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I

STORIA FOSCA



- Tu menti! - urlò il barone.
Era pallido come un morto, tremava tutto e fulminava cogli occhi il vecchio servitore che gli stava davanti, pallido anche lui, la testa bassa, il viso pieno di lagrime.
- Eccellenza!
E il vecchio giungeva le mani, in atto di preghiera.
Ma il barone si era slanciato sulle pistole posate sopra un tavolino:
- Confessa che hai mentito! Confessa che hai mentito! - Soffocava, dalla rabbia.
Il vecchio portò le mani al viso, senza indietreggiare, senza difendersi: - Aveva detto la pura verità! Abbiamo un'anima sola; non voleva dannarsi! -
Allora il barone sentí cascarsi le braccia; e guardava attorno, smarrito: - Non credeva ancora alle sue orecchie! -
La camera era inondata di luce. Per le aperte invetriate un sorriso di verde, un profumo di primavera irrompevano follemente dal giardino della villa. Il cinguettio dei passeri sul tetto e fra gli alberi, lo schiamazzo delle galline e dei tacchini nella corte, l'allegro abbaiare dei cani echeggiavano per la volta come un coro di festa, un'irrisione in quel punto.
Il barone aveva posate le pistole sul tavolino, macchinalmente, barcollando, e si passava le mani sulla fronte bagnata d'un sudore ghiaccio.
Gli pareva di ammattire; provava un dolore di morte; il cuore gli si schiantava! - Ma aveva proprio veduto, coi suoi occhi?
- Sí, eccellenza, con questi occhi!
- Coi tuoi occhi? -
Giuseppe con una mano sul petto spingeva le pupille in alto: - Giurava al cospetto di Dio!
- Era orribile! -
Il barone si torceva le dita, passava la lingua sulle labbra inaridite ad un tratto e guardava per terra di qua e di là, senza sapere quello che si facesse. Non avea piú forza di parlare; e interrogava insistente, collo sguardo, il servitore che esitava: - Sí, sí, ogni volta che il signor barone era andato in Palermo o era rimasto a dormire in villa al tempo della vendemmia e del raccolto delle ulíve. Non si era risolto a parlare per paura di non esser creduto... Ah, lo aveva ben detto lui che la baronessa era troppo giovane pel signor barone! -
Il barone piangeva come un fanciullo, colle gomita appoggiate a un mobile, colla testa fra le mani: - Era orribile! Era orribile! Imbecille! Doveva prevederlo! La colpa era tutta sua, imbecillone! Ah, certo il diavolo gli avea suggerito di rimaritarsi! -
Il sangue gli montava a fiotti alla testa e gli sconvolgeva il cervello. Terribili progetti di vendetta gli si abbozzavano nella mente, uno sopra l'altro, alla rinfusa, gli davano il capogiro; e dimenticava il vecchio Giuseppe che singhiozzava in un canto.
- Grazie! - gli disse, facendo uno sforzo per ricomporsi e asciugandosi gli occhi.
- Voscenza deve perdonarmi! Avevo rimorso a star zitto. Ed ora... che farà voscenza? Non si danni l'anima, non si danni l'anima ! Lo mandi lontano...
- Mio figlio!... Mio figlio! - mormorava il barone, cacciandosi le mani fra i capelli.

Il barone Russo-Scaro era sui quarantanove anni quando avea sposato Cecilia di Pietranera appena di ventidue. - Tu commetti una grande sciocchezza - gli disse suo zio l'abbate di San Benedetto.
- Cecilia è la bontà in persona - avea risposto il barone.
- Sarà sempre una matrigna...
- Giorgio ha quindici anni. Per ora è in collegio: poi verrà l'università; poi daremo moglie anche a lui...
- Ma tu non sei piú un giovane...
- Sono ben conservato! -
Nel viaggio di nozze erano stati scambiati per padre e figlia; ma il barone avea dimenticato subito quella cattiva impressione. Cosí il primo anno del loro matrimonio era passato tranquillamente.
La baronessa amava vivere ritirata. Era seria, quasi triste; e il marito non sapeva che cosa inventare per distrarla. Innamorato, voleva farsi perdonare la sua età col mezzo d'altri compensi: e le profondeva regali.
- Ancora? - esclamava la Cecilia ad ogni nuova sorpresa del marito.
- Non era mai abbastanza! -
E la baciava sulla fronte.
Un desiderio lo tormentava:
- Se avesse avuto un figliuolo da lei! Oh, allora soltanto gli sarebbe parsa proprio sua! Ma il figliuolo non veniva.
- Meglio! - esclamava lei quando il barone toccava malinconicamente questo tasto. - Non avevano Giorgio?
- Sí, sí, ma è tutt'altro! - rispondeva quello sospirando.
Infatti la loro casa non era allegra: vi mancava un raggio di sole.
Lei passava le giornate divorando romanzi e libri di viaggi. Non amava il marito, ma non provava ripugnanza di trovarsi sua moglie. I suoi parenti avevano voluto cosí e lei aveva ubbidito, senza che questo le costasse nulla. Certe volte sentiva svegliarsi dal fondo del cuore un sentimento indefinito, qualcosa che lei stessa non arrivava a capire, un bisogno, un'irrequietezza, una smania; ma confondeva il malessere dello spirito col malessere fisico, e consultava il dottore. Il dottore ci perdeva il latino:
- Nervi! -
Le sue ricette non approdavano a nulla.

