane di bestiami lontani; e poi quell'intiera, indefinibile, fremebonda corrente di vita da cui son legati assieme tutti gli esseri, per cui si sente il pensiero umano e nell'insetto e nella fronda e nella roccia immobile e tranquilla.
Oh, c'era davvero piú di quanto occorresse!
Le nostre mani, ricercatesi di accordo, si erano avviticchiate avidamente e si premevano forte. Procedevamo commossi cogli sguardi slanciati per l'immensa campagna, senza sentir bisogno di dirci una breve parola, fermandoci di quando in quando per scambiarci un bacio interminabile ch'ella era la prima ad interrompere, esclamando sottovoce:
- Mio Dio! -
Pareva che quella felicità la facesse soffrire.
Io intanto avevo stizza di non soffrire a quel modo. Non ero evidentemente neppur felice a quel modo!
Sopraffatta da un impeto di passione selvaggia, stordita, concentrata in sé, fremente per tutta la persona con spasimo lieve, ella lasciavasi in pieno abbandono delle mille sensazioni onde era dominata ed oppressa, anzi procurava di raddoppiarne l'effetto: e ciò che io chiamava soffrire ne era proprio il colmo, il loro estremo valore.
Quel pieno abbandono, quel dimenticare me stesso a me, invece, non riusciva. Provavo un piacere dimezzato. Vedevo insistentemente la mia immagine sorridere ed agitarsi nel suo piccolo cuore: ma la vedevo preciso come un'immagine riflessa sul nero della camera oscura. Attraverso quell'immagine, che pur sembrava solida e vivente, ne passava sovente un'altra che non potevo discerner bene, la quale la avvolgeva, le si sovrapponeva formando una strana confusione, e infine le spariva dietro come se vi si chiudesse dentro e l'animasse e le desse il moto Appunto per questo ora non ripetevo piú la sciocca domanda della mattina.
Le ombre cadevano fitte dal cielo: la terra dormiva. Gli alberi, le macchie, le erbe avevano già preso una figura molto diversa da quella del giorno. A dieci passi di distanza, l'aspetto delle cose assumeva sembianze fantastiche: la mente ne era un po' turbata, e l'occhio vedeva quel che non era, l'orecchio sentiva rumori strani e fuori natura. Un altro momentino, e le fate, gli spiriti, sarebbero venuti a volteggiarci sul capo, a turbarci, a impaurarci colle loro apparizioni improvvise.
Provava anch'ella quest'effetto, e mi si stringeva al braccio con forza e girava attorno diffidente la testina e si fermava ad ascoltare.
Ci eravamo dilungati troppo benché si fosse andati lentamente. Chi voleva accorgersi delle ore volate via? Andavamo incontro ad un gruppo di alberi che disegnavansi sull'orizzonte con forme immani e grottesche. Si sarebbe detto che dei mostri giganteschi, fermati ad attenderci lí sul passaggio, agitassero le teste orrende e digrignassero i denti.
- Torniamo addietro: ho paura! - sussurrommi all'orecchio, appendendomisi al collo come una bimba.
Questo bacio fu il piú lungo.
Traversammo i campi da un'altra parte e prendemmo per far piú presto una scorciatoia.
La fittaiuola, addormentata, ci attendeva a piè della scala. La mandai a letto ringraziandola e seguii la Fasma ch'era già nel salotto.
Il sorriso con cui mi accolse fu qualcosa di sublime. Mi sentii come preso da un delirio veemente, e le corsi incontro e la levai di peso tra le braccia. Ella die' un piccolo grido e nascose il volto sulla mia spalla
Credetti che qualcosa di eterno per la mia vita si fosse deciso in quel punto! E tutto tremante varcai, la prima volta, con essa in collo, la soglia oscura della sua stanza.

La mattina dopo mi domandavo: - Ho sognato? Non trovavo il verso di persuadermi che quanto era accaduto fosse proprio una realtà. Certe volte non c'è cosa che paia piú impossibile del vero.
Giú mi attendeva un ragazzo con una lettera da Firenze. Un urgentissimo affare di famiglia mi richiamava colà; potevo esser di ritorno la sera. Guardai l'orologio; mancava ancora tre quarti di ora pel passaggio del treno: giusto quanto occorreva ad arrivare in tempo alla stazione.
Rifeci, stizzito, le scale onde avvertire la Fasma. Trovai il suo uscio serrato col paletto di dentro. La chiamai a nome; non rispose. Stetti ad origliare commosso. Mi era parso d'aver sentito singhiozzare. Possibile? E ritenni il fiato Non mi ingannavo. Veniva dalla sua stanza un suono di pianto represso, di grida soffocate, di singhiozzi interrotti.
- Ahimè! - pensai, - questi passaggi repentini come debbono farle del male! -
E picchiai, ripicchiai, tornai a chiamare piú volte. Nessuna risposta! Quel pianto, quelle grida smorzate a forza, continuavano sempre. Che fare? Il tempo stringeva.
- Fasma! Fasma! - le urlai dietro l'uscio; - debbo andare a Firenze; sarò qui col treno di sera. Per carità, stia tranquilla! Mi risponda. Stia tranquilla. A rivederci! -
Non avevo piú il coraggio di darle del «tu»! Nessuna risposta!
- A rivederci! - replicai
E rimanevo dietro l'uscio. Però dopo alcuni minuti mi parve sentire, o sentii davvero, una parola di addio. Corsero alcuni istanti di angoscioso silenzio. Il pianto a poco a poco cessò, cigolò finalmente il paletto e la Fasma apparve accanto all'uscio. Sorrideva, ma in viso le si vedevano chiare le tracce del suo dolore.
- Che è stato? - le chiesi tremante.
- Nulla! - diss'ella - È passato. Addio.
- Tornerò presto; non posso far a meno di andare.
- Addio! - ripetette con una monotonia di accento che mi trafisse l'anima.
Evidentemente ella pativa a star lí. Mi decisi a partire.
- Per carità, stia tranquilla! - replicai stringendole affettuosamente la mano.
- Addio! - diss'ella per la terza volta e collo stessissimo tono.

Affrettai di una corsa il mio ritorno. Eran le sette di sera.
- La signora dov'è? - chiesi alla fittaiuola.
- È già attorno da un pezzo - rispose quella donna con aria inquieta.
Entrai nella mia stanza e non so perché gli occhi mi corsero subito al tavolo; c'era un foglio spiegato. Sentii stringermi il cuore da un tristo presagio! Non osavo accostarmi. Che poteva aver scritto? Finalmente presi convulso quel foglio e corsi subito alla finestra. Era una sua letterina.
«Caro signore» diceva «non pensi male di me! Mi compatisca invece, mi compianga. Prima di buttarmi la pietra del suo disprezzo, ella dovrebbe conoscere tutta la storia del mio cuore e della mia vita, un'infelicissima storia. Non gliela posso dire; è troppo lunga; e poi, a qual pro? Non pensi male di me! Mi dimentichi: è meglio! Non osa domandarle altro la sua gratissima Fasma»
Pensar male di te! Dimenticarti, divina creatura! Oh, potessi rivederla!
Villa Santa Margherita, agosto 1874




IV

EBE



Lo feci rabbiosamente in brani, indi apersi i cristalli e rimasi lí a guardare quei pezzettini di carta che brillavano tremolanti per l'aria portati via dal vento e andavano a perdersi tra le fronde degli alberi e in mezzo alle aiuole del sottoposto giardino.
Il pianoforte della vicina del primo piano ripeteva per la centesima volta il famoso notturno del Chopin. Il cardellino della vecchia signora accanto trillava nella sua gabbia dorata, sospesa in mezzo ai pensili rami del fior di passione che contornava il terrazzino. I bimbi della portinaia trascinavano sotto il portico una carrettella, a cui il maggiore di età si era attaccato come cavallino. Le tende alla persiana dei terrazzini rimpetto si agitavano appena quasi tenute ferme da mani che volesser proteggere qualche occhio indiscreto, intento a spiare tra un filo e l'altro dei vimini.
Due pezzettini di carta, i soli che si fossero levati troppo in alto per la furia della mano che gli aveva buttati fuora, scendevano, scendevano ancora facendo dei celeri giri e deviando verso il punto da cui erano partiti. Il vento li respingeva, tornava a sollevarli e poi lasciava che venissero giú piú vorticosi di prima: sembravano farfalle che abbassassero le ali sui vasi fioriti dei terrazzini. Io li seguivo coll'occhio, molto curioso di vedere quale sarebbe stata la loro sorte. Andarono tutti e due a cadere sul terrazzino della vicina: ci mancò quasi nulla che non entrassero nella sua stanza.
Il pianoforte cessò di suonare Una manina raccolse poco dopo i due pezzettini di carta, indi la bella vicina affacciossi presso la ringhiera di ferro, e spinse gli occhi in alto verso il secondo piano. Visto me che guardavo sorridendo, lesse attentamente le parole di quei due frammenti del biglietto e, arrossendo un po', mi disse:
- È ammalato? -
Non seppi trovare un motto di risposta.
Era la prima volta che ella mi rivolgesse la parola. Dei lunghi colloqui di occhiate eran corsi da un mese fra me e lei, ma nemmeno un solo di quei saluti fatti con un cenno del capo. Ho detto: «colloqui», per modo di dire. La guardavo, ella si lasciava volontieri guardare, con mal celata compiacenza ecco tutto. Io mi trovavo troppo addolorato in quel tempo, troppo preoccupato per pensare sul serio a farle un briciolino di corte. Il mio odio verso l'Ebe giungeva a tal grado eccessivo da non permettere affatto che l'amore per un'altra venisse a diminuirlo con una diversione di forze.
- Perché «grazie»? - riprese la vicina, dopo aver riletto l'altro pezzettino di carta.
- Scusí! - balbettai, confuso pari a un bimbo che vede scoperta una sua sciocchezza.
La vicina stette un istante a riflettere; poi, come se avesse a un tratto capito, mi salutò con un sorriso e ritirossi.
Alcuni minuti appresso intesi suonare il campanello. Corsi io stesso ad aprire.
Era la cameriera che veniva a farmi le scuse per parte della sua padrona. Se la signora avesse saputo, non sarebbe stata tutto il santo giorno a suonare il pianoforte. Era dolentissima, ma da quel momento in poi non avrebbe messo nemmeno un dito sulla tastiera finché non sarebbe stata certa della mia completa guarigione.
- Bisogna compatirla, povera signora! - aggiunse la cameriera. - Si annoia tanto!
- Ringrazio la signora - risposi - della sua squisita gentilezza. Ella suona cosí bene che io la prego di continuare come pel passato. Desidero intanto sapere se potrò venire a ringraziarla di presenza e a spiegarle il piccolo equivoco avvenuto poco fa -.
Dopo altri pochi minuti la cameriera ritornava al secondo piano.
- Venga quando le fa piacere; dalle dodici alle quattro, tutti i giorni: la sua visita sarà gradita -.
Quella cameriera diceva le cose con una disinvoltura ammirabile.

Andetti il giorno appresso. Il salottino era addobbato in azzurro con strisce bianche filettate in oro. Una magnifica giardiniera, presso il terrazzino, sfoggiava il lusso delle ricurve foglie delle yucche e dei bei fiori di veronica e di ageratum. Le tende di seta azzurra e di tulle finissimo elegantissimamente ricamato smorzavano il tono troppo vivo della luce che veniva di fuori e davano a tutto quell'insieme l'aria di un sorriso discreto e raccolto, qualcosa che faceva fantasticare. Rimpetto al divano, sotto un paesaggio del Raiper incastrato in una ricchissima cornice dorata, il pianoforte verticale ancora aperto mostrava spiegato sul leggio il prediletto notturno del Chopin; le note soavi e malinconiche interrotte il giorno avanti sembrava aleggiassero per la stanza come un'eco affievolita della volta...
La signora non si fece attendere. Una donna sui trent'anni, bella di quella bellezza minuta che guadagna molto ad esser guardata da vicino, con modellature del collo e delle guance sorprendenti davvero. La pelle morbida, vellutata, aveva il colorito, dirò, un po' usato, un po' chiuso che vien dall'età; un colorito spesso spesso preferibile a quello da quadro fresco o da figurine di porcellana di certi visi di ragazze. Capelli castagni; occhi castagni, grandi, vivaci; denti piccini cogli incisivi superiori divisi da un piccolo spazio che intanto riusciva grazioso nella sua bocca contornata da labbra sottili; un naso un po' aquilino; delle mani bianchissime, delicate, con ditini affusolati; e, per finire, dei piedini, oh!, dei piedini forse della piú estrema piccolezza consentita dalle proporzioni del corpo e dalle leggi dell'equilibrio: ecco la signora Augusta. Vestita elegantissimamente non si dice nemmeno. Sembrava che un abile artista avesse intonato tutti i particolari della stanza e dell'abito per farne un gentile contorno alla sua persona, ma in guisa che gli accessori non offuscassero il principale...
Quando le ebbi spiegato l'equivoco dei due pezzetti di carta, ella sorrise un po' disillusa.
- Infatti - disse, - ora che ci rifletto, quel carattere non poteva essere che d'una donna. Povera donna! - riprese. - Che può averle mai fatto per essere trattata in quella guisa?...
- Oh, molto male! - esclamai.
- Chi lo sa? - disse. - Forse lei non la giudica spassionatamente. Voi altri uomini ci intendete cosí poco, che il cadere in inganno sul conto nostro è la cosa piú facile del mondo.
- Rispetto - dissi - questo sentimento di solidarietà che fa prendere ad una donna le difese dell'altra... quando l'avversario è di sesso diverso. Le concedo anzi che noialtri uomini non siamo davvero i piú adatti a giudicare molte sfumature del loro carattere, molte stranezze del loro spirito, molte inconseguenze del loro cuore (o che a noi paiono tali): ma, nel mio caso particolare, la prego di credere che io non mi inganno. Se la passione mi fa velo, è soltanto per impedirmi di giudicare piú severamente la donna che scrisse quel biglietto. Oh! Creda, signora, spesso loro ci fanno soffrire con una spensieratezza senza scusa!
- Sarebbe assurdo - ella mi disse sorridendo - che ci dovessimo mettere in istato di guerra sin dal primo giorno che ci conosciamo. Cedo, non foss'altro, per dar ragion a chi ci chiama il sesso debole...
- Una malizia spacciata dalle donne per rendersi piú forti -.
Il ragionare continuò un buon quarto d'ora, nutrito dei soliti nonnulla. Sul punto di andar via:
- Spero vorrà farmi l'onore di qualche altra visita - ella disse - ...quando si annoierà. Le importerà poco continuare ad annoiarsi qui od altrove.
- Non parli, prego, di annoiarmi - risposi. - Sono un po' orso, un po' misantropo; ma non c'è nulla che mi ammansisca piú di una conversazione con una donna di spirito. Poi il forte sta sempre nel cominciare. Un giorno forse dovrà pentirsi di essere stata cosí gentile con me.
- A una certa età - rispose - la donna non può piú pentirsi di nulla: anche i disinganni sono qualcosa per essa -.

Due giorni dopo il portinaio mi recava un'altra lettera dell'Ebe. Fui sul punto di stracciarla senza leggerla, ma poi finii coll'aprire lentamente la busta e col leggerla due volte.

«Non vi credevo cosí cattivo - diceva. - Avete forse sospettato che io mentissi? No, sono veramente e seriamente ammalata: non so nemmeno se potrò piú uscire viva da questo salottino ove passo solitaria le lunghe giornate, divorando il mio dolore, leggiucchiando, piangendo, talvolta dormendo e sognando. Se vi dicessi che i momenti in cui sogno siano i piú felici della mia vita, voi sorridereste dall'incredulità; eppure nulla di piú vero. La mia imaginazione è benefica: i fantasmi ch'essa mi ridesta nel sonno rappresentano precisamente il rovescio della terribile realtà che mi uccide.
Che vi ho chiesto? Una visita. Mi odiate dunque a tal segno da non volermi nemmen vedere? Non vi ho domandato perdono? Non sto scontando amaramente la mia storditaggine di un momento? Volete che abbassi ancora questo po' di orgoglio di donna che mi rimane? Volete forse che io venga a buttarmi ai vostri piedi? Se le mie forze me lo permettessero, lo farei volontieri.
Come siete inesorabile! Come siete superbo! Soffrite al pari di me di cotesta vostra durezza, e intanto non vi lasciate commuovere dalle mie lagrime, dalle mie preghiere. Che debbo fare per toccarvi il cuore? Non vi basta che io muoia lentamente per voi?
Oh Alberto, voglia il cielo che queste mie parole non vi s'abbiano un giorno a mutare in un rimorso!
Che colpa ho io se non mi ero accorta di amarvi? Se la mia frivola educazione m'impediva di intendere la profonda e nobile serietà del vostro amore? Siete voi impeccabile? Non vi amo oggi, senza speranza, cento volte di piú di quel che avrei potuto allora?
Ma io vi prego soltanto del vostro perdono. So benissimo che un affetto spento non rinasce piú. Però se il profumo scappato dalla boccetta che lo conteneva non può piú venir raccolto per richiudervelo di bel nuovo, la boccetta ne ritiene ancora lungo tempo un leggiero vestigio. Ah! Non c'è che il cuore umano per rimanere indifferente, anzi peggio, ostile a un sentimento che prima poteva dirsi il suo profumo!...
Non mi sento per ora cosí male da poter fare di meno del vostro perdono. Spero intanto che non sia molto lontano il momento in cui non dovrò pensare ad altro che a mandarvi il mio.
Alberto! Vi confesso che non dispero d'intenerirvi. La vostra superbia sarebbe forse cosí grande da non permettervi nemmeno di fingere verso di me una pietà che non sentite e non potete sentire?
Vi attendo sempre. Sono sdraiata sulla poltrona dietro i cristalli della finestra che guarda l'entrata. La magnolia del cortile comincia a fiorire: le sue belle foglie di un verde chiuso luccicano al sole come tante laminette di bronzo brunito. I passeri saltellano sui suoi rami, facendo un arguto chiacchiericcio che mi diverte anche nella prostrazione di spirito in cui mi trovo. Tutto sorride nella natura. Fate che anch'io muoia sorridendo. Venite! Venite!»

Ebbi una stretta al cuore: ma il mio amor proprio reagí subito contro quell'assalto di tenerezza.
La lettera mi parve di un'abilità diabolica. Sotto quell'apparente dolcezza, sotto quel lamento rassegnato, sotto quel calore di un affetto e di una passione senza limiti, intravvedevo un sorriso di canzonatura, un sentimento di trionfo che scoppiava fra riga e riga, per quanto già fosse industriosamente celato.
Ammalata seriamente, gravemente! Non ne credevo una sillaba! La sua vanità di donna aveva ricevuto un gran colpo. L'uomo bello, mondano, superficiale da lei preferitomi senza pensarci su un momento, l'aveva dopo pochi mesi abbandonata colla stessa facilità con cui era venuto a buttarglisi ai piedi; cercava forse tutt'altro di quel che l'Ebe avrebbe voluto concedergli. Io, che per lei rappresentavo una vittoria creduta quasi impossibile, le avevo sdegnosamente voltate le spalle senza piú rivederla. Ed ecco: ella cercava ora rifarsi su di me dello scacco subito. Forse, compreso ora qual'indegnità avesse commessa ridendosi dell'amore piú serio e piú sincero da lei ispirato ad un uomo, tentava in quel naufragio del suo cuore afferrarsi stretta a me come ad una tavola di salvezza.
L'idea che il disinganno avesse realmente destato e fatto fiorire in lei i germi di un amore per davvero, non mi passava pel capo. Ella mi pareva troppo assuefatta a certi sentimenti e a certe emozioni da poterli risentire schiettamente e profondamente; l'artifizio, l'abitudine avevano dovuto attutire o smorzare le vive forze del suo cuore; e la nuda e volgare realtà cacciar via da esso ogni gentile illusione, ogni aspirazione elevata. L'amore, cioè quel vacuo esercizio delle fibre, quel fatuo scintillare dello spirito che suol chiamarsi con tal nome, era diventato per lei una delle forti necessità della vita; la sua anima femminile non poteva astenersi di questo spirituale nutrimento. La sazietà intanto la rendeva schifiltosa; le dava dei gusti stranissimi, ch'ella non era sempre in caso di appagare. Sí, ammalata poteva essere, ma soltanto di nausea e di ideali mancati. Io, un po' strano, un po' rozzo, ma sincero, ma tutto di un pezzo; io, vero credente dell'amore in mezzo a tanti atei di questo dio, avevo per lei l'attrattiva del frutto vietato, del sapore sconosciuto: nient'altro!...
La mia alterigia di uomo rifiutava sdegnosa i sommessi suggerimenti di un'intima voce del cuore. Perché non credere? Diceva questa voce. Il disinganno può averle aperti gli occhi; e un amore prodotto da tale stato dello spirito diventare il piú violento, il piú schietto, il piú duraturo del mondo; quasi un primo amore anche per una donna che, come l'Ebe, abbia amato fin troppo.
Ma non mi lasciavo rimovere, per quanto mi sentissi straziato. Cedere, fosse pure ad un sentimento di naturale curiosità, mi faceva ribrezzo. Il mio odio era certamente uno dei mille aspetti dell'amore (per dire che non amiamo piú bisogna sentirci indifferenti) ma cosí, da odio, lo tolleravo; senza maschera invece non lo avrei tollerato un momento: avrei preferito spezzarmi il cuore, non potendolo vincere altrimenti. Ero troppo superbo: ella indovinava.
Posai la lettera sul marmo del caminetto e non andai, né risposi. Quel procedere villano era un gran sforzo che facevo mio malgrado. Mi ritenevo impegnato per mille ragioni a non cedere; e, temendo di esser preso da qualche improvvisa debolezza, esageravo il rigore, passavo ogni limite. Accade sempre a questo modo, nella vita, nell'arte, in ogni cosa: la giusta misura riesce impossibile e all'uomo e alla natura: è l'ideale che non arriva ad attuarsi.