- Sai? Giorgio torna in famiglia - annunziò una sera il barone.
Cecilia non mostrò né piacere, né dispiacere, ma una leggiera sorpresa:
- Ah! -
Il barone avea creduto che il ritorno di Giorgio non le fosse gradito e per iscusarlo s'era affrettato ad aggiungere:
- È un po' ammalato. I medici consigliano qualche mese d'aria nativa.
- Gli farà bene, certamente -. Lei continuava a leggere, distratta.
Il barone si sentiva sulle spine; quell'indifferenza lui la prendeva in mala parte.
- Quando? - domandò la baronessa dopo qualche minuto di silenzio.
- Presto.
- Bisognerà preparargli le stanze...
- Andremo in villa. L'aprile e il maggio li passeremo là. Ti dispiace?
- Anzi! -
Il barone si era sentito togliere un gran peso dal petto.

La villa del Gelso Nero era deliziosamente situata in mezzo a quel giardino di aranci, malgrado che non fosse molto bella con quel casamento a due piani. Dietro la siepe di nespoli del Giappone, di pomi e di peri che circondava la spianata, gli agrumi affacciavano le loro cime luccicanti, di un verde bronzino. L'aria era tutta imbalsamata del profumo della loro zagara.
Nei primi giorni la baronessa e il figliastro si eran trattati con un po' d'impaccio. Giorgio non sapeva adattarsi a chiamare mamma una matrigna cosí giovane; a lei non riusciva di chiamarlo semplicemente Giorgio, e gli dava del «baronello».
Facevano lunghe passeggiate, a piedi o a cavallo, insieme al barone. Qualche volta andavano anche soli, quando il barone s'intratteneva a dare un'occhiata ai lavori dei calabresi che sterravano la vasca. Cosí in meno di due settimane l'impaccio fra matrigna e figliastro era stato vinto. Già si davano del tu, e il barone n'era lietissimo.
Giorgio, gracile, bianco, pareva un fanciullo addirittura, con quei capelli d'un biondo cinericcio e quella straordinaria dolcezza dello sguardo. Però la sua voce, armoniosa, femminile, turbava la baronessa. Sentendolo parlare lei lo guardava fisso. Tanta gentile freschezza le ridestava, tumultuosamente, le sue prime sensazioni di ragazza. Fremiti deliziosi le correvano per tutta la persona; il cuore le si gonfiava.
Quando passavano la mattina nell'uliveto, sul prato smaltato di fiori e dorato dal sole, o in giardino - lui sdraiato bocconi fra l'erbe, all'ombra di un magnifico albero di arancio; lei seduta al suo fianco sul cuscino che Giorgio portava apposta - intanto che questi leggeva ad alta voce, con una monotonia d'inflessioni efficacissima, la Cecilia stava ad ascoltarlo lavorando all'uncinetto. Di tanto in tanto quei suoi begli occhi neri lampeggiavano fra l'ombra dei rami; poi restavano assorti in un punto lontano.
- Sai che in collegio t'odiavo? - le disse Giorgio una volta sbucciando un'arancia.
- Davvero? E perché?
- Mi ero figurato che fossi brutta. Invece...
- Sono meno brutta che non ti immaginavi?
- Sei bella! -
Glielo aveva detto sinceramente, con un'ammirazione di fanciullo, continuando a sbucciare.
La baronessa s'era alzata, e preso il libro messo a cavalcioni di un ramo, lo sfogliava inoltrandosi lentamente pel viale. Giorgio andò a raggiungerla per offrirle l'arancia.
- No, grazie.
- Metà almeno!...
- No, non ne aveva voglia.
- Almeno uno spicchio!
- No -.
E sorrideva, guardandolo negli occhi, stranamente intenerita.
Giorgio le si era piantato dinanzi, porgendole lo spicchio presso la bocca, insistendo
- Metà -.
Cedeva, per compiacerlo. Giorgio mangiava l'altra metà: - Come era dolce! -
E assaporava.
- Via, lasciami leggere - disse la baronessa impallidita.

Ma quel ragazzo non s'avvedeva di nulla. Trovata in casa non un'intrusa ma una sorella, anzi qualche cosa di piú, un'amica, si sentiva felice.
- Beata giovinezza! - esclamava Cecilia nel suo interno. Però non si mostrava sempre del medesimo umore con lui. Certe volte mutava da un momento all'altro, dalla dolcezza a un tono brusco.
- Ha i nervi - diceva Giorgio a suo padre.
- Ti senti forse male? - le domandava il barone.
- No; perché dovea sentirsi male?
- Giorgio mi ha detto: «Cecilia ha i nervi» -.
La baronessa abbassava la testa e aggrottava le sopracciglia.
Il barone interpretava quell'atto a modo suo: ci vedeva lo stesso dolore che tormentava lui, il desiderio smanioso di quel frutto della loro unione che tardava tanto a venire!
- La presenza di Giorgio doveva essere una continua irritazione di quel sentimento, un'offesa, involontaria, alle legittime esigenze di quel cuore! Lo capiva, pur troppo! Ma chi ne avea colpa?... Ora che suo figlio s'era rimesso in salute, poteva ritornare in collegio. Intanto, c'era ancora da sperare! -
Ma quando partecipò la sua risoluzione alla baronessa, questa si oppose: - Quel ragazzo era ancora sofferente. Perché tanta fretta di mandarlo via? Voleva far sospettare che lei, la matrigna, cercasse di tenerlo lontano? Le vacanze erano prossime. In ottobre Giorgio sarebbe stato rimesso del tutto...
- E lui che credeva di farle piacere! Com'era lieto di scoprire che si era ingannato!

In città la vita della Cecilia e di Giorgio scorreva piú monotona. La lettura, il pianoforte potevano svagarli per qualche ora. Le giornate parevano eterne! La sera, durante la solita passeggiata pel viale alberato, fuori il dazio, mentre il barone giocava a' tarocchi nel casino di convegno, Giorgio diceva delle barzellette, osava delle confidenze come ad un camerata. Una sera le raccontava la storia di un suo amoruccio a dieci anni, una vera fanciullaggine.
- E poi?
- Poi?... Nulla - aveva risposto Giorgio.
Lei gli si era aggravata sul braccio camminando a passi lenti, muta, cogli occhi fissi nel cielo stellato. Poi aveva lasciato il braccio per ficcare le mani nelle maniche della mantiglia con un gesto di freddolosa, e avea avuto il capriccio di andar quasi di corsa; poi si era fermata a un tratto: - Voleva tornare a casa. La serata era troppo fresca... Sentiva dei brividi...
- Faceva caldo invece!... -
E in casa si era svestita in fretta ed era andata a sedersi sul terrazzino, colla testa appoggiata al ferro della ringhiera, cogli occhi socchiusi, dondolando la seggiola.
- Ninna, ooh! Ninna ooh! - cantava Giorgio, ridendo, agevolando colla mano quel dondolamento. - Ninna, ooh! -
Al lume di luna che cadeva a sbieco dalla cornice della casa, i capelli di lei e la mano appoggiata sulla sbarra della ringhiera risaltavano luminosi; il resto della figura si velava nell'ombra: e in quell'ombra il bianco dei suoi denti brillava fra le labbra semiaperte a un sorriso.
- Ninna, ooh!
- Giorgio, stai fermo! stai fermo! -
E tentava fiaccamente di trattenergli la mano.
Ma Giorgio non smetteva, da ragazzo imbizzito. All'ultimo, improvvisamente, le soffiava sul viso e scappava. Cecilia s'era rizzata d'un colpo, come se quel soffio l'avesse frustata. Si mordeva le labbra, si passava le mani sui capelli, col petto che le si sollevava. Giorgio, battendo le mani, rideva in fondo alla stanza, nel buio.

Il barone era andato a Palermo; ed essi avevan seguitato a fare il chiasso per gli appartamenti, rincorrendosi, nascondendosi dietro agli usci, proprio come due ragazzi, appena si sentivano stanchi di leggere o seccati di suonare.
Due volte erano anche andati al Gelso Nero in carrozza, per poche ore, il tempo di fare una giratina pel giardino degli agrumi e di perdersi sotto gli archi a sesto acuto dell'uliveto o sotto il pergolato che attraversava la vigna. Tornando, sul tardi, la Cecilia si rannicchiava in fondo alla carrozza, muta, guardando fissamente Giorgio con certi sguardi divoratori, quando lui non poteva vederla: e di tratto in tratto aveva certe scossettine nervose che le facevano strizzar gli occhi e scuoter la testa.
Giorgio, rincantucciato nel lato opposto, non pensava a nulla; e se si voltava verso la matrigna e incontrava la punta acuta degli sguardi di lei, sorrideva a fior di labbra con puerile compiacenza, senza sottintesi. Allora sorrideva anche lei, tristamente, e stendeva la mano ad accarezzargli la bionda capigliatura che gli si arruffava sulla fronte d'avorio, con una carezza da mamma; e il suo polso batteva piú celere e la sua mano, piccola e bianca, tremava.
In uno di questi ritorni Giorgio, destandosi dalla sua indolenza, le avea detto:
- Domenica avrò diciassette anni; divento quasi un uomo -.
La Cecilia lo aveva guardato come se queste parole significassero chi sa che cosa:
- Diciassette anni!

E la settimana dopo erano andati di nuovo al Gelso Nero, questa volta a cavallo. Era una giornata d'estate, col cielo leggermente nuvoloso, piena di tepori. Ma verso sera, quando essi già si apparecchiavano a ritornare, aveva cominciato a venir giú un'acquerugiola fina fina che sembrava un gran velo di tulle steso contro il sole al tramonto.
- Pioggia d'estate! - disse Giorgio osservando il tempo dalla finestra.
La baronessa guardava il cielo e la campagna, muta, colla fronte corrugata, colle labbra strette, gustando quel sordo e carezzevole rumore della pioggia sul fogliame che luccicava, agitato lievemente dal vento. Lontano, lontano, brontolavano i tuoni: il temporale s'avvicinava, preceduto da lampi.
I cavalli, insellati, nitrivano e scalpitavano sotto la tettoia della stalla. Ma la pioggia avea continuato a venir giú piú fitta. Il sole era già sparito dietro montagne di nuvoli nerastri.
- O dove vuole andare, voscenza? - disse massaro Turi. - Pioverà certamente tutta la nottata -.
La baronessa aveva guardato Giorgio e si erano messi a ridere:
- Che bella sorpresa! -
Anche la massaia era comparsa sull'uscio della stanza col suo grembialone bianco di traliccio: - Doveva accendere i lumi? Preparare i letti? Cuocere un po' di verdura, un filu d'amareddi, per la cena? C'era delle uova fresche; il pecoraio, piú tardi, avrebbe portato la ricotta...
- Oh, bene! Oh, bravo!