Continuai le mie visite alla vicina con crescente frequenza. Viveva sola. Il suo amante viaggiava qua e là per affari, e non le scriveva mai. La signora Augusta, ignorando sempre per quali provincie la ferrovia scarrozzasse il suo «protettore» (lo chiamava cosí), non aveva nemmeno lo svago di riempire ogni giorno un fogliolino di carta da spedire alla posta.
Attendeva, facilmente rassegnata per effetto, in massima parte, della sua costituzione e del suo carattere. Era un organismo tranquillo, un carattere armonico: sentiva la vita come una luce ugualmente rosea e moderata; mai troppi bagliori, mai troppe ombre. Era però nel medesimo tempo un organismo delicato, facile a percepire le mille sfumature di un sentimento, e inclinatissima a questo quasi sensuale godimento delle sfumature in ogni cosa. Insomma una vera donna di spirito, caduta nella condizione ove ora si trovava per una lunga serie di vicende che spesso rimanevano inesplicabili anche per lei stessa. Forse per questo ella chiamava «protettore» il suo amante, sfumatura di linguaggio tutta sua e non superficiale di certo.
Quella tranquillità di organismo, quell'armonia di carattere corrispondevano a qualcosa del mio spirito un po' pagano, a qualcosa che dominava talvolta tutte le facoltà della mia mente e del mio cuore e mi faceva vivere piú di sensazioni che di sentimenti, proprio come una felice creatura della Grecia antica. Però in quei giorni ero poco o punto disposto ad apprezzarne il valore. Ero anzi disposto a giudicarle assai male; scambiavo infatti la tranquillità per freddezza, l'armonia per fiacchezza o per completa assenza di contrasti.
Ma cominciai a disingannarmi la prima volta che le udii sonare da vicino il pianoforte. Quella ondata di melodie e di armonie pareva facesse montare a galla la sua anima gentile da una profondità sconosciuta. Le dita vibravano con forza, spesso con violenza sulla tastiera, e lo strumento non rispondeva come un semplice meccanismo dalle sue viscere cave, ma come una parte dell'organismo di lei la quale ne rivelasse le intime voci del petto.
Però in tutto quest'intimo c'era un che di carnale e di sensuale che ricercava le fibre con dolcezza squisita. Dopo quelle armonie ci voleva assolutamente un grand'accordo di baci. Dopo quelle vibrazioni sonore che agitavano il sangue e riscaldavano la pelle come se avessero sferzato il corpo con invisibili verghettine, si richiedeva assolutamente la fiera stretta di un abbraccio, o il pezzo di musica sarebbe parso senza significato, senza chiusa, insomma, incompleto.
Non occorse dircelo: ci fu il tacito accordo di tutti e due. Ma i baci non venivan mai prima che la musica gli eccitasse.
Quando la conversazione, cominciata freddina, continuava a sbalzi, noiosa, sconclusionata, ella levavasi tosto dalla poltrona, andava a sedersi al pianoforte..., e i sensi, riconosciuto subito il loro inno reale, si destavano inebbriati per proseguirlo alla loro maniera, senza bisogno di musica.

Il «protettore» ritornò. Per tre settimane potemmo vederci di rado, dal terrazzino, e scambiare ora un saluto, ora un centinaio di parole.
Abbassavamo le tende per evitare di esser veduti da una zitellona di rimpetto che bracava dalla mattina alla sera tutti i fatti del vicinato; e il dialogo si riduceva quasi invariabilmente a questo qui:
- Sei vedova?
- No; ma partirà fra qualche settimana.
- Starà fuori a lungo?
- Chi lo sa? Non dice mai nulla. Parte e arriva improvvisamente nei giorni e nelle ore che meno l'aspetto.
- Che rabbia! -
E l'Augusta sorrideva di quel suo tranquillo sorriso, che mi piaceva ogni giorno piú che mai.
- Aspetta lí - diceva talvolta.
E rientrava per mettersi al pianoforte. Spesso però il pianoforte taceva a un tratto, ed ella non ricompariva piú. Il protettore era venuto a casa. Il nostro dolce colloquio restava interrotto sul meglio.
Ma «lui» ripartiva; faceva delle assenze di quindici, di venti giorni, e noi tornavamo alle nostre intime relazioni con un'assiduità meravigliosa, come se ciò fosse stato la cosa piú regolare del mondo. Ci preoccupavamo di «lui» soltanto per sapere quando partiva e indovinare possibilmente quando sarebbe ritornato.
Ci amavamo? Nessuno dei due aveva osato fare all'altro questa interrogazione. Amarci? Di che amore? Domande complicate che esigevano risposte ancora piú complicate. Lasciavamo correre: valeva lo stesso.
Io avevo intanto trovato in lei qualcosa che addolciva le amarezze del mio cuore, e spesso anche le addormentava. Ma vi eran dei giorni però nei quali preferivo rigustare quelle amarezze, e glielo davo a vedere.
- Sei stanco di me? - mi chiese un giorno con un accento di affettuoso rimprovero.
- Perché dovrei esser stanco? - feci io, evitando cosí di rispondere.
- Perché è naturale - riprese l'Augusta; - non c'è nulla di eterno al mondo, e l'amore meno di tutto.
- Credi tu - le domandai all'improvviso come conseguenza delle idee che mi si affollavano in testa, - credi tu che una donna possa morire di amore?
- Mio Dio! - esclamò con un'intonazione di voce che mi suona ancora nell'orecchio; - ma le donne non muoiono di altro -.
Questa risposta cosí semplice mi turbò profondamente. - Senti - ella disse dopo un pezzo: - è vero che tu sei stato l'amante di una gran dama?
- Chi ti ha sballato questa sciocchezza?
- Prima rispondi: ti dirò poi.
- Ho già risposto, se t'ho detto: sciocchezza.
- Eppure io so di certo che tu hai avuto una amante e che ora siete in rottura; quel biglietto di tre mesi fa dovette inviartelo lei.
- Quella? Un'amante? Oh! Niente affatto, mia cara!
- Eh, via! Ti vuoi nascondere da me: ma io, tu lo sai, non sono punto gelosa. Dunque, la poverina ti vuol bene a tal segno che si è rovinata la salute per te. Dopo il tuo abbandono fece delle pazzie; corse, balli, viaggi, ogni possibile stravaganza pur di buscarsi un malanno che la facesse morire... e c'è finalmente riuscita.
- Chi ti ha detto questo? - chiesi meravigliato di sentire sulla sua bocca quello strano miscuglio di falso e di vero. Tacque un pezzetto e stette a capo chino, colla fronte corrugata, coll'indice della mano sinistra appoggiato sulle labbra, come se cercasse di ricordare.
- Mi perdonerai? - fece poco dopo, sedendomisi sulle ginocchia e passandomi le braccia intorno al collo.
Questo sfoggio di tenerezza accrebbe straordinariamente la mia curiosità.
- Parla - dissi impaziente.
- Mi perdonerai? - tornò a domandare l'Augusta.
- Cento volte, non una, ma parla, ti prego!
- Ecco qui. Tre giorni fa la cameriera di quella gran dama venne a cercarti. Tu non eri in casa, e nemmeno il tuo servitore. La Lucia, sentendo replicatamente suonare il tuo campanello, affacciossi all'uscio, e riconobbe in quella cameriera una sua amica d'infanzia. Si misero a chiacchierare sul pianerottolo. L'altra aspettava con una smania incredibile; ogni minuto le pareva l'eternità: infatti, dopo un'ora, vedendo che tu non rientravi in casa, si decise a lasciar l'imbasciata alla Lucia, caldamente raccomandando di fartela appena arrivato. Fu lei che confidò alla Lucia tutta la storia della sua padrona: la Lucia, che forse fece lo stesso dei fatti miei, venne subito a riferirmi fedelmente ogni cosa: mi fece vedere anche... la lettera.
- C'era una lettera? - dissi, mostrando un'indifferenza che in quel momento non provavo.
- Oh sí... una lettera... E per via di essa che ho bisogno del tuo perdono!
- L'hai già letta?
- No, no!... Ma n'ebbi una forte tentazione... e quindi... Eccola!... - disse alzandosi a un tratto dalle mie ginocchia.
E aperto un cofanetto di porcellana di Sèvres a fermagli di rame dorato, la cavò fuori ancora chiusa e me la porse colla punta delle dita, mormorando:
- Perdona!

Qual parola occorrerebbe per esprimere la vile infamia che allora mi balenò nella mente e che misi subito in atto?
Quelle rivelazioni della cameriera, misto di verità e d'invenzioni, avevano irritato il mio amor proprio come uno scherno crudele; né la lettera dell'Ebe poteva avere per me un significato diverso. Amante io, io che ero stato tolto di mira quasi per vincere una scommessa! Io che ero stato ammaliato da tutte le divine seduzioni, da tutti i terribili artifizi del corpo e dello spirito e poi lasciato lí, con una risata, appena avevo mostrato di prender sul serio e lo spirito e il cuore e fin le stranezze di quella donna! Amante io che ora mi credevo perseguitato con una commedia di amor postumo piú spietatamente insultante dello stesso scherno con cui aveva ella accolto una sera la provocata mia dichiarazione di amore!
- Leggi - dissi all'Augusta.
E siccome l'Augusta esitava, supponendo che io intendessi di dare una soddisfazione alla sua gelosia,
- Leggi - fammi il piacere, le dissi; - non lo faccio per te -.
Appoggiai i gomiti sul piccolo tavolo lí accanto, misi la testa tra le mani e stetti cogli occhi chiusi ad ascoltare.
La lettera diceva cosí:

«Non meritereste che vi scrivessi. Il mio braccio, la mia testa si rifiutano ad un lavoro imposto ad essi dal cuore; ma io voglio scrivervi per l'ultima volta, prima di chiudere (se pur sarà possibile) le porte del mio spirito ad ogni affezione terrena e aprirle alle consolazioni di Dio, le sole che mi rimangano in questo punto.
Ho guardato la faccia del dottore mentre toccava il mio polso. Si è rannuvolata ad un tratto. Però non avevo bisogno di questo indizio per credere che mi avvicino precipitosamente verso la morte. Mi sento morire con un'ineffabile soddisfazione che vi è impossibile imaginare. Anch'io, prima di ora, non avrei mai supposto che la morte potesse essere qualcosa di immensamente soave.
Vi mando il mio perdono. Non mi preme piú di avere il vostro: me lo son meritato, e provo una consolazione come se avessi sentito ripetere questa parola dalla vostra stessa bocca.
Vi ho avvelenato la giovinezza, il presente e forse l'avvenire!... Vi ho fatto soffrire senza volerlo, ma non per cattiveria come vi siete ostinato a credere... ed ora muoio di amore per voi!
Perché vi scrivo tutto questo? Non lo sapete da gran tempo?
Ah! Ve lo scrivo onde avvisarvi che avete ancora qualche giorno per risparmiarvi un rimorso. Io vi ho amato disperatamente quando voi non mi amavate piú; voi, badate! Mi amerete piú di prima appena saprete che sarò morta!
Ho messo quattro ore a scrivere questa lettera, e mando la mia cameriera per consegnarvela di sua mano. Muoio sola, con una fida amica al capezzale. Mi lascerete morir cosí? Vi perdonerò anche questo. Addio per sempre!
P. S. Ho pregato la mia amica di tagliarmi appena morta tutti i capelli. Se un giorno li vorreste come ricordo di colei che vi ha amato fino a morirne, chiedeteli alla Giorgina Nozzoli che voi conoscete. Addio un'altra volta e per sempre!»

Sul principio al sentir pronunciare lentamente, nel modo che leggeva l'Augusta, quelle tristi parole, io avevo provato la voluttà di una quasi violazione brutale compita dalla voce di essa sullo spirito dell'Ebe. Era appunto questo il vigliacco e raffinato piacere che avevo voluto procurarmi; era questo lo strano avvilimento voluto infliggere all'Ebe facendomi ripetere dalla bocca di una donna come l'Augusta le parole dirette a commovere il mio cuore e scombuiare il mio spirito. Ma tale soddisfazione durò poco: l'effetto fu tutto il contrario di quanto avevo imaginato.
La voce dell'Augusta prese di mano in mano delle inflessioni che violentemente mi scossero il cuore. Da quella gola femminile che l'emozione rendeva tremante, ogni parola, ogni frase, ogni periodo della lettera riceveva un'espressione direi quasi un nuovo significato che addirittura ne centuplicava l'efficacia. Sentivo ad una ad una cadermi sul cuore, come del piombo liquefatto, le grosse gocce di lagrime dovute scendere silenziose sul pallido viso della morente, mentre la scarna sua mano erasi stentatamente trascinata sul foglio; e quando l'Augusta faceva una piccola pausa, e quando la sua voce si turbava in guisa che le parole gli uscivano molto confuse di bocca, mi pareva di udire l'affanno della infelice che la mia superbia condannava a morire senza una parola di perdono insistentemente invocata; e mi sentivo annodare la gola e strozzare il respiro.
A metà della lettera aveva fatto un gesto quasi per strapparla di mano dell'Augusta e impedire la sacrilega offesa che intendeva di essere la mia vendetta; ma mi trattenne l'idea d'infliggermi come un affronto il sentirmela leggere sino in fondo dalla stessa bocca scelta per quella profanazione veramente indegna di un uomo. Non piangevo, ma tremavo, ma mi sentivo schiacciare da una terribile mano. Provavo sulle guance dei colpi di staffile che dovevan lasciarvi le lividure. Ogni stilla del diaccio sudore che mi scendeva dalla fronte mi pareva uno sputo di disprezzo lanciatomi in viso da tutte le creature gentili.
Terminata la lettura successe nella stanza un silenzio profondo. Ero sotto l'oppressione di un incubo e non potevo destarmi.
- Se tu fossi in tempo! - disse l'Augusta con voce commossa e colle lagrime agli occhi.
Ci voleva quest'affettuosa esclamazione di una donna per farmi rientrare in me stesso.
- Se fossi in tempo! - ripetei torcendomi dolorosamente le mani.

Il fiàcchere mi pareva non volasse a precipizio come il cuore febbrile avrebbe voluto. Si trattava di dover correre da un capo all'altro della città e per le vie piú frequentate. Il cocchiere dovette credermi ammattito sentendomi sempre urlare dietro le sue spalle: - Ma corri! Ma sferza! -
Montai gli scalini a quattro a quattro.
La cameriera che già piangeva diede, appena mi vide, in un nuovo e piú forte scoppio di pianto.
Ahimè! Giungevo troppo tardi?
Un vecchio prete uscito in fretta dalla stanza dove era corsa la cameriera, mi venne incontro, mi porse la mano, e con accento semplice e calmo, ma che imprimeva intanto qualcosa di solenne al suo aspetto quasi volgare:
- Signore! - mi disse - quali che possano essere le sue idee religiose, la prego di non turbare alla morente questi ultimi istanti. Iddio le ha concesso una tranquillità ch'ella stessa non sperava. Dimenticata la terra, tutti i suoi pensieri sono ora rivolti al cielo che si apre misericordioso alla sua anima afflitta. Non ci appartiene piú, o signore! Questi momenti sono di Dio! -
Lo guardai ebetito.
Una sentenza dell'Hegel mi si presentava in quel punto limpidissima alla memoria, e me la ripetevo macchinalmente: «La necessità della morte è quella del passaggio dell'individuo nell'universale».
Rammentavo un'altra sentenza del Goethe: «La nostra vita non è una vera vita, ma la morte della vita divina che viene ad estinguersi nella nostra».
E mi meravigliavo di poter fermarmi col pensiero su tali ed altre simili idee che mi passavano per la mente scombuiata pari a nuvoloni di un temporale spinti per l'aria dalla furia del vento.
Come non provavo un dolore immenso? Come non morivo di dolore? Una strana lucidità mi faceva riflettere:
- Forse sto per ammattire! -
E tentavo di assistere al lento confondersi della mia ragione entro le tenebre della pazzia.
Tutt'ad un tratto l'uscio da cui era uscito il prete spalancossi con violenza, e la cameriera venne fuori urlando e battendosi il petto.
Mi avanzai fino alla soglia, tenuto sempre per mano dal prete il quale mi diceva delle parole che piú non riuscivo ad intendere...
Una suora di carità asciugava sulla bianca fronte dell'Ebe l'ultimo sudore della morte!

Miseria del cuore umano!
Son passati appena quattro anni! Mi pareva che senza di lei la mia esistenza non avrebbe piú avuto nessuna ragione di durare!...
E già ne parlo tranquillamente, e già sorrido pensando che obbliare è una profonda, una divina necessità della vita.



V

IELA



I cavalli scalpitavano impazienti sullo stradale a una sessantina di passi dalla porticina dell'orto dove io stavo ad origliare. Sentivo di quando in quando il rumore delle catenelle che suonavano al loro collo e gli scossoni di tutti gli arnesi, che i poveri animali accompagnavano con una specie di sternuto. Mi pareva impossibile non nitrissero, e li ringraziavo col pensiero della quasi intelligente riserbatezza mostrata in quel punto.
Aspettavo da due ore.
Era nugolo. Il vento stormiva furioso fra gli alberi e mi recava interrottamente all'orecchio rumori sordi, lontani, che somigliavano ad urli, a lamenti, a grida confuse e mi facevano trasalire.
Provavo intanto una fiera compiacenza a quelle emozioni notturne. Passare di un tratto dalla monotona vita di provincia ad una bizzarra avventura che aveva le due grandi attrattive del pericolo e dell'ignoto, per uno già sfinito dalla noia era anche un po' troppo. Sentivo ridestato in fondo al cuore qualcosa lí rimasta lungo tempo a dormire; respiravo piú liberamente; riconoscevo con soddisfazione che non ero già vecchio a ventisei anni.
Quell'immensa solitudine da cui ero circondato; quella vallata che il vento riempiva dei suoi strani sibili; quelle ombre della notte senza luna che trasformavano l'aspetto degli alberi e dei luoghi in un che di fantastico e di pauroso privo di contorni e di limite; tutto serviva a comporre uno sfondo che si adattava benissimo alla natura della mia impresa ed alla singolare situazione dell'animo mio.
Aspettavo, ripeto, da due ore. Nella casa e nell'orto non si sentiva anima viva.
- Verrà? Non verrà? Che un qualche accidente abbia sconvolto i nostri piani? Ch'ella si sia pentita della sua arditezza nel momento di metterla in atto? -
Appoggiato all'intaglio della porticina dell'orto, ruminavo da un pezzo queste domande e già cominciavo a credere che la signora avesse mutato risoluzione, quando intesi il girar di una chiave nella toppa dell'uscio.
Mi tirai da parte, trattenendo il respiro.
L'uscio si aperse lentamente; una testa affacciossi indistinta nell'ombra e stette un minuto ad ascoltare; indi intesi picchiare sul legno i tre colpi di chiave convenuti.
- Son qua da due ore - dissi a bassa voce, facendomi innanzi.
- Siamo già pronte - rispose una voce di donna; - vo a chiamar la padrona.
- Benissimo! Le parole mi facevan nodo alla gola. Se la persona che doveva da lí a poco fuggire con me fosse stata la mia dama o la mia amante non avrei potuto essere piú agitato.
Trascorsero cinque minuti che mi parvero un secolo. Non vedevo l'ora di esser lontano di lí un buon paio di miglia e m'impazientivo d'ogni intoppo. Avevo spinto l'usciolino lasciato aperto, avevo messo il piede nell'orto, mi ero anzi inoltrato sino a mezzo viale, ed ero tornato subito addietro per paura di commettere un'imprudenza. Un lume apparve finalmente dietro le imposte di una finestra e si spense a un tratto. Aguzzai gli occhi nel buio: due ombre disegnaronsi sul bigio delle mura del villino e sulla striscia del viale.
- Per dove? - chiese la signora con voce soffocata. - Per di qua - risposi prendendola per la mano. Ansante, tremante, non poteva camminare spedita. - Coraggio! - le dissi, sentendola singhiozzare.
Mi strinse la mano come per ringraziarmi, e si asciugò gli occhi.
- Il cavallo è dei piú tranquilli - feci io, aiutandola a montare in sella, mentre il mio servitore, piegato un ginocchio a terra, le presentava l'altro onde servirle da gradino. - Cavalcherò al suo fianco; stia tranquilla.
- Grazie! - rispose col solito tono di voce.
E saltò leggiera in sella, come persona abituata a cavalcare.
Lo stradale tirava dritto fra due siepi di fichi d'India. Lo scalpito monotono delle ugne ferrate dei cavalli era il solo rumore che si perdesse confuso fra i sibili acuti del vento.
Era appena un'ora dopo la mezzanotte, e l'aria pungeva, benché si fosse verso la fine dell'aprile.
Stavamo tutti zitti: già, con quel vento, era impossibile il parlare. Ella tossicchiava di quando in quando e fermava un pochino il cavallo; poi riprendeva subito il trotto. Uno dei miei contadini e la cameriera ci seguivano a breve distanza. Il mio servitore e l'altro contadino venivano dietro a cento passi per avvertirci di galoppo a ogni possibile contrattempo.
A quella stess'ora Paolo ballava furiosamente in casa di un parente di lei onde allontanare ogni sospetto.

Lo stradale, dopo un buon tratto, dava una svolta. In fondo al gomito ch'esso formava poco piú giú, splendeva un lume.
- Che sarà mai? - chiese la signora arrestando il cavallo.
- È la barriera - risposi, - non abbia paura. Si trova bene sulla sella?
- Benissimo; grazie -.
L'omo urtò colle gambe del cavallo la grossa catena di ferro che sbarrava il passo e fece suonare una campana dentro la baracca di legno. Una voce dall'interno ciangottò non so che parole: indi, allo scarso lume del lanternino attaccato al muro, vedemmo affacciarsi allo sportello dell'uscio una testa barbuta, collo sbadiglio alla bocca e gli occhi nuotanti nel sonno. Pagato il pedaggio, lo sportello si richiuse e la catena cadde a terra. Lo stradale tornò a risuonare del trotto dei nostri cavalli.
Il buio non mi aveva permesso di veder bene in viso la fuggitiva: avevo però udito la sua voce, una voce dolce, carezzevole tanto da potermene accorgere alle poche sillabe pronunciate.
- Era bella? Naturalmente mi figuravo di sí. Le davo degli occhi cerulei, limpidissimi, e dei capelli biondi. Perché? Non lo sapevo neppur io, ma mi sembrava che a quelle forme svelte, eleganti e un po' virili stessero bene una capigliatura bionda e degli occhi cerulei. Quel che di virile delle forme mi pareva dovesse venir modificato dalle tinte dolci del ceruleo e del biondo. Alcune mosse intravvedute nell'oscurità, prima che montasse a cavallo, me le facevano supporre un carattere mite, affettuoso, uno di quei caratteri che quando amano si danno tutti intieri, un po' per bontà, un po' per fiacchezza. Ma quella sua fuga non mostrava il contrario? Oh! no, non era forse una bionda. Sotto una fronte bruna, contornata da capelli di lucido ebano, saettavano forse due grandi occhi nerissimi...
Io però tornavo a vederla bionda, per lo meno castagna, tendente molto al biondo...
La statura indicava una persona sui venticinque anni. La voce un po' piena, con delle inflessioni di grand'effetto, faceva supporre una donna. Maritata? Vedova? Non volevo entrarci. Quel Paolo era sempre stato l'uomo dalle belle avventure! Questa volta però mi sembrava l'avesse fatta un po' grossa. Basta! Doveva pensarci lui!
Ma come ella lo amava!
Fuggir di casa sua, accompagnata da una persona a lei sconosciuta, andarsi ad esiliare in una campagna lontana, per vivervi fuori d'ogni relazione socievole, sola coll'uomo del suo cuore; o non era questa una gran prova di affetto? E voleva dir nulla quello sfidare il terribile sdegno dei parenti, le inesorabili rigidezze di un paesetto ove il suo nome sarebbe diventato segno ad ogni abbominio, ad ogni vitupero?...
Doveva amarlo perdutamente!... Mi sentivo intenerire.
L'ombre della notte si erano intanto diradate. Il vento era quasi cessato; ma il freddo del mattino mordeva piú vivo. Lo stradale cominciava ad animarsi di carri che montavano in su carichi di ortaggi, per trovarsi al mercato dei paesetti vicini prima dello spuntare del sole. I carrettieri, sdraiati bocconi sul gran mucchio di roba accatastata, fumavano le loro pipe canticchiando, e scotevano di tanto in tanto le redini di corda raccomandate a un pomo della tavoletta di fianco.
La signora vestiva un abito nero con piccole gale arricciate, orlate da un profilo di seta azzurra. Uno scialle egualmente nero, fissato al petto da uno spillo, le copriva le spalle. Il cappellino di paglia scura, con nastro e fiori rossi, che le sormontava la testa era quasi tutto avvolto da un gran velo denso, accortamente abbassato sul viso, il quale m'impediva di accertarmi se le mie supposizioni fossero state, o no, bene azzeccate.
Avevamo da un pezzo preso una scorciatoia a traverso i campi; e non tanto per evitare d'incontrar gente che la riconoscesse, quanto per trovarci a tempo alla piccola stazione di Bicocca. Vi arrivammo infatti che già spuntava il sole. Il treno avrebbe tardato un quarto d'ora a passare.
Spossata dal viaggio e piú, forse, dalle emozioni, domandò un bicchier d'acqua. Il capostazione invitolla gentilmente a montare nella stanza di sua moglie: lassú avrebbe anche potuto riposarsi un po' meglio che sulle panche di legno della stanzuccia di aspetto.
Le tenni dietro. Smaniavo di vedere in viso la persona alla quale dovevo tener compagnia non solamente per altri due lunghi giorni di viaggio, ma finché il mio amico non avrebbe potuto venire presso lei senza punto farsi scorgere.
Allorché la moglie del capostazione le presentò il bicchier d'acqua, la signora alzò il velo poco piú in su delle labbra e bevve lentamente. Aveva un collo stupendo. La carnagione brunetta tirava un po' al pallido. Dei capelli nerissimi, un viso ovale piuttosto piccolo, un mento gentile, una bocchina stretta come un anello, ma seria per naturale atteggiarsi delle labbra: ecco quello che potei vedere con un'occhiata investigatrice, nell'intervallo di due secondi, tra l'alzata e l'abbassata del velo.
Bella, nello stretto significato della parola, non mi parve potesse essere; intendo di quella bellezza scintillante, sfolgorante, che non si lascia discutere, ma s'impone. Però simpatica sí, molto simpatica, che per me, infine, voleva quasi dire piú di bella. Nel viso di una persona simpatica non par di trovare qualcosa di affine al nostro essere che ci si assimili subito, mentre la persona bella ci rende sorpresi, ammirati, ma ci mantiene come in distanza? Una donna perfettamente bella, a mio modo d'intendere, non può essere amata.
Non avevo però veduto la vera espressione del viso, la sua vera anima, gli occhi: e bisognava attendere per pronunciare un giudizio. Frattanto m'abbandonavo a un lavoro di ricostruzione simile a quello dei naturalisti. Dati quel collo, quel mento, quella bocca, quel colorito della pelle, quella statura, quei capelli, qual'avrebbe dovuto essere l'intiero volto e, piú specialmente, la espressione degli occhi? E una serie di visi ora accennati, ora sbozzati, ora disegnati con accuratezza e coloriti con amore tremolava, brillava, si sbiadiva, spariva, ricominciava ad apparire innanzi i miei occhi fissati sulla panchina agghiaiata, sottostante alla finestra.
La signora intanto, seduta presso il capezzale del letto sur una sedia di paglia, il capo appoggiato ai guanciali, le mani ferme sulle ginocchia, pareva si riposasse dalla fatica del cavalcare e pensasse Dio sa a che!

Il servitore e i due contadini rimasero lí per tornare a casa coi cavalli. Correva poco meno di un giorno di cammino dal posto dove eravamo andati a prendere la fuggitiva, e i poveri animali avevan bisogno di ristoro.
Nel vagone fummo soli, lei, la cameriera ed io. Credetti che lí quel velo importuno sarebbe stato alfine rimosso... Ma niente affatto! Ella adagiossi in un canto come per cercar di dormire, ed io dovetti rassegnarmi a scambiare qualche parola colla cameriera, che non era né giovane né bella, ma aveva una fisonomia intelligente, maliziosa, e prodigava l'«eccellenza».
Cavai di tasca il portasigari e domandai se la signora soffrisse pel fumo.
- Eccellenza no - rispose la cameriera - e nemmeno io.
- Fumi pure - soggiunse la signora senza rimuoversi dalla posizione in cui si trovava. - Non mancherebbe altro ch'ella avesse anche questa noia! Sarebbe un troppo grande sacrifizio: fumi, fumi, la prego -.
Il Jonio scintillava come un immenso specchio contro il sole. La spiaggia disegnava in quel punto una vasta curva, dolcissima, dove l'onda del mare veniva a morire lentamente quasi per languore amoroso. Giardini ancora bagnati della rugiada del mattino, che profumavan l'aria colla loro zagara, strisce di prati, scogliere, gole di colline, strappi di mare e poi giardini di bel nuovo, tutto mi passava velocemente di fianco con la rapida corsa del treno; ed io guardavo sí, ma senza distinguere gli oggetti, come se il velo della mia fuggitiva si fosse anche steso su quella meravigliosa natura, destatasi fresca e gioconda ai primi raggi del sole. Infatti rimanevo lí serio, indifferente, intontito, fantasticando a seconda della facile corrente dell'imaginazione e contento di prestarmi ai suoi piú bizzarri capricci.

Nella stazione di Siracusa ci attendeva una carrozza a due cavalli: ripartimmo immediatamente.
- Ed ora che non ci è piú degli importuni da temere - dissi appena chiuso lo sportello - ella può liberarsi della seccatura del velo.
- Ma... ma... - balbettò.
Intanto spinse risoluta le mani dietro il capo e, staccato uno spillo, rimosse via quell'ingombro.
La guardai sorpreso.
L'avevo già vista altrove? Mi pareva di riconoscerla. Via! non poteva darsi: sapevo con certezza che la vedevo allora la prima volta. Pure nei suoi lineamenti doveva esserci qualcosa di a me noto che produceva quell'effetto; ma non trovavo, lí per lí, una spiegazione plausibile.
Era simpatica. Altro! Gli occhi però non corrispondevano preciso con quelli da me imaginati dopo visti il mento e la bocca. Erano neri, vivaci, ma piccoli, dallo sguardo profondo che a un lieve aggrottar delle sopracciglia assumeva un'espressione di indefinibile tristezza. Mi sentivo imbrogliato. Quegli occhi, senza fallo, gli avevo veduti prima di allora; quell'indefinibile espressione di tristezza non mi giungeva punto nuova. Ma non mi raccapezzavo.
Ella mi tolse dalla confusione domandandomi:
- Si arriverà tardi?
- Alla Marza? Domani - risposi, ricomponendomi subito.
- E viaggeremo tutto questo giorno e la notte seguente? - disse un po' meravigliata.
- No, questa sera ci fermeremo in Rosolini: ripartiremo di buon'ora.
- È un bel posto la Marza? - chiese dopo qualche minuto.
- Stupendo - risposi - massime in questa stagione. Vedrà: qualcosa di strano ch'ella non può imaginare.
- Molte piante?
- Nessuna.
- Una campagna rasa, un deserto?
- Presso a poco -.
E mi fissò tra incredula e dispiaciuta.
Le abbozzai, per tranquillarla, una breve descrizione della Marza, che produsse quasi subito l'effetto voluto. Indovinando poi facilmente il suo naturale ritegno, mi decisi ad essere il primo a parlare di «lui».
- Paolo - dissi - forse non potrà esser lí prima dell'altra settimana.
- Come? - ella fece, - non verrà fra tre giorni?
- Potendo - ripresi. - Ma bisogna esser cauti... capisce?
- Non correrà pericolo, è vero? - chiese, voltandosi piú direttamente verso di me.
- Oh per questo stia tranquilla!
- Dio mio! Vergine santa! - esclamò ripetutamente, guardando in viso la cameriera, come per persuadersi se quella partecipasse i suoi terrori.
- Voscenza stia zitta - rispose la cameriera, che comprese a volo la muta interrogazione degli occhi. - Non facciamo cattivi auguri. Bedda matri! Si cheti! -
Dopo un quarto d'ora il diaccio di ogni primo incontro era bello e rotto, e ragionavamo tranquillamente di mille cose. Spesso però ella interrompeva il discorso per ritornare col pensiero a Paolo, alla famiglia, a ciò che doveva accadervi in quel momento, alla lettera diretta alla sorella, lasciata sul marmo del comodino della sua stanza, e il volto le si abbuiava, e le pupille le si velavano di lagrime; ma infine faceva uno sforzo, sospirava e riattaccava il discorso.
Verso il tramonto, assai prima di arrivare in Rosolini, si avvolse nello scialle, rannicchiossi nel suo angolo di carrozza e stette cosí, pensosa, cogli occhi socchiusi, senza pronunciare una sillaba, fino al momento che, a sera inoltrata, la carrozza fermossi innanzi il portone dell'albergo.
Ci rimettemmo in viaggio prima che fosse l'alba. Ella scese le scale in fretta, con dei movimenti di freddolosa e, appena entrata in legno,
- Vorrei essere di già arrivata! - esclamò con accento di grande stanchezza.
La carrozza partí di galoppo, accompagnata da una musica di sonagli, di chiocchii di frusta e di «ohé! ohé!» del cocchiere.
Avevo dormito poco, interrottamente e mi ero svegliato di malumore. Mi sentivo oppresso da uno di quegli inesplicabili sentimenti che non lasciano ben distinguere se un malessere fisico ne produca in quel punto uno morale, o se un patema d'animo agisca sui centri nervosi, li contragga e li faccia soffrire.
Mentre il piede destro picchiava con dei colpettini irrequieti il fondo zingato della vettura, gli occhi fissavano, macchinalmente, a traverso i cristalli, la tinta uniforme della notte, e l'imaginazione vi gettava ad intervalli dei grandi sprazzi di luce. Era un angolo di paesaggio ridente di sole; era una stanzetta ben nota; era una testina di donna che non giungevo a ravvisare; era un tramonto, veduto non ricordavo piú quando; una pianticina fiorita, un muro coperto di screpolature bizzarre; erano cento simili visioni che dipingevansi di tratto in tratto su quel fondo oscuro come per l'istantaneo aprirsi e chiudersi di una lanterna magica posta sul cielo della carrozza; ed io continuavo, tra sonno e veglia, a osservare senza preoccuparmi d'intendere quali attinenze potessero esistere fra quelle apparizioni disparate e il mio improvviso malumore... Ma forse avevo nel cuore una segreta paura d'intenderle!
Quando l'alba dipinse dei suoi miti colori lo spazio di cielo inquadrato nello sportello della carrozza, accorciai le gambe, mi rizzai sul busto, e vedendo che la signora se ne stava sempre zitta, con un lieve sorriso sulle labbra. - Eccoci a un terzo del cammino! - esclamai dopo aver dato un'occhiata al posto che traversavamo in quel momento.
- Credevo che lei dormisse - disse la signora - e avevo paura di svegliarlo.
- Non ho dormito - risposi - ma intanto ho sognato.
- Desto? - ella fece con un grazioso movimento di sorpresa.
- È il miglior modo di sognare.
- Ah! Non sapevo - replicò la signora. - Mi pareva che si sognasse soltanto dormendo.
- Basta prenderci il verso - risposi. - Io vede? sogno a piacere. Due minuti di raccoglimento, una speciale giacitura del corpo, un particolar modo di fissare la pupilla, ed è bella e fatta: il sogno prende l'aire. Ed ha questo di meglio sul sogno ordinario: posso anche indirizzarlo verso un soggetto determinato, senza timore che perda la sua incoerente natura -.
La signora fece un movimento degli occhi e della bocca come per dire: - Sarà! Ma stento a prestarle fede! -
Durante il silenzio che seguí questo dialogo, io riflettei che trovarsi accanto a una donna simpatica, nel piccolo spazio di una carrozza, coi vetri tirati su, entro quell'atmosfera riscaldata dal solo calore dei fiati, è una sensazione gradevole, quasi voluttuosa che merita di esser provata almeno una volta, specie quando la donna che viaggia con noi non ci appartiene, e non si possono avere verso di essa altri sentimenti fuorché la stima e il rispetto.
Ma dopo cotesta breve riflessione, appena mi accorsi di non essere osservato, tornai, come il giorno innanzi, a guardare attentamente la fuggitiva. L'idea della sua rassomiglianza mi tormentava tuttavia. Anzi non era tanto il non averla ancora trovata quel che mi desse noia, quanto il veder agitarsi dentro di me, e per effetto di essa, un sentimento indefinito di sentimenti dolcissimi provati una volta, che ora venivan lenti a galla dal piú profondo del cuore.
- Ma che stavo a confondermi? Che m'importava a me di quella benedetta rassomiglianza?

Era ciò che mi domandavo la mattina dopo sulla terrazza del villino di Cozzu di Pietra, aspettando che la signora Emilia uscisse dalla sua stanza per far colazione rimpetto al mare, in piena luce di sole.
Però quando apparve sull'uscio non seppi frenare un piccolo grido di sorpresa: era trasfigurata!
Indossava un abito d'indiana colore fior di pomo, brizzolato di minuti tondini rossi, guarnito di un galloncino nero a disegni che davan risalto alla foggia. Il busto le abbracciava strettamente la vita e la faceva parere piú snella. I capelli, semplicemente tirati su e trattenuti sulla testa da un nastro di velluto celeste, luciccavano di ondeggianti riflessi azzurrognoli attorno alla fronte elevata, e ricadevano sulle spalle increspati e abbondanti.
Mi porse la mano domandandomi scusa dell'essersi fatta aspettare; poi dette una rapida occhiata al mare immenso, tremolante dei mille bagliori del sole, un'altra occhiata alla campagna che scendeva, a sinistra, tutta verde di messi quasi fino alla spiaggia; e alzando le sopracciglia e aprendo gli occhi con una viva espressione di piacere:
- Che magnificenza! - esclamò.
E rivolgendosi a me, che stavo lí immobile a fissarla:
- Non è vero? - soggiunse.
In quel momento io mi sentivo interdetto: respiravo appena. La rassomiglianza, cosí ostinatamente cercata e non potuta trovare, mi era all'improvviso saltata agli occhi, dandomi una fortissima scossa.
- Che stupido! Come non me n'ero accorto subito? Come avevo potuto aspettare fino a quel momento per riconoscere ciò che avevo confusamente avvertito, appena veduta quella donna? Sospettando di avere addosso qualcosa di strano che mi facesse impressione, la signora Emilia osservò, voltandole e rivoltandole, attentamente le sue mani, distese ad una ad una le pieghe del davanti della sua veste, e non scoprendo nulla che giustificasse quel mio fissarla cosí insistente, - O perché mai...? - domandò quasi mortificata, senza finire la frase.
- Scusi, scusí! - mi affrettai a dire. - È proprio un caso incredibile!
- Che cosa? - ella fece, confusa d'intendere assai meno di prima.
- Oh! Nulla - risposi. - Ella somiglia tanto, ma tanto! a una persona di mia conoscenza...
- Non è che questo? - m'interruppe ridendo. - È una fortuna per me.
- Ma cosí identicamente - continuai senza punto badare al complimento, - cosí identicamente che non può nemmeno idearlo!
- Una persona... molto cara... m'imagino! - disse, pronunziando le parole con tono di graziosa malizia.
- Molto! - risposi vivamente.
- Tanto meglio - ella riprese. - Cosí patirà meno la noia di questo esilio della Marza.
- Non mi sarei annoiato lo stesso.
- Grazie! - disse la signora tornando a ridere. - Ma ora son certa che vi rimarrà con piacere.
- Coll'egual piacere di prima.
- Però cotesta sua amica - ella osservò - non sarebbe forse molto contenta se sapesse che ha già stentato due giorni prima di riconoscerla nei miei tratti.
- Ah! V'era qualcosa che me lo impediva - risposi: - il suo vestito, la sua acconciatura del capo, la...
- E poi forse - m'interruppe con un sorrisetto di celia - questa identità che mi assicura non sarà proprio un'identità.
- Sí, è vero - risposi. - Per esempio, le voci hanno due intonazioni diverse.
- E niente altro?...
- Parmi, sí, qualcosa... ecco, nell'aria della persona - dissi ingenuamente, ma esitando; - l'altra è piú dimessa, piú seria.
- Cosí? - E prese un atteggiamento di serietà senz'affettazione né caricatura.
- Precisamente, Dio mio!
- Starò seria tutto il giorno, se può farle piacere!
- Oh! ma non creda... - dissi con simulata indifferenza.
Poi, per far divergere il discorso:
- Se qui ci fosse una tenda! - esclamai; - vi si potrebbe qualche volta anche desinare col sole. La sera però, volendo, potremo cenare al chiaro di luna come si fa nei romanzi.
- Ha dormito bene? - quindi le chiesi dopo alcun istanti di silenzio.
- Poco - rispose. - Che vuole? - E fece una mossa del capo e degli occhi, quasi volesse dire: - Sono forse tranquilla?