Giorgio ruzzava come un bimbo, intanto che la baronessa, addossata alla finestra, mordevasi lievemente la punta dell'indice, cogli sguardi sprofondati nella oscurità a traverso la nera campagna.
I canali scrosciavano sull'acciottolato davanti la casa. Le fiammate dei contadini vi gettavano larghe striscie di luce rossiccia dagli usci aperti del pianterreno, e su quelle passavano di tratto in tratto strane ombre allungate. La voce di Giorgio, sceso un momento giú dagli uomini, scoppiava argentina fra le risate, a riprese. Un cane abbaiava.
Poi Giorgio era tornato su ridendo:
- Che grullo quel boaro! Lo canzonavano tutti. Aveva paura delle Nonne che gli spastoiavano le vacche per farlo arrabbiare! Una notte gli avevano anche impiastricciato quattro ciocche della sua zazzera; se lui le avesse tagliate, sarebbe morto sul corpo. Che grullo!
- E la biancheria da letto? Ah! Gli toccava a dormire sulle materasse belli e vestiti! -
Allora s'eran messi a rovistare pei cassettoni. Finalmente, in fondo a un armadio, avean trovato due paia di lenzuola rimaste in campagna per caso. E rifacevano i letti, chiassosamente. Giorgio strappava il lenzuolo rimboccato; la Cecilia fingeva d'arrabbiarsi: - Com'era strambo! -
E tornavano a rimboccare, ridendo, irrefrenabilmente, abbandonandosi a traverso il letto, l'una di qua, l'altro di là, tenendosi i fianchi, non ne potendo piú. E cosí daccapo nell'altra camera attorno il letto di lui.
La cena era parsa deliziosissima.
- Ghiotti quegli amareddi!
- Squisito quel pane dei contadini! -
Seduti di faccia, coi gomiti sulla tavola e il viso fra le mani, colle ginocchia che si toccavano, perduti in mille discorsi inconcludenti, indugiavano ad andare a letto. Giorgio un po' sonnacchioso, lei cogli occhi foschi, luccicanti, colle labbra umide e piú accese del solito. Parlavano a voce bassa, ad intervalli.
Giorgio si alzò il primo, snodandosi la cravatta, sbottonando la camicia che scoprí il suo collo tornito, piú bianco della spuma, un collo di vergine. Cecilia lo accompagnò fino all'uscio della camera e rimase sí, addossata allo spigolo, mentre lui appostava sbadatamente una sedia a piè del letto.
- Buona notte!
- Buona notte! -
La pioggia veniva giú forte ma uguale, con uno scroscio sordo sordo. Tutta la villa dormiva.
La baronessa cominciò a spogliarsi, lasciando cadere i capelli snodati sulle spalle ignude. Si passava sulla fronte le mani fredde, madide come quelle d'una ammalata. Tutt'a un tratto, cosí come trovavasi, barcollante come una persona ebbra, aveva fatto uno, due passi verso l'uscio... e l'avea aperto, risoluta.

Era stata lei!
Al povero ragazzo non era mai passato pel capo che ciò potesse accadere.
Ah, tutto gli avea preparati!
E avean continuato, insaziabili, come due esseri senza coscienza, come due bruti belli e giovani che tracannavano la coppa della vita, per esaurirla.
Nulla era venuto a turbarli: né cura del presente, né pensiero dell'avvenire.
Una figura, fantasma, non s'era mai rizzato in mezzo a loro! Ogni sentimento era stato soffocato da quel delirio di sensi scoppiato pari a un fulmine in mezzo alla loro serenità gioconda. Lei lo avea fatto tremare sotto la violenza del suo fascino; lui l'avea scossa tutta colla sua carne di fanciullo piú bianca della spuma, fresca, vellutata, colla soavità del suo sorriso, coll'azzurro profondo del suo sguardo; complici: la libera solitudine, la cieca confidenza di chi non poteva neppur sospettare e il cielo e la terra e ogni cosa, in quell'autunno siciliano che ha tutte le seduzioni della primavera con qualche cosa di piú intimo e di piú seducente!

Il pretore, il brigadiere dei carabinieri e due amici erano stati introdotti dal barone in punta di piedi, allo scuro.
Il barone avea acceso un fiammifero; la sua mano, che lo teneva in alto per rischiarare il gran letto nuziale a traverso le cortine, tremava convulsa.
- Per carità, signor barone! Siamo ancora a tempo, sia generoso! -
Il pretore lo scongiurava, stringendogli fortemente le braccia.
- È molto se invoco soltanto la legge! - avea risposto il barone.
Da quella mattina in poi le imposte del palazzo Russo-Scaro non sono state piú aperte, chiuse per un lutto eterno. La villa del Gelso Nero è rimasta anch'essa deserta.
Quando lo zio del barone, il vecchio abbate di San Benedetto, passa per caso davanti quel palazzo che gli rammenta la catastrofe dell'ultimo rampollo della sua famiglia, abbassa la testa, accasciato:
- Se vedete una grande rovina - suol ripetere colla sua profonda amarezza di cenobita - dite pure, senza timore d'ingannarvi, che una donna è passata per lí!

Milano, 15 febbraio 1879.



II

UN BACIO



Alla marchesa Bellati era stata data la penitenza di «contentare all'orecchio». - Oh! No, no! Si rifiutava!... Non avrebbe saputo da che parte rifarsi! -
E rideva, faceva delle moine graziose, da bimba; ma il direttore del giuoco fu inesorabile. Le porse il braccio e la condusse attorno, aspettando ritto, serio come un ciambellano, che le persone delle quali ella si accostava all'orecchio dichiarassero di contentarsi delle sue proposte di penitente.
Le signore (ce n'era parecchie) si eran contentate quasi subito: la marchesa, senza dubbio, avea saputo indovinare desideri e aspirazioni che, a quattr'occhi, non temevano di scoprirsi. Gli uomini, meno un solo, l'ultimo, erano stati piú gentili: - Si eran dichiarati contenti della sola vista di lei -.
Restava il barone Paolo Foli, un bel giovane, un capo ameno, che tutte le settimane, con un tono di tragica serietà, invariabilmente soleva ripeterle:
- Marchesa, è inesplicabile come già non siate pazzamente innamorata di me. Questo però non impedisce che io lo sia di voi! -
La marchesa, tutte le settimane, invariabilmente, gli porgeva a baciare con affettata sentimentalità la sua manina di vedova, bianca, vellutata, e rispondeva:
- È inesplicabile!... Ma pure è cosí! -
Nelle serate di casa Bellati il barone Paolo Foli era chiamato l'«inesplicabile». La cosa sembrava non andasse oltre i limiti di un semplice scherzo. Infatti fra gli invitati a Borzano, magnifica villa del conte Rampa, il barone quel giorno le aveva ricantato il suo ritornello a colazione, in giardino, alla passeggiata e, poco prima, anche nel salotto dove tutti si erano riuniti dopo il pranzo a terminar la serata ciarlando, facendo un po' di musica e, in mancanza di meglio, svagandosi coi giuochi di società.
Il barone vedendo accostare la marchesa si era sdraiato sulla poltrona con la fiera attitudine di un uomo molto difficile a contentare.
- Oh, sentite! - gli disse lei; - se fate lo schizzinoso, vi pianto.
- Per la grazia di Dio, c'è un direttore nel salotto! - rispose il barone.
E additava il cavalier Vergati che se ne stava lí ritto, impettito, a pochi passi, tutto compreso della solennità del suo ufficio.
Il cavalier Vergati s'inchinò profondamente: - Avrebbe fatto giustizia! -
La marchesa dovette rassegnarsi e sedette accanto al barone:
- Vi contentereste se io fossi innamorata di voi?
- È poco - rispose il barone; - questo accadrà un giorno o l'altro.
- Impertinente!
- È sempre poco. Avanti.
- Se vi procurassi una bella moglie, con dieci milioni di dote?
- È troppo. La moglie mi guasterebbe i milioni.
- Dunque i soli milioni?
- Non saprei che farne. Sono un uomo straordinariamente virtuoso e modesto.
- Dio mio! - esclamò la marchesa, impazientendosi e battendo i piedini.
- Parla di me?
- Che grullo!... E se vi regalassi una cuoca?
- Ne ho già una in serbo, per sposarla in articulo mortis.
- La meritereste! -
Andavano per le lunghe. La marchesa aveva già fatto una trentina di proposte, ma il barone teneva duro, divagando, rispondendo cose assurde.
- Volete che ve lo dica io quando sarò contento?
- Sentiamo; sarà una stupidaggine - rispose la marchesa.
- No, la cosa piú ovvia di questo mondo.
- Quando? Via!...
- Ma prima bisogna fare una scommessa.
- Vada per la scommessa! Auff! Che cosa dovremmo scommettere?
- Quella mano -.
La marchesa si guardava curiosamente la destra additata dal barone, voltandola e rivoltandola, senza capire.
- La vostra mano... di sposa.
- Ah! - fece la marchesa. - E in premio di che?
- Ecco - replicò il barone, accostandosele all'orecchio. - Io sarò contento unicamente il giorno in cui vi avrò dato (notate bene!) senza il vostro consenso, senza vostra resistenza, ma tranquillamente, con tutto mio agio, un bel bacio sulla bocca. Volete scommettere? -
La marchesa, diventata rossa come una ciliegia, s'era rizzata sulla vita.
- Accetto - disse dopo un momento, con aria altiera, sorridendo. - E vi sembra la cosa piú ovvia? Ma sapete che siete...?
- Il piú bel giovane e l'uomo piú spiritoso di tutto il creato: è la mia opinione -.
La marchesa si levò da sedere.
- Perdoni - disse il cavalier Vergati fermandola. - Il barone non si è finora dichiarato soddisfatto.
- Soddisfattissimo - rispose questi.
E si alzava alla sua volta, per inchinarsi colle braccia incrociate sul petto come un mandarino della China.
- Ooh! - esclamarono tutti.