Rimasi per tutta la giornata col capo intronato. Non sapevo capacitarmi che i lineamenti della mia Iela potessero quasi ripetersi in un'altra persona.
Iela! Il mio ideale, il dolce sogno della mia giovinezza! La sola donna che io abbia sempre amata anche amandone delle altre?
Tu sai bene, amico mio, che non posso ancora, dopo tant'anni, pronunciar questo nome senza tremare di commozione! Tu sai che la imagine di lei non solamente ha resistito nel mio cuore a tutte le offese del tempo e dei mille casi della vita, ma che ogni mese, quasi a giorno fisso, torna a stringermi affettuosamente tra le sue braccia ideali, con un raccoglimento piú che religioso, con una vera estasi di parecchie ore, durante le quali l'idillio della mia giovinezza ricanta allegramente le sue gentili canzoni.
- Fanciullaggini! Ridicolezze! - tu mi hai spesso ripetuto sentendomene a parlare.
Ed io ti ho sempre risposto
- Può darsi, ma fanciullaggini divine! Da chi ho mai ricevuto consolazioni piú profonde? Da chi conforti piú ineffabili? -
Purificata, idealizzata da un lungo e segreto lavorio, pel quale il carattere, le circostanze della vita e l'indole dei miei studi si porsero a vicenda la mano, la malinconica figura della Iela assunse presto pel mio cuore e pel mio spirito il valore di un simbolo. Pavento anch'oggi come una sciagura il momento in cui potrò forse dimenticarla, o mi rimarrà indifferente. Ed ecco perché il vederla cosí riprodotta, vivente, nella persona della signora Emilia mi sconturbava tanto e mi rendeva come ingrullito.
Avrei provato verso questa donna gli stessi sentimenti che per la Iela? Gli avrebbe essa modificati? Alterati? Il gentile e sacro ideale della mia vita avrebbe patito per tale incontro una mutilazione, che mi metteva i brividi al solo pensarvi?
Tentavo distrarmi da queste idee, ma non riuscivo.
Eravamo andati a visitare l'antico casamento della Marza, un tratto assai breve di passeggiata. L'atrio merlato; il cortile ingombro di erbe; la chiesa in rovina e già ridotta a fienile; le stanze vaste ma inabitabili; le rovine di un altro casamento lí accanto, una volta dei frati carmelitani, deviavano di quando in quando la mia mente da quella fissazione ostinata. Dovevo farla da cicerone, dovevo dare degli schiarimenti, dovevo appagare le mille curiosità femminili destate da un sasso, da una grondaia, da un gruppo di rigogliose viole a ciocche cresciuto sull'architrave della porta della chiesa, e rispondere alle cento domande che il posto naturalmente suggeriva.
- Quella bianca cupola in fondo, cosí staccata sul grigio della pianura?
- È della chiesa di Pachino.
- E quel colle con quel vasto e severo edificio sulla cima?
- Il colle di San Basilio e la villeggiatura dei proprietari.
- E quel tondo nero in mezzo al mare, non molto lontano dalla spiaggia?
- L'isoletta dei Porri -.
La giornata era splendidissima. Un vero sole di primavera; un'aria profumata dagli odori particolari delle messi e delle erbe selvatiche in fiore.
Ma quel sole, quelle messi, quelle erbe selvatiche in fiore mi richiamavano alla mente un'altra giornata di maggio e una piú bella compagna. La Iela appoggiavasi, sorridente, al collo rustico di un pozzo sulla spianata accanto all'aia. I piccioni domestici beccavano ai suoi piedi i grani di orzo e di frumento ch'ella faceva cadere a poco a poco dal pugno della mano destra levata in alto; un cane bigio scodinzolava fisso, col muso in aria, quasi aspettasse anch'esso qualcosa.
- A che pensa? - mi chiese la signora, vedendomi rimanere cosí assorto e poi uscire da tale stato con un profondo sospiro.
- Penso - risposi - che è bene ci siano al mondo delle felicità che non si possono mai possedere!
- Perché? Una felicità che non si possiede è piuttosto un dolore.
- Perché - ripresi - per possedere certe felicità e possederle per sempre (aggravai la voce sul «certe» e sul «sempre»), l'unico mezzo, cara signora, è il non possederle giammai.
- Una donna - ella osservò - non parlerebbe a questo modo.
- Perché? - chiesi alla mia volta.
- Perché nella vita noi siamo molto piú pratiche.
- Questo mi sorprende dopo quanto mi ha detto sui mille romanzi che ha letti.
- È vero, ho letto molto - ella fece con scherzevole serietà; - ma piú creda, ho vissuto! -
Mi tornò alla memoria quel po' della sua vita che mi aveva confidato la sera innanzi. Sentivo susurrarmi all'orecchio: «Ho sofferto, ho lottato!» E poi in tono piú severo, come l'ultimo resultato della sua triste esperienza: «Non c'è che il possesso che renda felici; tutto il resto è illusione!»
Ma io protestavo internamente: - Oh! Non è illusione! -

Si accorse presto del mio debole, e mi sorrideva in viso maliziosa, quantunque non osasse apertamente canzonarmi. Richiamava spesso il discorso sul «mio ideale», com'ella diceva, e m'interrogava con curiosità, quasi provasse del gusto a delicatamente tormentarmi.
- Era molto piú piccola di me? - mi domandò una volta ex abrupto,- mentre appoggiata al mio braccio saliva uno dei tanti mucchi di sabbia del piccolo Sahara della Marza.
- Piú gracile assai - risposi a malincuore, non sapendo dove quella interrogazione avrebbe voluto condurmi.
- E, maritata, è rimasta sempre la stessa?
- Sempre. Rivedendola dopo un lustro, mi parve soltanto un po' piú pallida e assai piú triste.
- Non è dunque felice?
- Ahimè, poverina! - esclamai.
- La colpa è un po' anche sua! - fece ella sorridendo e piegando di lato il collo per guardarmi negli occhi, mentre agitava in aria l'indice della mano sinistra con un gesto accusatore.
- Dica del caso, delle circostanze: eravamo tanto ragazzi tutti e due!
- Ma un po' l'avrà, credo, consolata... dopo - insinuò con un accento di fina malizia che mi fece trasalire.
- Oh! No! - dissi risoluto, levando alta la fronte. - Quella donna è per me proprio morta. Io non amo che la ragazza, un ricordo, un fantasma! Infatti ciò che rende questo sentimento piú fiero e piú orgoglioso della sua purezza, è l'idea ch'essa lo ignori.
- Che assurdo! - esclamò con vivacità. - Una donna amata può, se vuole, anche fingere di assolutamente ignorare; ma ignorare per davvero...!
- Le assicuro che ignora - insistevo.
E intanto sentivo battermi il cuore all'idea che quel mio sentimento non vibrasse ignorato. Avrei però voluto esser io solo a sospettarlo.
La signora Emilia divertivasi a salire, a discendere pei mucchi di sabbia sparsi, come tanti tumoletti, lungo la spiaggia; e, attaccata al mio braccio, mi spingeva ridendo a correre per quella stesa mobile, gialliccia che s'inoltra a perdita d'occhio, di lungo e di traverso, come un deserto in miniatura.
Era uno spettacolo affatto nuovo per lei; e le riesciva piú gradito perché le dava l'impressione di una grandissima lontananza da casa sua. Evidentemente ella provava un forte bisogno di dimenticare qualcosa, e le si leggeva negli occhi, benché volesse darlo a comprendere poco.
Vi ritornammo parecchie volte nei giorni appresso, ora ad ammirarvi l'alzata del sole, ora a provarvi il calore meridiano per formarci una idea approssimativa del vero deserto, ora a godervi gli effetti del chiaro di luna.
I raggi lunari, investendo della loro luce bianchiccia quella vasta e brulla estensione di sabbia, davan risalto colle ombre a tutte le disuguaglianze del terreno, e il luogo assumeva cosí un aspetto strano e pauroso che nessuno, di giorno, si sarebbe imaginato. Le onde svogliate del mare, battendo monotonamente sulla spiaggia poco discosta, facevano un perfetto contrasto col silenzio che incombeva dall'altro lato su quella solitudine sconfortata. Pareva di essere chi sa a quante miglia da ogni creatura vivente, sperduti, senza speranza di soccorso, entro un oceano di sabbia. La configurazione del terreno contribuiva, celandone i limiti, a far credere immensa quell'estensione di poche miglia.
La signora Emilia lanciava ad ora ad ora per l'aria cheta un allegro scoppio di risa che suonava piú argentino del solito e vi si perdeva senz'eco. Io, quando stavamo zitti, canterellavo una romanza. E intanto andavamo su e giú, facendo il giro dei pantani, gettando delle manate di sabbia fra i giunghi attorno per far levare le anitre, le folaghe ed i gheppi lí rimpiattati.
Ma io, dico il vero, non mi svagavo di molto.
Nei giorni precedenti mi ero piú volte sorpreso intentissimo a guardare la signora Emilia con un sentimento di dolce compiacenza che non scaturiva soltanto della sua somiglianza colla Iela. Ed ora, in quel posto, tornando silenziosi verso casa, avvertivo con stizza che il calore del suo braccio, appoggiato con naturale stanchezza sul mio, mi faceva pensare a qualcosa di vagamente sensuale che s'infiltrava nella pura atmosfera del mio spirito e cominciava a viziarmela.
Pur troppo era vero!
La signora Emilia mi aveva rapidamente svegliato nel cuore tutti gli ardori dei miei sedici anni e con l'uguale freschezza di una volta. No, non vivevo insieme ad essa alla Marza, ma colla mia Iela evocata lí, per miracolo, da una misteriosa potenza che ne aveva, un pochino, alterato i lineamenti e le gracili forme. Capivo però benissimo come oltre a quei sentimenti se ne fossero sviluppati dei nuovi che legavansi strettamente a quegli altri e quasi servivano a completarli: temevo appunto di questi.
Alcune parole, alcune frasi della signora Emilia, mi turbavano da qualche giorno in un modo incredibile. Certe occhiate, certi sorrisi, certe inflessioni della voce che piú vivamente riflettevano o rammentavano, anche dalla lontana, le occhiate, i sorrisi, le inflessioni della voce della Iela, mi facevan provare delle scosse, dei tremiti, dei languori che talvolta arrivavano perfino a spossarmi. Ed io soffrivo di questo sovrapporsi di lei, di questo suo impertinente sostituirsi alla cara imagine che formava da tanti anni il culto piú sacro della mia vita. Soffrivo, ma non resistevo, non reagivo; mi lasciavo sopraffare. Provavo qualcosa di simile a quelle tiepide correnti sottomarine, delle quali ci parlano i pescatori di corallo, che intorpidiscono nelle mute profondità delle acque il sentimento della vita e fanno assaporare la morte come una delizia ineffabile. Sentivo che ormai quel fascino mi aveva avviluppato in modo da non poterne piú vincere la malefica azione.
- E poi? - mi chiesi una sera indignato, piantandomi rimpetto alla mia ombra proiettata dal lume sul muro bianco della stanza.
E siccome l'ombra non rispondeva,
- Tu sei un vile! - schiaffai sul viso di quell'altro me stesso che mi vedevo coll'imaginazione confuso ed abbiosciato lí innanzi.
E andavo su e giú tirando buffi di fumo fantastici da un sigaro spento.
- Miserabile! - continuavo - tu carezzi dei desideri che non osi schiettamente confessare nemmeno a te stesso! Già stai per trascinare nel fango il piú puro sentimento che abbia nobilitato la tua vita! Già non sei piú ben sicuro se, tradendo la fiducia del tuo amico, commetti un'indegna azione! E tornavo a spasseggiare, stritolando fra l'indice e il pollice la punta del sigaro col pretesto di ravvivarlo.
Queste parole mi facevano montare le fiamme al viso, proprio come se fossero state pronunziate da un'altra persona, da un amico severo, venerato pegli anni e per l'esperienza della vita. E cercavo di scusarmi; e mentalmente rispondevo:
- Andiamo! Via! Tu esageri: non son capace di tanto! Tradir la fiducia del mio amico? Nemmeno per ridere! Volessi pure, quella donna lí... Ma non completavo il periodo. Sentivo di mentire e mi fermavo esitando, un po' per persuadermi che m'ero forse potuto illudere, un po' per l'involontaria compiacenza di scoprire che pur troppo non m'ero illuso. Quella donna non sarebbe stata forte! Lo indovinavo. Da che? Da mille piccoli e quasi impercettibili indizi che sarebbero sfuggiti ad ogni altr'occhio meno interessato del mio.
- E poi? E poi? - ripetevo con insistenza.
E rimanevo sbalordito, addolorato, vedendo come l'imagine della mia Iela avesse un momentino potuto offuscarsi; indegnato che la rassomiglianza mi fosse, mio malgrado, servita da mezzana per sentimenti affatto opposti a quelli ispiratimi da lei.
- Che debolezza! Che vigliaccheria! -
Oh! No, volevo esser omo; resistere, vincere anche sfidando il pericolo: dovevo al culto della mia Iela una riparazione di questa fatta!
E andiedi a letto consolato.

Avevo noleggiato una barca che venne a prenderci allo spuntare del sole.
Un marinaio dai larghi e corti calzoni rivoltati in su fino all'anguinaglia ci portò in collo di peso, una appresso all'altro, nella barca; poi diede una spinta alla poppa, e la barca, che era mezzo arenata, si cullò tosto mollemente sulle onde dopo aver traballato un pochino pel peso del marinaio saltatovi dentro.
Il mare era una tavola. Dei larghi riflessi verdognoli, azzurri, rossastri lo colorivano in diverse direzioni, divisi da strettissimi orli fosforescenti; le varie correnti marine lo striavano a fior di onda come tanti solchi di rotaie sur un immenso piazzale.
La signora Emilia batteva le mani e dava in esclamazioni di sorpresa e di gioia. L'acqua doveva produrle dei fascini violenti che le lampeggiavano nelle pupille con incredibile vivacità. Di quando in quando, ad un'ondata che turbava il moto regolare della barca, ella cacciava un piccolo grido (non sapevo ben discernere se di paura o di piacere) e mi diceva ridendo:
- Se si cadesse in mare? - E scoteva la testa e la persona quasi già provasse i brividi del freddo contatto delle onde.
Io la guardavo tranquillo, dominando le mie impressioni, lieto di vedere che potevo opporre qualcosa alle involontarie seduzioni di lei. I miei sensi erano calmi, l'equilibrio del mio spirito perfetto; ma questa contentezza interiore doveva certamente tradurmisi sul volto in un'insolita serietà e in un raccoglimento che mi faceva star zitto. - Si annoia? - ella mi chiese dopo un buon tratto di silenzio.
- No davvero - risposi.
- Eppure si sospetterebbe che il suo pensiero non sia qui: non dice nemmeno una parola!
- I grandi spettacoli della natura mi rendono muto.
- Oh, non le faccio torto dell'annoiarsi! - ella continuò. - Però mi dispiace che debba annoiarsi per cagion mia. Anche l'amicizia ha i suoi pesi!
- Ma niente affatto. Non merito ch'ella si formi di me una sí cattiva opinione -.
Approdammo all'isoletta dei Porri, un largo scoglio quasi piano, sollevato di qualche metro fuori del mare che vi balla attorno spumante. Lo percorremmo in pochi minuti, poi ci sedemmo nel centro rimpetto alla spiaggia. La campagna ci si spiegava sotto gli occhi colle sue linee larghe, colle sue mille tinte di verde che si armonizzavano insieme. Lontano, in fondo, entro una nuvola di vapori dorati, torreggiavano nel cielo opalino le cupole e i campanili di Spaccaforno infiammati dal sole. Il mare rumoreggiava da ogni lato dell'isoletta con urli sordi, con scrosci interrotti. Di tratto in tratto vedevamo qua e là sollevarsi gli spruzzi iridati dei cavalloni irrompenti sui fianchi piú bassi.
- Ecco un posto - ella disse - ove abiterei volontieri, ed ove vorrei morire tutt'a un colpo, ingoiata dal mare quasi prima di accorgemene.
- Che fantasia! - esclamai ridendo. - E vorrebbe vivervi sola?
- Oh! No - rispose; - dicono che soli non si starebbe bene neppure in paradiso: ma in due, con un'altra persona che avesse il medesimo gusto, che trovasse nella mia compagnia, come io nella sua, una ragione bastevole per non farle rimpiangere il mondo!... Sciocchezze, è vero! - soggiunse sospirando. - Bisogna invece contentarsi della dura realtà! Ecco: pel mio cuore di donna, questo misero scoglio potrebbe valere l'intiero universo. Ma pel cuore di un uomo? Com'è triste il pensare che noi, nel cuore dell'uomo, possiamo appena appena essere un accessorio!
- Oh! Scusi - dissi. - Non è sempre cosí. Vi son delle donne che riempiono tutta la nostra vita del loro benefico influsso; che diventano la miglior parte dell'anima nostra, del nostro spirito, e sopravvivono in noi anche quando le relazioni esterne della vita son rotte per sempre.
- Iela! - esclamò, fissandomi in volto con uno sguardo ove sorpresi un lampo di dolore e d'invidia.
Quel nome, pronunciato dalla sua bocca, mi diede i brividi.
Vedendo che io tacevo, la signora Emilia mi prese amichevolmente una mano: e con accento interrotto, pieno di rimpianto e di affetto represso,
- Come dev'esser felice quella donna! - mi disse. - Darei metà della mia vita per essere amata allo stesso modo. - Dio mio! Sento già tremare questa mano al solo ricordo, e veggo quegli occhi inumidirsi... E son già dodici anni!
- Ma quanti dolori! - soggiunse - quante tristezze! - Una felicità troppo cara e che certamente, ahimè! non esisterebbe se invece di essere stati proprio a tempo divisi, ella avesse potuto vivere unito alla sua Iela, o l'avesse posseduta un istante tutta intiera fra le sue braccia!... Ma, caso o no, quella donna intanto dev'essere troppo felice. Chi non cangerebbe la propria con la sua sorte? Chi non vorrebbe provare la sua tremenda voluttà di doversi, col corpo, concedere all'uomo che non ama, e di darsi nel punto stesso, collo spirito, al suo assente adorato!
- Oh no! no! - interruppi indignato. - È un amore di altro genere. Ella non lo intende... non può intenderlo!
E mi rizzai in piedi.
Avevo bisogno di esser scortese...
«La tremenda voluttà di doversi concedere!»
Queste parole mi eran sonate all'orecchio come una profanazione. Oh! La signora Emilia mesceva la sua bassa sensualità ad un sentimento che non avrebbe appannato il cuore piú puro.
Sí, avevo bisogno di esser scortese! E non solamente per protestare, ma anche per difendermi dalle strane impressioni della sua voce che mi s'infiltravano per tutto il corpo come un'onda di latte. Sentivo dolcemente vellicarmi i nervi con un'irritazione delicata, raffinata e temevo di dimenticare troppo presto le belle risoluzioni della notte innanzi.
Ma fu un momentino.
Mi sedetti subito ammansito: volevo correggere quell'impeto troppo violento che l'aveva un po' mortificata.
- Perdoni - le dissi; - oggi son nervosissimo. Quel ricordo della Iela mi disturba. Osservi: ho le mani fredde, un diaccio! -
E toccavo le sue.
Ella mi guardava ammirando, colle sopracciglia un po' aggrottate, colle labbra strette e la faccia alquanto sollevata verso di me come per fissarmi meglio. Era la Iela, preciso la Iela!
Distorsi gli occhi. Se stavo a guardarla ancora, forse non sarei piú stato padrone di me e avrei commesso qualche sciocchezza.