Tre mesi dopo, nel salotto della marchesa Bellati, verso le undici e mezzo di sera non restavano altre persone che il barone Foli e il suo amico commendatore Vanzetti, un ex deputato scartato ultimamente dai suoi elettori senza che nemmeno loro ne sapessero la ragione.
La marchesa pareva stanca dalla fatica e dalla noia di quella serata. C'era stata troppa gente; aveva il capo grosso; si sentiva stordita. Sua madre, la vecchia marchesa, si era già ritirata nelle sue stanze.
- O che quei due signori non avessero nessuna intenzione di andarsene? Se fosse stato soltanto il barone, lo avrebbe messo subito alla porta, dicendogli senza tante cerimonie che cascava dal sonno. Ma col commendatore! -
La marchesa chiamò la cameriera e, sotto voce, ordinò le si preparasse il letto: - Subito; non cenava... E quel commendatore che non si moveva! Sembrava lo facesse a posta -.
Ragionava di ferrovie, di esercizio privato, di esercizio governativo, di treni che deviavano, di treni che non arrivavano piú...
- Oh, il suo, il treno di quella discorsa non arrivava alla fine davvero! -
La marchesa velava uno sbadiglio. Avrebbe voluto alzarsi dalla poltrona; ma si trovava come asserragliata tra il commendatore e il barone, e le pareva sconveniente passare in mezzo a loro...
- Se quell'altro l'avesse almeno guardata in viso! Gli avrebbe fatto un segnale. Pareva impossibile! Un uomo di spirito come lui gustava l'esercizio ferroviario con una voluttà!... E i treni del commendatore continuavano a partire, uno dietro all'altro, senza interruzione. Si scontravano, ammazzavano la gente, non si arrestavano mai...
La marchesa aveva una voglia di urlare: - Cinque minuti di fermata! -
Ma il commendatore non la lasciava respirare; s'infuocava, apostrofava il «Consiglio superiore del movimento», se la prendeva col ministro dei lavori pubblici e gli faceva certe lavate di capo!... Poi veniva la volta del parlamento: - Tutto il marcio era lí! Non c'era piú deputati, ma dei saltimbanchi... dei giuocatori di bussolotti!... E il paese!... Il paese!... Il paese!... La marchesa si era sdraiata sulla spalliera della poltrona, cogli occhi socchiusi, col viso nascosto nell'ombra che la ventola lasciava cadere dal lato di lei. Si sarebbe detto che quella parola: «Il paese! Il paese!», ripetuta dal commendatore nell'entusiasmo della sua perorazione, avesse servito a vincere la resistenza che lei si sforzava di opporre alla forza del sonno. Da lí a poco il ventaglio le scivolava di mano.
Il barone fe' cenno al commendatore: - Continuasse a parlare -.
Intanto si alzava adagino adagino dalla poltrona.
La marchesa diè un grido e si coprí il volto colle mani. - Avevo bisogno di un testimone - disse il barone. - Se non vi dispiace, caro commendatore, potrete esserlo, fra non molto, del nostro contratto di nozze -.
Il commendatore guardava ora lui ora la marchesa, interdetto.

Altri tre mesi dopo, il barone e la marchesa Bellati, diventata quella mattina baronessa Foli, partivano verso le cinque di sera pel loro viaggio di nozze.
Era una serata dolce. L'orizzonte si accendeva ancora delle tinte vive del tramonto con gradazioni soavi.
Presi per mano, i due sposi si guardavano teneramente, commossi, senza dire una parola, da vere persone felici. - Si eran voluti bene tanto tempo, in una maniera stravagante, quasi avessero canzonato!... Ed ora, non era un sogno, facevano il loro viaggio di nozze! -
La baronessa al dubbio lume della lampada del vagone sembrava una bellezza fantastica, con quel viso che aveva sfumature e delicatezze da pastello e, in mezzo, i grandi occhi neri un po' velati da un'indolenza orientale. Infatti lo scialle che l'avviluppava tutta le dava un'aria di levantina.
Sul tardi, il barone tirava sotto il lume la tendina azzurra. Un'ombra discreta invadeva il vagone. Poi scoppiava un bacio.
- Ah, cara mia! - mormorava il barone all'orecchio di lei. - Se tu avessi provato la dolcezza del primo! Quella sera...
- Va là, che non dormivo! Ti volevo bene e...
- Non dormivi?... -
Il barone Paolo Foli rimase male.

Milano, 30 novembre 1877.