Me la prendevo con Paolo che non veniva.
Intanto i giorni passavano apparentemente uniformi, ma il mio cuore era sconvolto. Oramai non lottavo piú, non resistevo; ma ragionavo, ma tentavo scusare agli occhi della coscienza la mia vigliacca debolezza.
Non ero ancora arrivato al punto di dimenticare i miei doveri di amico; non osavo ancora pensare che, come tant'altri, quest'amore avrebbe potuto scivolare anch'esso sul mio cuore senza lasciarvi segno, senza ledere i diritti del purissimo affetto della Iela; no, tal ragionamento mi sarebbe parso un'empietà. La rassomiglianza della signora Emilia con la Iela era cosí grande; la passione (perché non dirlo?) che quella mi destava era un cosí vivo riflesso del ricordo di questa, che non avevo il coraggio di giustificare innanzi ai miei occhi neanche la possibilità di un tal caso.
Mi limitavo a concedere che non era poi un gran delitto amar quasi di bel nuovo la Iela in quel suo ritratto vivente; riamarla colla stessa semplicità di cuore, colla stessa purezza dei miei sedici anni. Mi sembrava anzi che il culto del mio spirito verso di lei si sarebbe rinfocolato meglio al contatto di una quasi realtà; una seconda giovinezza mi sarebbe rifiorita nel cuore!
La signora Emilia era troppo esperta della vita da non comprendere colla sua acutezza femminile quel che avveniva nel mio interno. Se ne compiaceva, vi si divertiva: veniva, alla sua volta, allettata dalla stranezza del caso e dal suo amor proprio di donna cosí fortemente lusingato.
- E Paolo? E la fuga? E la sua passione? -
Ahimè! Nulla di piú vero di quel tristo proverbio: gli assenti hanno torto.
Già ella forse non si accorgeva di venir meno al suo dovere: forse, al par di me, e lottava e cedeva e transigeva... Chi lo sa? Forse anche provava contro quell'incognita amata delle gelosie di rivale. Non sapeva perdonarle di venire fin lí ad invasarmi in tal guisa il cuore da contrastarle perfino quel piccolo tributo di simpatia che la donna la piú onesta è lieta di ricevere come un buffo d'incenso alla bellezza o alla bontà! E voleva vendicarsene, voleva avvilire la povera rivale colla stessissima arme della rassomiglianza con cui essa era venuta ad assalirla nel suo piccolo regno!
Spesso le intravvedevo negli occhi qualcosa di piú, come una sfida, una rabbia di provarmi che non soltanto l'amor puro, l'amore ideale lasciava perenne il suo ricordo nel cuore; ma che vi potevano esser dei baci, degli abbracciamenti, da scuotere da cima a fondo tutta l'essenza della vita e assai piú terribilmente, assai piú durevolmente di quelle vaghe fantasie da collegiale che io nella mia inesperienza giudicavo la suprema delle felicità che un uomo potesse raggiungere al mondo. E allora i suoi sguardi lanciavan delle fiamme che venivano a lambirmi il cuore colle loro lingue di fuoco; e la sua bocca sembrava transudasse delle picciolissime stille di un liquore inebbriante che attirava con forza irresistibile le mie labbra per succhiarlo e assaporarlo fino all'ultima gocciolina, fino a ridurre le labbra di lei piú aride di un sasso...
Mi occorreva certamente un gran sforzo per restar ragionevole e savio.

Un giorno ella mostrommi il desiderio di voler raccontata tutta intiera, per filo e per segno, la storia della Iela. Non seppi rifiutarmi.
Da prima ero deciso di accennarle soltanto i sommi capi di quel delirio, di quell'estasi di amore durata tre anni. Ma, narrando, mi sentii di mano in mano soavemente travolto dai miei cari ricordi; piú non seppi che scegliere, e mi lasciai andare a briglia sciolta dietro i bei fantasmi della mia giovinezza, quei fantasmi che hanno avuto una cosí grande influenza su tutto il resto della mia vita.
Ella ascoltava intentamente, avidamente, con una agitazione ed una commozione che aumentavano come piú il mio racconto si coloriva e si animava. A un certo punto però fece un brusco movimento delle palpebre e del capo; e: - Basta per oggi - mi disse con affettata indifferenza. - Veggo che si riscalda troppo: non vorrei le nuocesse -.
Si alzò dalla sedia che aveva fatto recare sulla terrazza, scese i pochi scalini della gradinata, girò sbadatamente pel piano lí innanzi, tutto coperto di erbe selvatiche e di stelline gialle e bianche tremolanti sui loro lunghissimi steli ad ogni piccolo soffio, poi fermossi innanzi ad una statuetta greca che giaceva ancora distesa presso il posto dove l'avevano scavata.
- Ha letto - mi chiese con un tono di voce tranquillo - la iscrizione che orna i lembi del pallio di questa Dea? -
Seguivo coll'occhio turbato tutti i suoi movimenti. Avevo subito compreso quel brusco interrompermi, quella forzata indifferenza, e mi sentivo venir meno la forza di dissimulare di aver capito. Se non davo retta ad un ultimo fievolissimo rimprovero della coscienza, mi precipitavo senz'altro pegli scalini, e correvo a buttarmele ai piedi per baciarle furiosamente le mani e dirle le cose insensate che già mi gorgogliavano in gola...
Quella domanda mi calmò.
- L'iscrizione è monca - risposi. - Pare dovrebbe dire: «Ad Heraz la sacerdotessa (il nome è illeggibile) nella festa di marzo».
- Povera Dea! - esclamò quasi non sapesse che dire. A me intanto parve avesse voluto sottintendere:
- Povera Iela! -
E mi sentii stringere il cuore.

La notte presi un'energica risoluzione: decisi di fuggire. Se, per poco, cedevo a quella tempesta di sensi scoppiatami cosí improvvisamente nel petto, non sarebbe stato soltanto il culto ideale della Iela quello che avrebbe naufragato; ma insieme ad esso, la mia dignità di uomo e, soprattutto, la lealtà del mio carattere di amico. Decisi di fuggire, ma all'insaputa dell'Emilia (già nel mio interno avevo soppresso il «signora»); ero certo che, di viso a viso, non avrei piú messo in atto quell'urgentissima risoluzione.
Scrissi, la sera, due paroline di lettera e la situai sul tavolo di mezzo, onde desse subito agli occhi. Mi levai prima dell'alba. La mia stanza, come tutte le altre, aveva una finestra molto bassa che rispondeva sulla terrazza. Apersi l'imposta con cautela, scavalcai senza stento il davanzale e mi avviai in fretta verso la stalla.
Il contadino, che custodiva le cavalcature messe a mia disposizione dal fittaiuolo dell'ex feudo, dormiva vestito sulla ticchiena, una specie di letto murato. Lo svegliai, lo aiutai a insellare una giumenta e presi la carreggiata.
Contavo di recarmi in Spaccaforno, confidare il mio caso a un vecchio amico e pregarlo di andar lui, per qualche paio di giorni, a tener compagnia alla signora; Paolo aveva già scritto che fra due settimane sarebbe arrivato. Quell'amico era un uomo serio, e in quanto a discrezione potevo dormire fra due guanciali. Doveva, da giovane, essere anche stato molto galante; conservava tuttavia il motto arguto e l'aneddoto gaio a dispetto dei suoi acciacchi, nei quali la galanteria della giovinezza entrava forse per qualche cosa. La Emilia non si sarebbe certamente annoiata con quel vecchietto che pareva aver concentrato tutta la vita negli occhi. E se si fosse anche annoiata? A me premeva soltanto di evitare il pericolo.
La giumenta andava lentamente: chi badava a spronarla? Ero troppo assorto nei miei pensieri. Avevo dispetto di commettere la viltà di quella fuga, e tentavo di trovar in fondo al cuore una dose di fortezza bastevole a guarentirmi; ma non la trovavo.
Ero ridicolo. Cento altri al mio posto non avrebbero avuto tanti scrupoli. Io stesso, se non ci fosse stata di mezzo la rassomiglianza colla Iela, sarei poi rimasto cosí virtuoso? Non dicevo né sí, né no, ma sorridevo sarcasticamente: mi canzonavo da me.
La giumenta, lasciata in pieno suo arbitrio, rallentava il passo: sí fermava a strappare delle grandi boccate di erbe, e si voltava di qua e di là colla testa, quasi per interrogarmi su quel che avrebbe dovuto fare. Ad intervalli io mi riscotevo, le davo una stretta immeritata di sproni, tiravo in su la briglia, e la giumenta, poverina, riprendeva il trotto.
Era già l'aurora. Le allodole trillavano festosamente sui campi di frumento; mille altri uccelli rispondevano dalle siepi e dagli alberi. Le messi, ai lati della strada, ondeggiavano come un mare ai soffi del venticello mattutino, facendo un rumore secco, stridente colle teghe delle loro spighe. Un misto di odori di erbe fresche, di profumi di fiori e di acri emanazioni di terreni coltivati mi si affollava alle narici e alla gola, e mi faceva provare la speciale sensazione dell'aria della campagna, che par fortifichi le fibre ed allarghi i polmoni.
Questa sensazione mi produsse l'effetto di un vero calmante. Senza darmene per inteso, feci rivoltar addietro la giumenta e ripresi il cammino verso la Marza. Ero vergognoso: non volevo nemmen rammentarmi di aver tentato quella fuga. Dalla strada spiavo le finestre del villino di Cozzu di Pietra: erano sempre chiuse. La mia lettera non poteva fortunatamente essere stata scoperta. E davo di sproni alla giumenta, che scuoteva la testa costernata di quell'insolito trattamento.
Volevo arrivare senz'esser veduto. Ma sí! Quando fui a pochi passi dal villino, la finestra dell'Emilia si aprí, ed ella sporse fuori il capo curiosa di vedere chi potesse venire a cavallo.
- Oh, lei, signor Carlo! - esclamò con sorpresa.
- Buon giorno! - risposi, cercando di dissimulare il turbamento che quell'incontro mi produceva.
- Ha fatto una passeggiata troppo mattiniera, perbacco!
- Una gran bella cosa! - feci io, accostandomi colla giumenta proprio sotto la finestra, involontariamente curioso di vederla daccosto.
Ella era nel piú bel disordine del mattino, appena levata da letto. I capelli le scendevano tutti scinti arruffatamente pel collo; un leggero scialle a colore le copriva le spalle, aprendosi innanzi il petto e lasciando vedere gli smerli della camicia ampiamente scollata che contornavano la sua fresca carnagione poco piú in giú della gola; la pelle del suo volto aveva ancora quel che di madido che vien dal calore delle coltri; gli occhi erano contornati da certe pesche sfumatamente azzurre, le quali davan risalto al magnifico splendore delle pupille. Accostava quel piccolo scialle alla vita con un atteggiamento che voleva esser pudico ed era procace. Le braccia, sfuggenti ignude dalle corte maniche della camicia, reggevano a stento le vesti tirate su in fretta, cadenti da ogni parte con voluttuoso abbandono, e le davano l'aria di una donna uscita allora allora dalla stretta di focosi abbracciamenti, coll'ambrosia sulle labbra dei baci dati e ricevuti.
A tale vista sentii subito fremere nelle mie vene tutte le indomite potenze del sangue: ebbi degli abbagliamenti, delle vertigini. La casta e malinconica figura della Iela, offuscata dagli splendori di quell'apparizione sfolgorante, non trovò piú forza di farsi scorgere dalle mie pupille intorbidate.
- Una gran bella cosa! - ripetei, senza proprio sapere quel che mi dicessi, divorandomi intanto cogli occhi quel corpo semivestito, a cui la licenza della mia imaginazione levava dattorno ogni velo.
- A rivederci! - ella disse, arrossendo di scorgersi cosí avidamente guardata.
E con un movimento di gazzella impaurita chiuse le imposte dopo avermi fatto un sorriso ed un inchino col capo. Era sparita! Ma io però, rimasto lí immobile, la vedevo tuttavia nettamente dietro i cristalli, come se le vibrazioni luminose prodotte dal suo corpo fosser rimaste impresse nell'aria e ve ne mantenessero l'apparenza.

Ero già pentito di essere ritornato. Mi vedevo sull'orlo dell'abisso e sentivo il terribile fascino delle profondità: una piccola spinta, e cadevo lanciato nel vuoto. Dei brividi mi correvano per la persona. Oh quel Paolo maledetto!
E la Iela, il mio gentile ideale?
M'ingegnavo di persuadermi ch'esso avesse pur troppo bisogno di questa specie di nuova incarnazione per ridursi completo; la sua forma affatto spirituale prendeva nell'Emilia le agili letizie del corpo; oh! Sarebbe rimasta sempre lei, la mia Iela, ma avrebbe assunto qualcosa che me l'avrebbe resa piú omogenea.
Futili sottigliezze del cuore che non voleva confessare la propria debolezza; artifizi della coscienza che non aveva il coraggio di accettare la sua colpa a viso aperto e dire per iscusa: è piú forte di me!
La giornata era calda; l'estate batteva all'uscio. I raggi del sole penetravano il corpo di una lassezza piacevolissima, come di voglia di sonno. Le farfalle erravano turbinose di qua e di là; le mosche verdi volavano impertinenti attorno il viso, con quel loro ronzio prolungato, un vero adagio musicale di ninnananna che cullava i sensi e li legava col suo torpore. Ad ogni muover di passo fra le erbe, i fiori, il timo, la nepitella e il cardospino, migliaia di piccoli insetti si levavano a volo e tornavano, quasi subito, a rannicchiarsi di bel nuovo all'ombra delle foglie e dei calici per ripararsi dal sole.
Appoggiata al mio braccio, ella ora percoteva colla punta del suo piedino i cespugli fioriti, ora allungava la sua canna da pesca appoggiata alla spalla per disturbare le carezze delle farfalle sul letto dorato delle pratoline; e intanto canticchiava delle parole inintelligibili, dondolando lievemente la testa.
La spiaggia formava lí presso un piccolo seno scavato nella costa dal continuo rodere dell'onda. Un letto di sassi lisci, arrotondati, di diversi colori, poco piú largo di uno stanzino, veniva circondato dalla curva della costa all'altezza di due metri; vi si scendeva per una rozza scalinata, la quale non accusava certamente la mano dell'uomo.
- Vedrà che magnifica pesca! - ella disse, adagiandosi sur un sasso da me preparatole per sedile.
- Oh! - risposi ridendo; - i pesci saranno lietissimi di esser pescati da una mano cosí gentile -.
E, inescato il suo amo, lanciai il filo nell'onda.
L'onda ci lambiva i piedi; quella piccola diga di sassi ne smorzava la stesa. Nelle fonticine formate fra sasso e sasso dagli spruzzi dell'acqua e dai meati della diga, vedevansi correre i piccoli granchi marini sul fondo arenoso. Le patele solitarie stavansene aggrappate ai sassi col loro grigio gusciolino che si lasciava scorgere appena. L'olio di mare agitava le sue filamenta a seconda dell'onda, o le arricciava e le formava ad arco per assorbire dai muschi le sue impercettibili prede.
Dopo aver dato un po' la caccia ai granchi marini e alle patelle, inescai alla mia volta l'amo e mi sedetti accanto a lei, sui ciottoli, il piú comodamente che potei.
L'atmosfera era pesante ed immobile. Un silenzio grave regnava intorno. L'acqua che veniva a scherzarci ai piedi aveva dei mormorii voluttuosi di sirena, dei mormorii seduttori.
Nissuno di noi due diceva una parola. Quella solitudine si faceva complice dei nostri segreti pensieri; pareva che una corrente magnetica ci tenesse in comunicazione e rivelasse all'una i piú riposti movimenti del cuore dell'altro.
Ella aveva lasciato abbandonatamente cadere la sua mano destra poco discosta dalla mia testa (sedevo piú basso di lei). Stetti alcuni minuti a guardarla, come un goloso, coll'acquolina in bocca. Piccola, dalla pelle fina e lucente, dalle ugne color di rosa, sfiorarla colla guancia e colle labbra divenne una tentazione insistente. Mi spingevo in là senza parere, quando l'improvviso scostarsi di alcuni ciottoli sui quali poggiavo il gomito accelerò il movimento, e andai proprio a posare la guancia sulla mano di lei... che non si mosse! Allora non mi mossi nemmeno io. Cominciai ad accarezzargliela con un lieve strofinio, che mi faceva gustare tutta la delicatezza di quella pelle sotto cui non si sentivano gli ossi. Avevo già perduto ogni coscienza di me stesso. I ciechi istinti animali mi facevano nelle fibre una fanfara di trionfo.
Spinsi gli occhi verso di lei. Ella, avvertito forse quel movimento, chinava in quel punto il viso dalla mia parte, colle labbra semiaperte al sorriso quasi ebete che rivela il venir meno della persona dalla eccessiva emozione, cogli occhi lampeggianti di sensualità sconfinata.
- Carlo!... Carlo!... - disse dolcemente, languidamente.
Ero già levato sui ginocchi e la stringevo tra le braccia, soffocandola dai baci.
Fu un minuto!
- Fortuna che nessuno ci abbia visti! - esclamò l'Emilia quando, rientrato quasi repentinamente in me, le sciolsi le braccia dal collo.
E rise di quel suo riso allegro, sonoro, che in quel punto mi parve tristamente triviale. Non c'era in esso nessun'eco della commozione profonda che doveva agitarle tutto il corpo; ma una contentezza, un appagamento, uno scoppio di soddisfazione volgare...
Avrei preferito che quella pigra ondata del mare spirante sui sassi si fosse a un tratto levata su sdegnosa e mi avesse travolto e annegato. Avrei preferito che mentre io ricercavo avidamente la sua bocca e la stringevo al mio petto, Paolo fosse improvvisamente comparso sul ciglio della spiaggia e mi avesse fulminato con una parola, o mi si fosse lanciato addosso con tutto il furore dell'amico e dell'amante tradito. Ma nulla di questo! L'onda continuava il suo monotono mormorio. Il silenzio meridiano incombeva attorno non turbato nemmeno dal ronzio di un insetto.
Ella non capí niente di quel che avveniva dentro di me.
- Fa troppo caldo! - disse.
- Fa troppo caldo! - ripetei collo stesso tono di voce. E raccolte le canne da pesca, le porsi la mano per aiutarla a montare la rozza gradinata e riuscire sui campi. Giungemmo a casa senza scambiare una parola. Avevo il cuor grosso.

Che nottataccia!
Al cader della sera mi si erano ridestate piú violente nel cuore le bufere della giornata. Smaniavo, pestavo coi piedi, mi strappavo i capelli.
- Perché non spingevo quell'uscio? Perché non entravo ad un tratto nella stanza di lei? Verso le due dopo la mezzanotte il mio delirio giunse al colmo. Mi tolsi le pantofole e, a piedi scalzi, trattenendo il respiro, traversai il salottino e la camera che dividevano la mia dalle sue stanze. Origliai un gran pezzo all'uscio per persuadermi se fosse sveglia. La sua respirazione calma ed uguale, era il solo rumore che si sentisse. Grattai leggermente all'uscio; nessun movimento. La sua respirazione continuava calma ed uguale. Dal buco della serratura vedevo il lumino da notte agonizzare sur un tavolo in fondo. Ai piedi del letto scorgevansi le sottane e il corpetto buttati disordinatamente sopra una sedia e un po' strascicanti per terra. Che malia in quelle ombre appena diradate, in quella respirazione ascoltata a traverso l'uscio!
Ritornai vergognoso, disilluso nella mia stanza, e molto tardi cedetti al sonno.
Chi svegliommi la mattina dopo?
La voce di Paolo. Era arrivato improvvisamente per farci una piacevole sorpresa!
- Poltrone! - mi urlava dietro all'uscio. - Come si fa, in campagna, a dormire fino alle dieci?

- Sei giunto a proposito - gli dissi dopo la colazione. - Ero sul punto di andar via senza piú aspettarti un minuto.
- Come? Non rimarrai almeno un par di giorni, ora che ci son io? - insistette Paolo.
- No - risposi - è impossibile -.
Non sapeva darsene pace. La signora Emilia aggiungeva anche lei qualche parola, ma non cosí insistente e calorosa come quelle di lui.
Avevo a stento la forza di guardar Paolo in viso; la sua schietta cordialità mi feriva il cuore come uno stile. Fui fermo.
Verso le cinque di sera, sul punto di montare a cavallo,
- Senti - mi disse Paolo - io sono in collera. Non ti accompagnerò nemmeno fino al limite dell'ex feudo -.
Infatti rimase sulla terrazza.
Poi volgendosi alla signora Emilia che ritta in mezzo alla spianata, a pochi passi da me, mi guardava con certi occhi sdegnosi e turbati,
- Ma pregalo te! - le disse. - Forse l'insistenza di una signora lo piegherà -.
La signora Emilia mi si accostò, guardandomi fisso negli occhi, e con accento represso, vibrato,
- Perché mi fuggi? - mormorò impallidendo.
E si morse le labbra.
- Ma se rimango - risposi anch'io a bassa voce - noi commetteremo un'infamia!
- Grullo! - esclamò con inesprimibile gesto di disprezzo, voltandomi bruscamente le spalle.
Quella trista parola mi rese tutta la mia coscienza d'uomo e la mia fierezza di carattere.
Salutai, montai a cavallo, e mi rivolsi appena una volta indietro per rispondere ad un ultimo addio di Paolo.

La serata era calma, splendidissima di tutte le glorie del vicino tramonto. Di mano in mano che mi allontanavo dalla Marza, mi pareva veder il cielo vestirsi gradatamente di un sorriso piú bello; e su quella profonda limpidezza, oh gioia!, tornava ad apparire la soave figura della mia Iela, casta e pietosa come prima e sorridente di perdono.
Mineo, 25 marzo 1876.




VI

CECILIA



E dopo? Oh, il dopo non lo sapevo davvero! Capivo però che quell'incontro non poteva terminare lí, bruscamente. L'impressione non era punto di quelle futili e passeggiere che una mezz'ora appresso non si rammentano piú. Sentivo tremarmi in fondo al cuore qualcosa di lei penetratovi a un tratto. Una soave commozione non provata da gran tempo mi spingeva a fantasticare un mondo di cose indefinite sulle quali sorridevano come raggi di sole i suoi begli occhi nerissimi.
Era proprio il rovescio del sentimento ispiratomi di primo tratto.
- Signore - ella mi disse dopo un pezzetto con accento cortese ma fermo; - glielo ripeto, è affatto inutile che mi venga dietro: via, smetta, la prego!
- Vorrebbe - risposi - persino impedirmi di guardarla?
- La gente ci osserva e sospetta Dio sa che! Agisca piú gentilmente con una donna che non conosce -.
E siccome lí il viale biforcava, ella prese dall'altra parte. Non mi diedi per vinto. Girai dal lato opposto attorno alla grande aiuola che ci divideva, e non scorgendo in quei pressi nessuno che potesse udirmi, le rivolsi la parola ad alta voce a traverso la selvetta dei gianerium privi ancora di pannocchie:
- Mi lasci almeno sperare che potrò rivederla! -
Ma quella non mi dava retta.
C'incontrammo nel punto ove i due piccoli viali riunisconsi nuovamente nel viale piú largo, ed io mi fermai per aver meglio il comodo di osservarla nel volto. Com'era bella! Che finezza di carnagione! Che simpatia nell'espressione delle labbra e degli sguardi!
Un profondo sentimento di ammirazione mi chiuse la bocca.
Ella passò oltre lentamente, rilevando colla mano sinistra la coda del vestito, e tenendo giú coll'altra un ventaglio giapponese spiegato a metà; poi infilò il cancello rimpetto ai Boschetti e indirizzossi per uno di quei stretti e lunghi viali che l'ora, dopo il tramonto, e la fittezza delle frondi degli alberi rendevano quasi scuri.
La raggiunsi, e mantenendo fra lei e me uno spazio discreto, - Non prenda in mala parte la mia insistenza - continuai in tono quasi supplichevole; - mi permetta di accompagnarla.
- Ma io non la conosco - rispose fermandosi.
- Non importa - replicai; - è una ragione di piú per cominciare a conoscerci -.
Ella fece un segno del capo come per dire: - Niente affatto! -
E riprese ad andare innanzi, sventolandosi indispettita.
Il suo volto bianchissimo, in mezzo a quell'ombra e tra le pieghe del velo nero che le scendeva sulle spalle, brillava in modo strano. Il movimento della sua persona aveva qualcosa di musicale che faceva battere il cuore fortemente.

Eravamo riusciti sul corso Venezia, ella avanti, io dietro ad una diecina di passi.
Ella ora fermavasi ad osservare le mostre delle botteghe e si lasciava precedere; ora mi veniva quasi al fianco sul lastrico che serve da panchina pei pedoni; ora finalmente mi oltrepassava, a seconda che io affrettassi o rallentassi l'andare per non ismarrirla di vista.
Svoltò la cantonata di via del Monte Napoleone, indi entrò nel portone della galleria De Cristoforis. Fui piccato dall'accorgermi che, appena sulla soglia, ella si era voltata un istante proprio per accertarsi se le tenessi sempre dietro; ma quando la vidi inoltrare in un chiassuolo e poi per una viuzza strettissima e deserta, cominciai a perdere qualcuna delle mie poetiche illusioni. Ahimè! Era anch'ella dunque una delle solite donnine? Non mi pareva possibile.
Me le feci innanzi un po' piú risoluto, ma senza baldanza.
- Sia compiacente - le dissi. - Accetti un momentino il mio braccio, e mi permetta di accompagnarla per un piccolo tratto di via. È un caso, lo so, che noi ci siamo incontrati. Ma poiché mi son sentito trascinar dietro a lei da una forza irresistibile, vuol dire che noi non possiamo rimanercene indifferenti l'una all'altro. Del resto, prendendo il mio braccio s'impegnerebbe a ben poco. Perché non tentare di conoscerci intimamente? Le riesco forse cosí antipatico che non vuol nemmeno far la prova?
- Dio mio! - esclamò; - questa sua insistenza mi offende. Conoscerci! A che scopo? Ch'ella mi sia venuto dietro non è poi una ragione. Mi lasci andare! Mi ha scambiata! -
Le cedetti il passo.
Aveva pronunciato quelle parole con un accento tra lo sdegnato e il commosso, e mi ero sentito disarmare. Non era un tantino vero che l'avevo scambiata?
Ma era poi proprio vero l'avessi scambiata?
Questo dubbio mi persuase a pedinarla di nuovo.
A metà dell'altra via scantonò all'improvviso, e poco piú in là fermossi a un portone, mi diè un'occhiata e poi sparí.
L'atrio, chiuso da un bel cancello, era elegante e spazioso. Sotto gli archi del portico schieravansi molti vasi con alberetti fioriti. Nel muro rimpetto, sopra un affresco che rappresentava una fontana, i rami di una pianta rampichina facevano una tettoia di foglie e di ciocche di fiori color lilla, addossata a un graticcio di legno sostenuto da colonnine anch'esse di legno e tinte in verde cupo.
Un cuoco, col suo berretto bianco sulla nuca, agitava il grembiule per farsi vento e ciarlava e rideva colla portinaia proprio nel centro dell'atrio.
Vedendomi spiare a traverso il cancello, la portinaia accostossi premurosa e mi domandò chi cercassi.
Dissi il primo nome che mi capitò sulla lingua, e siccome naturalmente non abitava lí, andai via mortificato, voltandomi a riprese verso le finestre, sperando, ma invano, di vedere da un momento all'altro affacciarsi a un davanzale la bella testina della mia sconosciuta.
Un sentimento di delicatezza riguardo a lei mi distolse dall'interrogare la portinaia per iscoprire qualcosa. La mia imprudenza, chi sa? avrebbe potuto comprometterla.

Per due settimane rifeci ogni giorno i viali dei giardini pubblici ove l'avevo incontrata. Aspettavo delle ore, smanioso, agitato, come se le poche parole scambiate fra me e quella donna avessero avuto la magica virtú di un violentissimo filtro e fosse omai stretto ad essa l'intero destino della mia vita.
Me ne impensierivo. Non ero piú un ragazzo da innamorarmi in quella guisa. E quando l'avessi riveduta? E quando anche avessi all'ultimo soddisfatto ogni piú estremo desiderio? Non era meglio lasciare cosí, nell'ombra, nel mistero, quella gentile figura di donna che mi aveva inattesamente svegliato nel cuore le piú pure e le piú vaporose fantasie della giovinezza? Non era meglio godermi, da artista, un piacere tutto spirituale che il contatto della realtà avrebbe certamente diminuito e, forse, anche distrutto?
Ma questi e simili ragionamenti non mi persuadevano punto.
I giardini pubblici non mi eran mai parsi cosí belli come in quelle sere che andavo ad attendervi lei. Gli alberi sfoggiavano rigogliosi il verde delle frondi variamente digradato. I viali serpeggiavano, s'intrecciavano, si perdevano in fondo con un incanto particolare. Sotto l'ombra degli ippocastani, tra le magnolie, tra i rami frastagliati e rovesciati dei cedri del Libano c'era qualcosa di soave, di poetico, di sorridente che prima di allora non mi aveva dato negli occhi. I getti d'acqua delle vasche, i riflessi dei canali, le foglie di ninfea che nuotavano a fior d'onda; il canto dei calenzuoli dispersi fra gli alberi, il suono delle campane vicine, che in certi momenti riempiva l'aria attorno de' suoi mesti rintocchi; le persone che andavano, venivano, si fermavano, sparivano, e che a poco a poco si facevano piú rare; tutto aveva una voce, un senso, un'espressione, un accenno all'unisono del sentimento che mi sopraffaceva in quei giorni. Se poi mi passava accanto una coppia di sposi o di amanti, la donna abbandonatamente appoggiata al braccio dell'uomo, l'uomo colla testa chinata da lato, mormorando all'orecchio dell'altra parole che la facevano sorridere a fior di labbra; se una sartina scutrettolava pei viali, guardando qua e là coll'occhio impaziente, in cerca di qualcuno mancato al ritrovo; se un giovane spuntava fra gli alberi, traendo dal sigaro dei lenti sbuffi di fumo quasi ad ingannare la noia di un prolungato aspettare; allora provavo una tenerezza strana, una commozione puerile, come se quella gente fosse venuta lí unicamente per farmi piacere, e non lasciarmi isolato nell'ansiosa situazione d'animo in cui mi aveva messo l'incontro di giorni fa.
Sentivo soprattutto e vedevo con lucidezza ammirabile un che misterioso da non potersi esprimere a parole, un'emanazione fragrante del suo bellissimo corpo, un riflesso, un'essenza eterea di esso che mi accusava, dopo tanti giorni, la presenza di lei in quel posto. La sabbia dei viali ne aveva trattenuto un vestigio coll'orma dei suoi piedini; l'erba, le foglie delle piante di fiori, che attorniavano le aiuole, ne avevano rapito qualcosa ai lembi della sua veste toccati mentre ella passava; l'aria intiera n'era impregnata; gli atomi luminosi da lei spostati nell'andare vibravano ancora!...
Capivo benissimo anch'io l'irragionevolezza di quest'esaltazione, e ne arrossivo e ne avevo dispetto; ma non trovavo modo di farla cessare. Spesso mi dicevo brutalmente:
- Imbecille! Mentre tu sogni e fantastichi e ti perdi fra le nuvole, chi ti assicura ch'ella intanto non si abbandoni fra le braccia di un altro, e non venda o non prodighi quella sua bellezza che ti fa mussare il cervello?
Ma mi pentivo subitamente del mio sconcio sospetto, e tornavo a tuffarmi in un'onda di fresche e vaghe imagini che pareva mi ringiovanisse, un misto di sentimentale e di sensuale molto difficile a definire.
A giorni infatti era soltanto il suo corpo, la sua bellezza fisica che mi eccitava la fantasia. Quelle forme perfettissime, indovinate sotto le compiacenti pieghe del vestito, la carnagione bianca, la pelle fine, la gola, il collo, mi davano le acute sensazioni di un'opera d'arte animata miracolosamente da un soffio di vita. Avrei voluto baciarla, ribaciarla, stringerla al seno e provare tutte le vertigini del suo divino contatto; avrei voluto, in un interminabile abbraccio, confondere il mio col suo organismo e vivere di un solo battito di cuore, di un solo respiro con lei. A giorni, invece, mi sentivo invadere lo spirito da una dolcezza pensosa. Mi sarebbe bastato rivederla e passeggiare con essa al braccio per quei viali che mi parlavano cosí efficacemente di lei. Saremmo andati attorno posatamente, leggendoci negli sguardi e nei sorrisi le piú riposte gradazioni dei nostri sentimenti. Ci saremmo fermati di preferenza nei punti ove l'ombra sarebbe stata piú fitta, ad ascoltare i susurri delle frondi e delle acque, a godere gli scherzi dei raggi solari sui rami degli alberi, sulle siepi, sulla sabbia dei viali, sui zampilli, sulle statue, sulle figure dei passanti; e ad ora tarda, ultimi ad uscire dal recinto dei giardini, avremmo ripreso la via pel modesto nido ov'ella passava le sue facili giornate, e dove io sarei andato in certe ore, come in un tempio, a rifarmi il cuore sconvolto da una giovinezza scapigliata.

Finalmente un giorno, quando meno me l'aspettavo, la rividi alla Posta. Non me n'ero accorto; mi ero accostato allo sportello sopra pensiero: ma il suono della sua voce mi scosse, e la guardai in viso tremante dalla gioia di rivederla e di aver appreso il suo nome. Ella, nell'andar via, mi fissò riconoscendomi, e rispose severa, o mi parve, con un cenno quasi impercettibile della testa, al saluto che io le feci. Stavo per accostarmele, ma mi avvidi in tempo che non era sola; un'amica l'attendeva dietro i cristalli dell'uscio.
Le scrissi: ero dolentissimo di averle forse lasciato nell'animo una cattiva idea di me pel modo di comportarmi in quel giorno; dopo averla attesa invano tutte le sere nel posto dove l'avevo incontrata la prima volta, osavo ora scriverle per pregarla del suo perdono; desideravo essere assicurato, a voce o in iscritto, di averlo ottenuto.

«Se Ella - conchiudevo - potesse immaginare gli effetti prodotti dal suo incontro nel mio cuore, non sarebbe certamente tanto crudele da non tornare almeno una volta, alla stess'ora, in quel viale dei Boschetti onde ridarmi in parte la tranquillità che da due settimane ho perduta.
Aspetterò ogni sera, fino a tardi, una celeste apparizione nella quale parmi stia chiuso tutto il segreto del mio avvenire.
È una fatua speranza? Saprò persuadermene subito».

Attesi la risposta tre giorni, che mi parvero eterni. Ma quando potei baciare i suoi caratterini del piú bello inglese che io avessi mai visto, la mia gioia fu immensa.

«Quantunque la sua lettera mi sembri un pretesto - diceva la risposta - pure io debbo ringraziarla della gentilezza che mi usa. Non ho nulla da perdonarle. Conosco troppo la vita da lusingarmi o da indignarmi di quel che suole accadervi.
Perché rivederci?
Ella parla di tranquillità perduta, di apparizioni celesti!
Oh, è proprio troppo!
Arrestiamoci qui, ed ella non si curi piú di una persona che non ha nulla per meritarsi la sua benevola attenzione».

Tornai a scrivere:

«Non mentisco, non esagero, e sono inconsolabile di non esser creduto. Quello che non può scorgere dalle fredde linee di una lettera, lo capirebbe subito dal mio accento, se si persuadesse ad accordarmi alcuni minuti di ritrovo in qualunque posto le aggrada.
Ella è per me circondata da una nube, come una dea degli antichi poeti; ha tutto l'incanto del mistero; e la fantasia lavora a rendermi sempre piú attraenti e piú care le ombre che la celano cosí invidiosamente ai miei sguardi.
Per "arrestarci qui", com'ella dice, nulla è piú opportuno di diradare, almeno in parte, quella insidia che eccita il desiderio e mi fa concepire tante fallaci speranze.
Qualche franca spiegazione mi restituirebbe la pace, e terminerebbe per lei una persecuzione importuna che deve recarle fastidio.
Mentre le scrivo queste parole, il cuore mi batte accelerato e protesta contro una congiura, la quale intenderebbe rapirgli le piú belle gioie che da anni ed anni siano riuscite a commuoverlo.
Sono un po' materialista. Credo vi abbia una profonda ragione fisica in questi turbamenti che l'influenza di un organismo fa risentire ad un altro. Perché fra cento donne, e tutte belle, una sola possiede la virtú di affascinarci e di sconvolgere in tal guisa l'ordinario andamento della nostra vita, da farci spesso terminare o in un delitto o nella pazzia?
Senza credere a delle segrete ed intime affinità, non si arriva a spiegar nulla; affinità della materia, che si risolvono nelle affinità dello spirito, e danno le fantasie, gl'ideali, tutte le mille gioie purissime dei cuori elevati.
Non arrivo quindi a persuadermi che tra lei e me tutto debba "arrestarsi qui". Le circostanze sociali possono mettere degli insormontabili ostacoli all'unione dei corpi; ma nulla, proprio nulla, può impedire la inesauribile comunione di due cuori.
Ho bisogno di fantasticare, di sognare, di slanciarmi, sulle ali dello spirito, lontano, lontanissimo dalla balorda realtà che mi urta e m'irrita colla sua ignobile prosa.
Se sapesse come son ridiventato ragazzo in pochi giorni!
Se sapesse come le son grato di avermi strappato dalla noia, dalla solitudine di cuore in cui mi accasciavo da un pezzo!
Ma sia pure che tutto si "arresti qui!" Però non mi neghi la consolazione di persuadermene colla sua bocca. Dopo farò ogni sforzo per rassegnarmi alla mia sorte».

E mentre la posta le recava la mia lettera, io quasi mi pentivo di averla scritta e inviata. Con che leggerezza andavo incontro a una relazione, di cui dovevo anticipatamente calcolare tutte le possibili conseguenze!
Come poesia, come arte in azione, sí, stava benissimo. Di tanto in tanto il cuore e lo spirito hanno bisogno di simili scosse, di una ginnastica morale che loro snodi le giunture e li rimetta in quell'agilità di forze attutita dal lungo riposo...
Ma se ciò che mi sembrava difficile fosse diventato facilissimo? Ma se quella donna, vinta, mettiamo, dalla mia insistenza, sedotta dai bagliori di un amore che usciva dalle forme comuni, lusingata da speranze che le mie parole avevano imprudentemente fatto intravvedere, fosse finalmente venuta ad abbandonarmisi tra le braccia a lei tese con spensieratezza suprema? Se vi fosse venuta rompendo altri legami, abbandonando piú sicure speranze, sacrificando ad un'illusione il suo nome, la sua felicità presente, il suo avvenire, ogni cosa? Che avrei allora fatto? Quale responsabilità non mi sarei assunta? Ero forse sicuro di mantenere quel che le mie calde parole promettevano senza esplicitamente spiegarlo?
Non mi accumulavo una larga messe di noie, di impacci, di dolori, di disinganni?
Ma chiudevo gli occhi, mi stringevo alle spalle e lasciavo fare al cuore; ero troppo esaltato da dar retta alla ragione. E forse è bene che l'uomo sia cosí! Senza questa irragionevolezza di certi giorni, la vita correrebbe troppo uniforme, troppo noiosa; e molte cose grandi, e tutte le cose belle rimarrebbero spesso nell'oscurità del nulla, da cui soltanto la passione le fa sbalzare alla luce.