III

CONTRASTO



Alberto diventava piú impaziente da un momento all'altro e guardava l'orologio con certe occhiatacce... come se questo gli facesse il dispetto di ritardargli le ore. - Le dodici! Per arrivare alle tre di sera ci voleva addirittura l'eternità -.
Il caminetto scoppiettava nel salottino con un'allegra fiammata. Pareva borbottasse: «Stai fermo, accosta la poltrona; facciamo quattro chiacchiere sotto voce; ho tante cose a dirti!». Ma Alberto ora andava su e giú, da un angolo all'altro; ora incollava il volto ai vetri della finestra e guardava nella via, senza dir nulla; i passanti gli parevano ombre.
Il cielo era grigio. Folate di nuvole scure spuntavano dietro i tetti e andavan via di corsa, quasi avessero fretta. Quelle nuvole pregne di poggia, che pareva la rattenessero a stento per rovesciarla giú al primo scoppio di tuono, Alberto le vedeva fuggire pel cielo come tanti uccellacci di mal augurio.
Quel tempo minaccioso gli metteva l'uggia addosso.
- O perché non splendeva una bella giornata di sole? Anche il tempo lo contrariava, gli faceva un dispetto, gli dimezzava la sua felicità, gli amareggiava uno dei piú squisiti piaceri della sua vita di scapolo! Già, se cominciava a piovere, col rovescione che sarebbe venuto giú, lei avrebbe trovato una scusa per mancare alla promessa. Oh, non le sarebbe parso vero! Se l'era lasciata strappare a stento, dopo parecchi mesi d'insistenza, quasi per stanchezza!... La pioggia, sicuramente, sarebbe stata un bel pretesto!
E già le prime goccie battevano sui vetri, brillavano un momentino, e poi sbavavano.
Alberto, involtando nervosamente una sigaretta, masticava improperi all'indirizzo della pioggia.

Si aggirò pel salotto a testa bassa, lentamente; prese in mano uno dei tanti volumi buttati alla rinfusa sopra un tavolino e si sdraiò sulla poltrona, presso il caminetto. Il caminetto continuava a scoppiettare, a borbottare colle sue lingue di fiamma.
- Inutile! Non poteva leggere. Le lettere gli ballavano sotto gli occhi. Era troppo arrabbiato -.
E si allungava sulla poltrona, chiudendo gli occhi, strizzando la sigaretta fra i denti.
- Domani alle tre!...-
Se lo sentiva ripetere all'orecchio da una voce affiochita dalla distanza, musicale, un gorgheggio di usignuolo, da un'eco che sembrava gli arrivasse da una profumata regione tropicale verso cui si sentiva trasportato, come nei sogni, vertiginosamente.
- Ah quella bionda testa di donna! Gli accendeva l'immaginazione di riflessi dorati, di rosei fulgori.
- E quegli occhi! Cerulei, limpidissimi, profondi; un'immensità di cielo! E quelle labbra! Cosí sanguigne da rendere smorta la bianchezza opalina della carnagione! Quella testa di bionda maliarda gli faceva degli accenni civettuoli, promesse che avean l'aria di voler essere ripulse, inviti che pretendevano di parere concessioni pietose.
E il salotto gli s'illuminava di un vasto incendio di sole, e il pianoforte aperto in un angolo vibrava da tutte le sue corde un fremito armonioso, senza che nessuno lo toccasse, per sola virtú della presenza di lei!...

Un gran fantasticatore quell'Alberto! Glielo dicevo sempre; ma questa volta, bisogna convenirne, avea ragione. Nei suoi panni chi non avrebbe fatto lo stesso? La signora Moroni era una fiera bellezza, da far girare il capo a un santo e fargli perdere il paradiso.
Girare il capo, l'ho detto a posta. In quanto a farsi amare, ecco, la signora Moroni era di quelle donne che si desiderano violentemente ma non si amano punto. Da prima, lo confesso, non ero di questo parere, non facevo distinzioni; confondevo scioccamente il violento desiderio coll'amore.
- Sbagli - mi disse Alberto una sera; - c'è una bella differenza. Il desiderio, sodisfatto, cessa; l'amore è un abisso che non può mai colmarsi.
- Cessa anche l'amore...
- No; il vero amore si trasforma, non cessa -.