Venne. La scorsi da lontano, in fondo al viale, e le mossi incontro quasi trepidando. Avevo le puerili esitazioni del primo amore.
I polsi e le tempie mi martellavano con violenza.
Era anch'ella un pochino turbata; la sua mano infatti tremava.
Le diedi braccio e andammo un pezzetto silenziosi, guardandoci negli occhi, con quel sorriso che monta alle labbra quando ci troviamo impacciati e non sappiamo che dire, forse perché abbiamo troppe cose da dire.
In tali casi è sempre la donna quella che mostra piú spirito.
- Mi avvedo - ella disse - di aver avuto torto a dar retta alle sue insistenti sollecitazioni. Da lontano si è piú liberi e piú forti!
- Grazie, signora! - feci io. - Non si penta di un'opera buona.
- Ebbene - ella riprese - che vuole da me?
- Poco, nulla!... Se fosse possibile... essere riamato!
- Dica tutto! - ella esclamò sorridendo. - E quando l'avessi riamato?
- L'amore è fine a se stesso.
- Forse nei cieli; ma in terra...!
- Osservi - le dissi; - a trentadue anni mi vede impappinato come un meschino collegiale. Questo può darle la misura dell'affetto che provo per lei -.
E dopo una breve pausa soggiunsi:
- Sono libero, solo, non ho parenti e possiedo una discreta fortuna. Faccio una vita ritirata, un po' studiosa; ma piú volentieri ozieggio fantasticando, contento di osservare il mondo a traverso una nebbia la quale gli dà sovente l'aspetto di un'apparizione che si dissolve, e rassegnato a veder arrivare la volta che dovrò dissolvermi anch'io. Il suo incontro mi ha destato da un sonnambulismo che suol essere l'ordinaria condizione del mio spirito, e mi ha richiamato alla gioconda realtà della vita. Son lieto di sapere che c'è ancora al mondo qualcosa che può farmi amare e sperare... Mi sono ingannato? Sotto a questo nostro incontro nascondesi forse una delle solite e terribili ironie del caso che uccidono gli animi fiacchi? Non lo capisco ancora e, quasi, non vorrei mai capirlo.
- Ho marito! - ella rispose sospirando e chinando il capo addolorata.
- Che importa? - feci io.
- Il mondo è crudele! - ripigliò. - C'impone dei doveri che potrebbero dirsi una violazione della natura, e il pudore spesso ci fa vittima perfino nostro malgrado. Non mi pare di esser brutta; molti mi hanno ripetuto preciso il contrario. Prima e dopo della legale separazione da mio marito, che io dovetti domandare, sono stata spesso circondata da tentazioni superiori alle deboli forze di una donna; e benché in questo momento sia proprio sicura di non esser creduta, soggiungerò che son uscita tremendamente abbattuta e straziata sí da quelle lotte del cuore, ma vittoriosa; anche quando mi sarei facilmente rassegnata a rimaner vinta!... Non glielo dico né per orgoglio, né per artifizio di donna.
- Oh le credo! - risposi.
- Sarò franca; è mio costume. E comincerò dal confessarle che non sono qui venuta per mera cortesia, o per cedere soltanto a un impulso di curiosità femminile. C'è un altro sentimento che io non so come chiamare, (è cosí incerto e confuso!) il quale ha lusingato il mio spirito e mi ha spinto a porgere facile orecchio al suo invito. Ho capito appena qui giunta, e gliel'ho detto subito, che ho fatto male a venire.
- Invece ha fatto benissimo!
- Le sue parole dell'altra volta, il persistere a ricordarsi di me dopo tanti giorni, le sue lettere che mi rivelano un animo gentile e troppo aperto a dei sentimenti che non sono piú di moda, hanno naturalmente fatto impressione nel mio cuore. Piú che ogni altra donna e per la condizione in cui mi trovo io sento un bisogno di continui conforti. Illusioni o realtà, non mi confondo a discerner bene quello che mi si presenta a consolarmi. L'unica realtà che io cerchi è la mia consolazione, la soddisfazione di un bisogno ineffabile che mi agita e mi fa soffrire; e spesso non è davvero l'illusione quella che sappia meno soddisfarlo.
- Come son lieto - le dissi - di sentirla parlare a questo modo!
- Non si imagini nulla che possa secondare qualche suo desiderio; si troverebbe ingannato.
- Le giuro - risposi (e in quel momento ero sincero) - che i miei desideri, le mie speranze non vanno piú in là di quello che ora mi si concede.
- Oh! Si dice sempre cosí!
- Avrà la conferma del fatto.
- Non è un uomo lei?
- Ma un po' diverso dagli altri.
- Ecco, dunque: ho assecondato il suo desiderio, son venuta, le ho detto forse piú di quello che non avrei dovuto dirle; non rimane che separarci da buoni amici e... dimenticarci.
- Perché dimenticarci?
- Perché sarebbe meglio. Non le pare?
- Ma se fra noi due non può, come lei dice, esservi luogo per l'amore, potrebbesi invece trovar un posto all'amicizia.
- L'amicizia tra un uomo ed una donna si riduce ad un amore che ha vergogna di mostrarsi a viso aperto, ed io ho in uggia gli equivoci.
- Cediamo dunque al destino! - dissi fermandomi.
E presi tra le mie le sue mani e la guardai fisso nelle pupille, con le labbra atteggiate a un sorriso di speranza ed esprimendo cogli occhi un'intensa preghiera.
- Ed è cosí ch'ella è diverso dagli altri! - esclamò tentennando amaramente la testa e alzando gli sguardi al cielo.
- Interpreta male le mie intenzioni!
- Interpreto giusto! -
E riprese il mio braccio.
- Non ci vedremo piú - mi disse dopo con accento commosso. - Ella tornerà alle tranquille occupazioni della sua vita; io... alle noie ed alle lotte della mia. Ciò che mi fa rifuggire da un legame, creda, è un puro calcolo. Se io ora cedessi alle sue premure, se credessi alle sue proteste, non farei che prepararmi un disinganno crudele. Un mese, due mesi, sei mesi, un anno! E poi tutto sarebbe finito, e l'apparizione celeste diventerebbe un fantasma intollerabile. Non vi è peggiore umiliazione pel nostro amor proprio: è una ferita che non sana. Ho ragionato sempre cosí quando il cuore ha tentato di trascinarmi dietro le seducenti appariscenze di una felicità che mi si faceva brillare vagamente sotto gli occhi; e il ragionamento mi ha salvato. Parlo schietta: non mi faccio piú virtuosa di quel che sono. Forse non ho ancora avuto occasione di provare una di quelle passioni che non dan campo a ragionare, e quando verrà, gliel'assicuro, non me ne lagnerò; ma intanto la sfuggo. Bisogna mi colga all'improvviso, alla sprovveduta!
- Ma se tutte le donne la pensassero come lei - interruppi scherzando - che sarebbe del mondo?
- Ciò che salva il mondo - rispose - è che si predica bene e si razzola male. Io stessa, forse, non isfoggio in questo momento tante belle teoriche che per giustificarmi dell'inconseguenza di esser qui venuta.
- Senta - dissi; - lei ragiona troppo! Ami invece! -
E strinsi il suo braccio col mio.
Restò a capo chino, come assorta improvvisamente in una riflessione penosa.
- Ami! - le ripetei all'orecchio.
- No! - disse, sciogliendosi dal mio braccio e passandosi le mani sulla fronte.
Si era fatto tardi senza che ne fossimo accorti. Il viale era deserto; i lampioni brillavano qua e là fra i tronchi e i rami degli alberi come pupille investigatrici di ciò che può avvenire nelle ombre notturne; e il rumore delle acque del canale daccanto faceva meglio avvertire la solitudine e il silenzio onde eravamo circondati. Di tanto in tanto il sordo strepito delle carrozze e degli omnibus, che si accresceva o si affievoliva secondo l'avvicinarsi o lo scostarsi accelerato, rammentava che a cento passi di distanza le vie della città formicolavano ancora di gente.
- Abbia l'amabilità di accompagnarmi un pochino - ella mi disse avviandosi verso il Naviglio. - Come passano presto le ore!
- Mi promette che ci rivedremo? - feci prendendole una mano.
- Non insista - rispose. - Rimanga colle impressioni che ha ricevuto finora. Forse, conoscendomi meglio, mi troverebbe molto diversa da quel che si è imaginato: e lo stesso probabilmente sarebbe per me. Ci scapiteremo tutti e due.
- Rivediamoci! - ripetei. - Sento che l'amo di piú dopo di averla conosciuta da vicino: l'istinto del cuore non mi ha ingannato.
- Abbiamo scherzato col fuoco - ella disse ridendo: - non ripetiamo lo scherzo -.
Per un buon tratto rifacemmo la stessa via del giorno in cui le andai dietro la prima volta.
L'incertezza ov'ella mi teneva era quasi piú dolce del sí che avrei voluto strapparle.
- Addio, signore - disse fermandosi: - mi lasci ora andar sola.
- Ubbidisco - risposi, - ma però non mi tolga affatto la speranza.
- Addio! - replicò sorridendo.
E fino alla sera dopo io non vissi che di quel sorriso.

Era davvero divisa dal marito, e non per sua colpa?
Era davvero rimasta sempre vittoriosa di tutte le seduzioni che dovevano, cosí bella e sola, circondarla da ogni parte? Era stata proprio sincera parlando a quel modo?
Queste interrogazioni mi si affacciavano ripetutamente allo spirito, ma non volevo fermarmici su per trovar loro una risposta.
Ho sempre amato un che d'indefinito, di digradato, di incerto nei sentimenti e nelle cose, e son riuscito per questo poco adatto agli affari. Possiamo noi forse, colle nostre indagini, toccare proprio il fondo della realtà? Non avviene, nel passaggio dai sensi allo spirito, un alterarsi, un modificarsi, un trasformarsi dell'impressione del di fuori per cui spesso vediamo non già quello che è, ma quello che ci pare, il contrario?
Dall'altra parte in ciò che io provavo riguardo a lei non c'era evidentemente nulla di preciso e di determinato. Se ella non avesse avuto il marito? Se fosse stata una donna che non trovavasi piú alla sua prima relazione? Se, illuso da una vernice di gentilezza, di cultura e di eleganza io non avessi capito quello che altri avrebbe compreso di primo acchito, cioè ch'ella era una delle solite pericolose femmes de proie, come le dicono i francesi, nelle quali un'arte sopraffina simula le piú squisite, le piú pudiche ritrosie della virtú per irretire gli allocchi?
Che cosa sarebbe avvenuto allora del mio povero cuore, delle fervide espansioni di un amore che viveva di rugiada, tra cielo e terra, quantunque avesse i suoi quarti d'ora nei quali sarebbe rimasto molto volentieri sulla terra?
Ma io mi seccavo di tante supposizioni, di tante indagini, e lasciavo correre. Amavo! Mi bastava.
Amavo infatti da amatore, da dilettante. Succedeva da qualche giorno dentro di me uno strano e delizioso sdoppiamento dello spirito; metà di esso subiva gli incanti della passione, metà stava ad osservare, e spesso chi godeva di piú era la metà che faceva da spettatrice tranquilla. Ciò intanto non impediva la spontaneità degli slanci e delle esaltazioni dell'altra.
Forse vi era un che di artificiale in tutto cotesto rimescolarsi di sentimenti. Un lavorio della imaginazione, combinando alla sua guisa e sviluppando sensazioni, impressioni, sentimenti vecchi e dimenticati, ricostruiva di bel nuovo il mondo fresco e sorridente della giovinezza e mi dava un'illusione simile a quella del miraggio del deserto, che si sposta a seconda del punto di vista del viaggiatore. Ora io vedevo innanzi a me quel che già mi sembrava fosse rimasto alle mie spalle.
E poi, che giovava preoccuparsi di quanto poteva avvenire? Tanto, non era in mia mano l'impedire che avvenisse. Volevo quindi andar spensieratamente incontro all'ignoto; era un viaggio divertentissimo benché pieno di pericoli.
Maritata o no, donna di mondo o femme de proie, vi era infine in lei una cosa innegabile e indiscutibile: la bellezza. Quando la natura si perde tutt'intiera nella creazione di un corpo perfetto (e il suo era tale) non ha mica tempo di confondersi molto col resto. Una linea di quel corpo equivale benissimo al cuore; un'armonia di quelle forme equivale senz'altro allo spirito; una bella e forte sensazione non la cede in nulla al piú bello e piú generoso dei sentimenti.
Pensavo tutte queste cose alla rinfusa e non mi fermavo a lungo e in particolare su nessuna. Avevo ancora nell'orecchio l'armonia della sua voce, provavo ancora il blando tepore della sua mano e del suo braccio; e a traverso i globi azzurri del fumo della mia sigaretta di lathachié scorgevo intanto qualcosa di luminoso, di sorridente, che poteva anche esser l'effetto del tabacco orientale voluttuosamente aspirato, e non era per questo meno amore e meno ideale di qualsivogliano amori e ideali di piú alta provenienza.
Per due sere di seguito non venne; le scrissi e non rispose. La terza sera, quando già cominciavo a disperare di rivederla, me la sentii alle spalle, col suo passo lesto e cadenzato. Piovigginava. Le gocce dell'acquerugiola facevano un rumore gradevole tra le foglie degli ippocastani. Il sole, prossimo a tramontare, dorava di un colore rosso ranciato le frondi degli alberi che, trasparenti, lucidissime, stillanti, parevano proprio di smeraldo. Per l'aria rinfrescata errava diffuso l'odor speciale che si leva in primavera, dal terreno inzuppato dalla pioggia.
- Mi aspettava? - ella disse, mostrandosi sorpresa di trovarmi.
- Sicuramente - risposi stringendole forte la mano.
- Come è buono!
- La pioggia aumenta - soggiunsi offrendole il braccio; - verrà giú un rovescione. Andiamo a ripararci nel Caffè dei Giardini; saremo soli, solissimi; potremo ragionare a bell'agio.
- Abbiamo ben poco da dirci! - ella fece, chiudendo il suo ombrello per prendere il mio braccio e reggere con l'altra mano il lungo strascico della veste.
Nel Caffè dei Giardini c'era soltanto un vecchietto. Avrei voluto, entrandovi insieme a lei, far rivolgere almeno un centinaio di occhi su noi; avrei voluto sentire quel mormorio di ammirazione e vedere quei sorrisi di piacere che l'aspetto di una bellissima donna suol sempre produrre al suo primo apparire in un salone.
Oramai quella donna in qualche modo mi apparteneva, e credevo di avere un po' il diritto di insuperbirmi della sua bellezza come di qualcosa di mio.
La conversazione fu piú sentimentale, piú vaporosa dell'altra volta. Ella era contenta di vedermi già savio. Finché duravo cosí, quelle scappatelle da giovani innamorati potevano continuare. Come non appagarsi di una felicità modesta, soave, che trovava nella sua stessa natura una guarentigia di durata?
Io sorridevo, dicevo di sí; ma gli leggevo nell'intonazione della voce e negli occhi qualcosa di simile a quello che sentivo accadere nel mio interno, e raffrenavo la gioia.
Non avrei saputo dire perché, ma mi sembrava che le parole della nostra conversazione esprimessero quel giorno preciso l'opposto di quello che valevano nel loro ordinario significato. Piú intendevamo dirizzare le ali per l'alto, e piú mi pareva si radesse terra terra. Parlando di unione di cuori, mi sembrava che di accordo volessimo sottintendere; corpi; parlando di sentimenti ineffabili, eterni, mi sembrava evidentemente parlare di sensazioni ineffabili sí, ma fugaci, alle quali ci pareva mill'anni non poterci inaspettatamente abbandonare, senza dirci una parola, come trascinati nostro malgrado.
Che pause eloquentissime! Che sorrisi accompagnati da tentennamenti espressivi del capo, quasi per dire: guarda un po' come si va di carriera!
E intanto ella parlava di mille piccole cose, del tempo, della pioggia la quale non voleva piú smettere, della sorella con cui viveva e dei suoi vasi di fiori; ed io progettavo una passeggiata alla Certosa di Garignano e a un mio villino in quei pressi; ed ella rispondeva di no, specie pel villino di cui, diceva, era molto giusto diffidare. Voleva che il nostro piccolo sogno di amore non si allontanasse mai e poi mai dal ristretto orizzonte dei viali dei Boschetti e dei Giardini Pubblici. Fiore delicatino, sarebbe subito appassito a trapiantarlo in terreno e sotto clima diversi. E poi, m'imaginavo forse che quel sogno dovesse durare molto a lungo? Oibò! Mi sarei presto annoiato, stancato; già ella mi secondava unicamente per provarmi che aveva ragione a diffidare di piú larghe profferte e di dichiarazioni piú solenni.
- Che brutta cosa è la vita! - conchiudeva sospirando.
Ma un sorriso gli lampeggiava a un tratto sulle labbra e negli occhi, e pareva dicesse all'opposto: - Com'è bella cosí la vita!
Ed io internamente esclamavo di conserva: - Divina! Divina!-

Da quel giorno in poi ci rivedemmo regolarmente con un'assiduità che non diminuiva affatto il piacere di ogni nuova passeggiata. Parlavamo meno che mai di qualunque progetto sul nostro avvenire. Ma annoiarci? Stancarci? Non se ne scorgeva l'ombra di un indizio. E cosí la Cecilia diventava di grado in grado meno diffidente, piú espansiva, e le nostre passeggiate si prolungavano sui bastioni di Porta Nuova fino a Porta Garibaldi. Una volta rientrammo tardi per la via Principe Umberto e per la via Manzoni. La serata era stata dolce; un magnifico lume di luna faceva impallidire le fiammelle del gas; la gente andava attorno allegra, chiassosa, contenta di godersi, dopo molti giorni di pioggia, una vera serata primaverile. Avevamo tanto ciarlato e tanto riso anche noi come due veri ragazzi! Ed ora camminavamo muti, raccolti, governati intimamente da una tristezza soave e tenevamo, quasi senza avvedercene, la mano dell'una stretta in quella dell'altro con pressione tenera e casta, da nuovi sposini.
Passando parecchie volte per la via Manzoni, innanzi alla casa ove abitavo, io le avevo sempre indicato con piacere i terrazzini delle mie stanze.
- Son belle? - mi aveva chiesto una volta.
- Perché non viene a vederle? - le avevo subito risposto.
Ma ella aveva affrettato il passo, dicendo di no.
Quella sera, come al solito, ci fermammo innanzi al portone e con un semplice accenno degli occhi le chiesi, per grazia, di salir su. Esitò sospettosa e la rassicurai collo sguardo.
Forse, se avessi pronunciato una parola, ella non si sarebbe indotta a salire; ma quel linguaggio intimo, intenso, che pareva non potesse celare una menzogna perché veniva diritto dal cuore senza l'intermediario della voce, corrispondeva tanto bene in quel punto allo stato dell'animo nostro, ch'ella sorrise languidamente quasi le fosse impossibile opporre della resistenza e fece il primo passo per entrare.
Montammo le scale lenti, a capo chino. Dal suo respiro indovinavo che il cuore doveva batterle con l'uguale violenza del mio. Come siamo sciocchi e ridicoli in certi momenti della vita!
Entrò guardando attorno, quasi spaurita di aver osato venir su. Nel salotto non volle sedersi, e rimase in piedi accanto al tavolo di mezzo, con una mano appoggiata sur un album e tenendo l'altra sospesa come preparata a respingere un assalto.
Io accendevo tutti i lumi e volevo perfino accendere la lumiera; il salotto doveva risplendere a festa pel gran ricevimento della serata. Poi me le appressai, battendo le mani dalla gioia, e le chiesi che gliene sembrava.
- Bello! - esclamò un po' distratta.
- Visiti ora le altre stanze - le dissi porgendole il braccio.
- No - rispose - mi basta: andiamo via.
- Cosí presto?
- È già tardi.
- Si segga qui un momentino - feci, tentando di prenderla per la mano onde attirarla presso una poltrona.
- No! no! - esclamò con voce soffocata, incrociando le dita e mettendo tra lei e me il tavolo sovraccarico di gingilli chinesi.
Quest'atto di paura mi fece capire che significasse lo stordimento e l'affluire del sangue al capo che provavo in quell'istante. Dovevano certamente lampeggiarmi negli occhi le mille cupidigie che l'influenza del ristretto ambiente del salotto mi aveva all'improvviso destate. Ebbi vergogna ch'ella sospettasse potessi io usarle violenza in casa mia; e benché mi passasse un istante per la mente l'idea che quella paura poteva anch'essere uno dei tanti gestri del pudor femminile i quali vogliono ordinariamente esser intesi all'incontrario, pure preferii di parer un po' semplice, e con un accento da cui traspariva l'emozione: - Cecilia! - dissi - non dimentichi di trovarsi in casa d'un gentiluomo!
- Grazie - rispose stendendomi la mano e stringendo con riconoscenza la mia. - Ma... - soggiunse - la prego, andiamo fuori!
La precessi col lume.
Ella non parve pienamente rassicurata che quando fu sul pianerottolo. Lí riprese il suo sorriso, la sua vivacità e scese le scale lesta come un augellino che saltelli fra i rami.

Non aveva mentito. Scopersi per caso che un mio amico conosceva il marito, lei, la sua famiglia e lo interrogai destramente. Era di buona nascita e aveva ricevuto un'educazione raffinata. Indotti da improvvisi rovesci di fortuna, i parenti la sposarono a un ricco piú vecchio di lei, un uomo brutale e vizioso con cui poté stare insieme appena sei mesi. Morti i genitori, conviveva al presente con la sorella, vedova di un impiegato governativo. Il marito, intrigato in brutti affari di speculazioni equivoche, era fuggito in America; ma libera e senza lo spauracchio di una vendetta minacciatale spesso da quell'uomo brutale, ella non aveva mai dato nulla a ridire sulla sua condotta.
- Però - conchiuse l'amico - non sarei niente sorpreso di sentire un giorno o l'altro che sia anch'essa caduta: ha troppo cuore quella donna ed ha troppo sofferto; e la fortezza del carattere non sempre riesce a scacciar via le tentazioni di fuori e quelle di dentro, che son le piú pericolose perché ne diffidiamo assai meno -.
Di primo lancio, apprendendo che non aveva mentito, provai una grande allegrezza; indi a poco a poco cominciai a riflettere sulla serietà di quel che stavo per fare. Ma quando la rividi e mi parve che lo splendore della sua bellezza fosse quasi offuscato da un raggiare mite e soave proveniente dalla bontà affettuosa e rassegnata scoperta nel suo carattere, sentii divamparmi piú forte nel petto il fuoco dell'amore destatovi da lei.
Fui piú dimesso, piú gentile, piú premuroso; la trattavo, senza volerlo, come una di quelle convalescenti che hanno bisogno di cure minute e continue, da prevenirne i desideri, da indovinarne i capricci; e rimanevo ammaliato anch'io dall'incanto che scaturiva da questa nuova fase della nostra relazione. Ella n'era commossa e nello stesso tempo atterrita. Ne capiva meglio di me le conseguenze e avrebbe voluto evitarle; ma si sentiva oramai raggirata da un vortice che la trascinava rapidamente via e che l'avrebbe inghiottita.
Avevamo fatto dei giardini pubblici il nostro nido: non ci passava per mente di allontanarci di lí. Vi eran dei viali che ci sembravano esclusivamente nostri, quasi parte di noi stessi: delle piante, delle aiuole, dei punti di veduta che, ammirati le cento volte, entravano come elementi necessari nella vita spirituale dei nostri cuori, e piú non sapevamo come poterne far di meno. Una sera che provammo ad andar diritto, fuori Porta Venezia, lungo il viale di Monza, non riuscivamo a raccapezzarci; provavamo qualcosa che c'impacciava; non ci sentivamo piú intimi come nei giardini; e quando ci persuademmo di tornare indietro e trovammo chiusi i cancelli, girammo silenziosi attorno ad essi fermandoci ad osservare dietro le sbarre di ferro. Le ombre della notte erano dense; gli alberi stormivano leggermente; i zampilli tacevano; di tratto in tratto mostravasi tra le cime degli alberi qualche strappo di oscurità e un po' di cielo stellato faceva risaltare sur un fondo scuro e diafano i neri frastagli delle frondi.
Avevamo il cuore oppresso; ci agitava un vago rimorso; da quel silenzio, da quell'ombre partivasi un misterioso pispiglio di rimproveri: chi sa se domani vi avremmo trovato nuovamente le nostre sensazioni di tutti i giorni!
E ci fermavamo e ci stringevamo l'una al braccio dell'altro, quasi per rimpiangere con quella stretta una felicità perduta; ed io ricercavo la sua mano ed ella me l'abbandonava come suol farsi nei momenti di grave dolore.
- Eccoci scacciati dal nostro piccolo paradiso terrestre! - disse la Cecilia con voce che tremava delle strane emozioni di quel momento.
- Oh mia Eva! - risposi, pronunciando quest'esclamazione con una serietà e con uno slancio che in altra occasione mi sarebbero parsi ridicoli.
E le girai un braccio attorno il busto, e stringendomela al cuore le impressi ripetutamente i primi baci sulla fronte.
Ella taceva come venuta meno, agitata per tutto il corpo da un ineffabile fremito.

Gustavamo una quasi fisica voluttà nell'indugiarci con arte inconscia un momento che tutti e due eravamo certi dovesse finalmente arrivare.
La Cecilia diventava sempre piú triste: mi guardava con quella occhiate lunghe e piene di tenerezza cosí speciali alla donna, ove si leggeva: - Tu mi farai del male, ma per questo non posso né voglio amarti di meno! -
Io evitavo ogni parola, ogni frase che potesse sembrare un accenno a quel che stava per accadere, e lasciavo che il caso, una piccola circostanza imprevista assumesse l'ufficio della gocciolina che fa traboccare la tazza già ricolma fino agli orli.
Ma, come al solito, la donna fu piú schietta e nello stesso tempo piú coraggiosa.
Un giorno che io parlavo dell'eternità del nostro amore: - T'inganni - mi disse; - esso non fu mai cosí prossimo a finire come in questi momenti che tu ti compiaci di crederlo eterno!
- Perché mai? - chiesi stupito di sentirla parlare a quel modo.
- Perché la prova - rispose mestamente - sarà infallibile e breve... Ma è meglio non pensarci!
- No, non può essere! - dissi. - Credi dunque che io mentisca?
- È il cuore - replicò - è la natura che verrà meno! Siamo entrambi in buona fede.
- Vedrai!
- Oh! Vedrai! -
Quel giorno i giardini erano tuttavia illuminati dal bel sole dei primi del giugno. Brillava, cantava attorno una gran festa di luce, di colori, di sussurri che faceva bollire il sangue ed eccitava le menti.
In che maniera ci trovammo, da lí a poco, a salire le scale di casa mia? Non lo saprei dire davvero.
Appena passato l'uscio, la strinsi tra le braccia e la baciai sulla bocca, esclamando:
- È l'investitura del tuo regno! -
Sorrise triste, incerta, ma non rispose nulla.
Entrò in salotto con un incredibile abbattimento sul viso: le pupille nuotavano nelle lagrime che non si decidevano a venir giú.
Io ero piú commosso di lei, ma in un'altra guisa.
Le stavo attorno pregandola cogli sguardi di non mostrarsi cosí, e intanto l'aiutavo a cavarsi i guanti e il cappello.
- Che sbaglio stiamo per fare - esclamò.
E nello stesso punto abbandonossi singhiozzando tra le mie braccia e mi coperse di baci

Il giorno appresso le mie stanze mi parvero un giardino improvvisamente fiorito sotto la bacchetta di una fata. Ella andava, veniva, sorrideva, mi interrogava, mi faceva delle proposte per disporre meglio certi mobili, mi parlava di tanti piccoli nulla che pel suo genio di donna avevano una grande importanza; ed io non sapevo persuadermi fosse quello il primo giorno ch'ella stesse con me ed abitasse la mia casa. C'era dappertutto un nuovo colorito vivace, chiassoso che mi abbagliava: c'era un profumo soavissimo che deliziava le narici e penetrava fino all'anima; c'era una musica paradisiaca, come di un'orchestra invisibile, destata dal voluttuoso fruscio della sua veste di seta: mi pareva strano, quasi impossibile che tutte queste cose non ci fossero mai state fino allora!
Presi per mano, andavamo in salotto senza sapere perché; tornavamo addietro girando per le altre stanze, fermandoci innanzi un quadro, una stampa, un gingillo di porcellana, cosí spensierati, cosí contenti, cosí felici da non metter fuori nemmeno un'esclamazione per dircelo a vicenda con un semplice monosillabo. Parlavano piú efficacemente, piú profondamente gli sguardi; e quando essi non bastavano aiutavano i baci. Che baci, Signore Iddio! Che baci!
La sua stanza da letto fu adornata come un piccolo santuario dell'amore: tutta cortine candidissime, tutta ombre e frescura, pareva, entrando, prendervi un bagno vivificante di giovinezza e di felicità. Come ero superbo di quel santuario cosí elegante e civettuolo, intorno al quale avevo speso tante cure meticolose quasi si fosse trattato di un'opera d'arte! E come ero beato di vederla il mattino uscire di lí avvolta nel suo bianco abbigliamento da toeletta, con la cuffiettina da notte che ratteneva a stento i capelli disciolti, coi nastri di essa che le svolazzavano per le spalle e sul petto, e coi piedi entro le microscopiche pantofoline rosse che affasciavano di quando in quando la punta sotto gli orli della veste come due linguette di serpenti! Pensavo alle belle apparizioni delle dee antiche sognate dai greci e sentivo diffondersi per l'aria attorno un odore soavissimo come di cosa sovrumana.
Per piú settimane i limiti del nostro quartierino segnarono per noi gli estremi confini del creato!

Vi era intanto un che di austero in quel sogno di amore!
Cecilia, benché si sforzasse di non mostrarmelo, provava in tanta felicità una tristezza che giornalmente diventava piú intima e piú profonda. I suoi occhi avevano spesso degli sguardi di un abbandono inesprimibile; sulle labbra le appariva frequente un sorriso che toccava il cuore come un rimpianto. Non era, lo capivo, a una felicità sparita che rivolgevasi quell'indefinito sospiro dell'anima; ma ad una felicità che le pareva fuggisse via di mano in mano che ella si accorgeva diventasse piú intensa. E questo metteva nella nostra vita un'intonazione elevata, austera che me la rendeva piú cara.
La mia stanza da studio fu adornata per suo consiglio di vasi di fiori. Rimpetto al tavolo dove leggevo o scrivevo, ella situò il suo tavolino di lacca intarsiato in madreperla, col cestino del lavoro e qualche libro; e sedeva lí sur una poltroncina bassa, covandomi coi suoi sguardi e coi suoi sorrisi pieni di un sentimento di premura quasi materna, di qualcosa insomma che trascendeva qualunque straordinaria espressione di amore.
Spesso mi levavo dal tavolo, andavo a sedermele accosto per terra e, la testa sui suoi ginocchi, le domandavo con un gesto delle labbra la mia elemosina di baci. Altra volta era lei che mi s'avvicinava in punta di piedi per dirmi dolcemente all'orecchio
- Maurizio, ti affatichi troppo!
E mi distraeva dallo studio coll'accarezzarmi e col baciarmi.
Ingrati come tutti gli amanti, non ritornammo piú ai giardini pubblici, non ne parlammo nemmeno una volta. Ella si chiuse in casa pari a quelle femmine di uccelli, che nel tempo della cova non abbandonano mai un solo momento il lor nido e vi son nutrite dal maschio che va in busca di preda. Non voleva piú veder nessuno, nemmeno la sorella; tutto il suo mondo era circoscritto in quelle nostre stanze; che le importava del resto?
Mi pregava intanto di non sacrificarmi per lei. Amici, conoscenze, relazioni sociali, tutto dovevo coltivare come prima, senza mutare un'abitudine, senza venir meno a un dovere, senza mancare a una convenienza!... Per carità, non la facessi accorta che mi fosse già diventata un impaccio!... Pur troppo questo momento sarebbe arrivato! Che arrivasse almeno il piú tardi possibile!
Tanta insistenza a dubitare dell'avvenire m'irritava un pochino e mi costringeva mio malgrado a riflettere.
Ero forse mutato? No.
Provavo dei sintomi di stanchezza e non mi accorgevo di mostrarli?
Neppure per ombra.
La Cecilia, conosciuta intimamente, superava perfino l'ideale che me n'ero formato al solo vederla.
Ma quel suo lamento rassegnato mi feriva. In confuso capivo forse anch'io che qualcosa di ciò che ella prevedeva dovesse finalmente avvenire; ma m'illudevo volentieri e m'ostinavo a credere che invece non sarebbe punto avvenuto.
- Perché sempre cosí triste? - le dissi un giorno. - Mi fai soffrire!
- Io triste? - rispose sorridendo, ma in maniera che il sorriso ne smentiva le parole. - Non son mai stata tanto felice!
- Temi sempre che il nostro amore...
- Chi ama teme! - m'interruppe. - Però tu mi hai giurato che il giorno in cui ti accorgeresti di non piú amarmi, saresti tanto generoso e leale da dirmelo subito.
- E lo torno a giurare.
- Del resto poi non aspetterò che tu me lo dica; lo saprò anche prima che tu stesso abbia coscienza del mutamento avvenuto. Con una donna che ama davvero è cosa inutile il mentire -.
E sorrideva. Intanto le tremava la voce e aveva gli occhi imbambolati.

Divenne, e mi pareva impossibile, piú tenera, piú espansiva. Sentivo nei suoi baci come un furore di affetto. Dalle sue carezze traspariva una smania, un tormento di volerne esaurire tutt'intera la dolcezza e uno scontento di non riuscire. Spesso mi chiamava a nome due, tre volte di seguito, unicamente pel piacere di pronunciare: «Maurizio! Maurizio!»
- Matta! - le dicevo abbracciandola, e battendole sulla guancia colla punta delle dita, quasi per castigarla come una bimba cattiva.
Insomma sembrava avesse fretta di godersi una felicità che vedeva dileguarsi a poco a poco.
Io intanto vivevo tranquillo. Non scorgevo nei miei sentimenti e nei miei modi nessun mutamento. Naturalmente mi trovavo assai piú calmo; lo stato di esaltazione febbrile non poteva durare in perpetuo; ma quel godimento sereno, sempre uguale che vi era succeduto, mi sembrava piú dolce, piú intimo e per conseguenza piú duraturo. Le smanie della Cecilia, le sue tenerezze eccessive m'inquietavano stranamente, come un cattivo presagio. La rimproveravo con un accento che sembrava preghiera; e in seguito mi stizzivo di non averla rimproverata con bastante energia; quella fiacchezza di rimproveri mi sembrava un delitto dalla mia parte.
- Tu hai pianto! - le dissi un giorno, sorprendendola cogli occhi rossi e asciugati malamente in fretta nel sentirmi rientrare in casa.
- No - rispose; - ho dormicchiato sulla poltrona; ho un po' di emicrania -.
Mi appagai di quella risposta; ma rimasi inquieto fino a sera.
Perché m'ero appagato? Non ero forse sicuro che la Cecilia aveva voluto nascondermi la verità? Sí, ella aveva pianto! E non mi era passato pel capo di dirle una parolina sola di conforto. Ingrato! Ma non trovavo il verso di riparare al mal fatto.
Era un po' dimagrita da qualche tempo in qua, e un po' pallidina. Mi persuasi dopo alcuni giorni che doveva dormir poco.
Una notte fui di un tratto svegliato da un fruscio di veste nella mia stanza. Apersi gli occhi con un senso d'indefinito terrore, e vidi la Cecilia accoccolata sul tappeto accanto al mio letto, coi capelli sciolti sulle spalle, colle mani aggrappate attorno un ginocchio, gli occhi spalancati, immobili sopra di me, le guance irrigate da lagrime che scorrevano silenziose.
- Dio mio! Cecilia, che fai? - le dissi.
E tentavo rimoverla da quella posizione attirandola per un braccio verso di me onde spingerla a levarsi.
- Lasciami star qui! - rispose, - lasciami star qui, te ne prego!
- Ma ti ammalerai! Sei fredda! Cecilia!
- Lasciami stare! -
Non rispondeva altro, né si asciugava le lagrime e continuava a guardarmi fisso.
Mi posi a sedere sul letto accostandomi alla sponda, in modo di prendere la sua testa fra le mie mani, e cominciai a baciarla sui capelli, mormorando affettuosamente:
- Cecilia mia! Levati su, per carità! Levati su! Parla che è stato?-
Si alzò lentamente, come un'apparizione, ricacciò dietro le orecchie i capelli e mi tese le mani sorridendo sconsolata. I capelli nerissimi sciolti pel collo, l'accappatoio bianco, il pallore del viso, alla luce del lumino da notte che ardeva sul comodino entro un vaso di alabastro, davano a quella figura di donna un fascino sacro... In quel momento ero superstizioso e credevo a qualcosa di un altro mondo.
- Parla, che è stato? - tornai a balbettare.
- Tutto è finito! - rispose con un filo di voce che parve quello di una moribonda.
Poi, dopo una breve pausa, diessi a divorarmi dai baci per parecchi minuti di seguito in modo da togliermi il respiro e fuggí via.
Rimasi fino al mattino cogli occhi fissati all'uscio da cui l'avevo vista sparire come un fantasma, incerto se avessi assistito ad una realtà o sognato a occhi aperti.

Nella giornata non osai interrogarla sull'accaduto della notte.
Ero sbalordito: credevo di aver ricevuto un gran colpo sulla testa e non mi stupivo di non riuscire a riordinar bene le idee.
La vidi affaccendata a far dei preparativi che mi sorprendevano: ma non trovavo modo di aprir bocca per domandargliene ragione.
Mi pareva che facesse un'operazione convenuta di accordo fra noi. Per un viaggio? Per una villeggiatura? Non lo rammentavo preciso; però quei preparativi erano tristi, mi stringevano il cuore, mi riempivano gli occhi di lagrime.
Finalmente il mio spirito acquistò ad un tratto una sorprendente lucidità.
Tutto era finito!
Come?
Cosí lentamente, cosí segretamente che non me n'ero accorto io medesimo; ma pur troppo tutto era finito! La Cecilia aveva detto una cosa che la mia mente non avrebbe saputo esprimere per cento ragioni, e sopratutto perché si rifiutava a credere quello che imaginava non avrebbe dovuto accadere.
La Cecilia era calma. Ripiegava i suoi vestiti di mano in mano che li toglieva dall'armadio e li situava nelle casse. Ogni abito era per me un ricordo di un giorno di beatitudine, di un'ora felice, e a vederlo riporre, mi pareva assistere alla tumulazione di una particella del mio povero cuore...
Soffrivo un dolore compresso, un acuto limío, ma non avevo il coraggio di accostarmi a lei per dirle: - Rimani! Ricominciamo daccapo! -
Non volevo mentire; non avrei neanche saputo. Sentivo tutta ora la stanchezza di una situazione irregolare, nella quale ci eravamo imbarcati io colla spensieratezza di un uomo appassionato, ella colla rassegnazione del sagrificio di una donna che ama!
Pensavo con tristezza: - Perché non può durare? Perché non deve durare? -
E la riflessione rispondeva tranquillamente: - È la legge! -

Tornai dopo alcuni giorni ai giardini pubblici per rintracciarvi un passato che piú non trovavo dentro di me. Era la stessa stagione del nostro primo incontro, la primavera. Gli alberi ricchi di fronde; le aiuole verdi di erbe e qua e là fiorite; il sole, prossimo al tramonto, scherzava coi raggi fra le foglie agitate dai venticelli della sera.
Ahimè! Quei viali, quelle frondi, quelle aiuole non mi dicevano piú nessuna delle mille celesti cose rivelatemi una volta. I zampilli mormoravano stupidamente monotoni; le acque dei laghetti e dei canali torbide, verdastre, riflettevano il cielo e gli oggetti in un tono di colorito che faceva schifo. Le rane, nascoste tra le foglie delle ninfee, gracidavano una musica degna del posto, che ora mi sembrava pretenzionoso e volgare.
Gironzolai qua e là, facendo ogni sforzo per evocare una sensazione, un sentimento; ma invano.
Il viale dei Boschetti mi parve tristo, lungo, basso da mozzare il fiato; dal canale accanto esalava un cattivo odore di borraccina che non avevo mai avvertito.
E andando via rimuginavo:
- Ma è dunque vero che questo mondo di fuori sia una mera creazione del nostro spirito, uno scherzo, un'illusione?
Povera Cecilia! Tu non avresti mai creduto che perfino il mio rimpianto di amore sarebbe un giorno sfumato perdendosi fra le nebbie di un problema di metafisica!


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Racconti" di Luigi Capuana, 3 volumi (TOMO I, TOMO II, TOMO III), a cura di Enrico Ghidetti, collezione: I novellieri italiani, Salerno editrice, Roma, 1974







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