- Le due!-
Agli squilli argentini dell'orologio Alberto si riscosse. - Avea dormito? Avea sognato? Avea fantasticato? Si sentiva intorpidito. Il caminetto rosseggiava senza fiamma; la pioggia cadeva lentamente. Il cielo prendeva quel colore bianchiccio che precede il sereno. Il salottino nuotava entro una luce dolce, morbida, insinuante. Alberto se la sentiva penetrare per tutto il corpo, come il tepore di un bagno.
Non era piú impaziente. Guardava l'orologio con altr'occhio; dubitava andasse avanti:
- Possibile! Le due? Quasi quasi gli dispiaceva che mancasse appena un'ora all'arrivo di lei.
- C'era da sentir fermare, da un momento all'altro, la sua carrozza al portone... Forse non sarebbe venuta nemmeno in carrozza... La prima scampanellata all'uscio sarebbe stata la sua, certamente... Ecco, dimenticava di lasciarlo soltanto accostato!... Lei voleva cosí, per non aspettare sul pianerottolo... Ma non si muoveva.
Rimaneva lí, sdraiato, colla pianta dei piedi contro la brace, senza trovar la forza di levarsi; giacché bisognava andasse lui stesso ad aprire, avendo allontanato il servitore con una scusa, per esser piú libero... Ma non si muoveva.
O che cosa era avvenuto dentro di lui? Ah! Di pensiero in pensiero, di ricordo in ricordo, avea perduto di vista a poco a poco l'imagine della sua bionda maliarda... L'avea lasciata per via, senz'accorgersene, come un compagno di passeggiata che indugi erborizzando. Si era voltato una o due volte, sbadatamente, senza curarsi di aspettarla... E il tradimento gliel'aveva fatto quel brontolone del caminetto.
Quattro anni fa, nello stesso mese, alla stess'ora, con una giornata egualmente piovosa, in quel medesimo posto... Gli pareva un sogno! Povera Erminia! Singhiozzava, col volto nascosto fra le mani, riversata indietro sulla spalliera della poltrona, desolatamente; e lui, pallido come un morto, colle mani giunte in atto di preghiera, colla voce turbata dall'emozione, tentava di farle coraggio! Terribili momenti! Ma che potevano fare contro quella forza brutale che spezzava, a un tratto, i nodi creduti eterni della loro catena di amore? Lei doveva partire col marito, senza speranza di ritorno! Quel colpo la uccideva; già le pareva di accomiatarsi dal letto di morte! Si sentiva schiacciato anche lui; sentiva mancarsi il respiro!
Povera Erminia! Lo vedeva ancora quel viso bruno e pallido, contornato dai folti capelli neri, pieno di profonda tristezza. La sentiva ancora quella voce soave, che sembrava scaturisse dall'intima profondità del cuore!
Come si erano amati! Come si eran sentiti fulminare, tutti e due, la prima volta che si eran visti!
E che delizia in quelle continue cure di eludere ogni sospetto, di addormentare ogni malignità, in quell'inebriarsi della poesia del lor segreto come due giovanetti di sedici anni! E che tesori di piccole astuzie prodigate per passare insieme intiere giornate mentre la gente li credeva distanti cento miglia l'uno dall'altra, o anche soltanto per vedersi!
Divine follie! Sublimi abbandoni! Ineffabili ore di scoraggiamenti, di dubbi, di felicità spensierata! Delizie senza nome! Voluttà piú dello spirito che della carne, in quella raffinatezza, in quell'elevatezza che scaturiva dal prepotente rigoglio delle loro anime innamorate!...
Al brontolio del caminetto, al guizzo delle fiamme azzurrognole, ai bagliori d'oro che montavano ondulanti in alto quasi volessero scappar via per la gola affumicata, tutto il passato gli si risvegliava nella memoria, viveva una vita quasi piú reale di quella vissuta una volta!
- Ma che? Le due e mezzo? Di già? Decisamente le lancette dell'orologio a pendolo si scapricciavano a correre! -
Cosí la bionda maliarda ritornava a inframettersi importuna tra lui e quei cari ricordi, colla sua aureola di biondi capelli elegantemente arruffati, colla provocante serenità dei suoi occhi azzurri, colle sue labbra porporine, colla marmorea candidezza del collo e del seno, con tutte le sue seduzioni di cortigiana aristocratica che si concede e non si profonde, con quei suoi capricci di sensi e quella terribile freddezza di cuore che pareva un calcolo e non era!
- E doveva occupare in quel giorno, in quell'ora, lo stesso posto della sua povera morta, di lei che gli avea fatto provare le gioie piú grandi e il piú grande dolore della sua vita?... Ora che rimormoravano pel salotto quegli addii dolorosi, pur troppo gli ultimi?... Ora che gli si rinnovavano dentro l'orecchio quei singhiozzi soffocati dai baci piú strazianti che mai scoccasse bocca di donna?... No! No! -
Quell'inatteso rifiorire di un affetto da lui creduto già inaridito; quei ricordi di sensazioni che diventavano in quel momento sensazioni immediate, lo sbalordivano, gli davano la tortura di un rimorso, gli producevano un improvviso disgusto.
Una gentile tenerezza gli si affollava al cuore da ogni parte del suo corpo; le pupille gli nuotavano in qualche cosa che aveva la soavità delle lagrime; i suoi nervi erano sopraffatti da una lassezza deliziosa, ch'egli si rimproverava fiaccamente.
- Debolezza di fanciullo! intanto l'assaporava con gusto, come un frutto conservato fresco fuori stagione...

Una scampanellata arditissima, nervosissima lo fece balzare in piedi.
- Era lei! Lei, la desiderata da tanto tempo! Lei, il fascino irresistibile della carne, per cui gli eran divampati nel sangue ardori divoranti da farlo soffrire come se gli fosse corsi carboni accesi dentro le vene!... -
Il campanello tornò a squillare, piú nervoso.
Senza coscienza di quel che facesse, tremante dall'emozione, in punta di piedi, Alberto era arrivato fino all'uscio; e mentre stava per stendere la mano al paletto: - Vile! - sentí gridarsi dal profondo del cuore.
E il suo braccio si arrestò quasi paralizzato, mentre il petto gli ansava forte; e le gambe gli si piegavano, al fruscio di una veste e al lieve rumore di due tacchi che allontanavano per la scala.

Verso le undici, Alberto si presentava dalla signora Moroni. Quella sera il salotto era affollato.
Il Palloni, vedendolo entrare, gli era andato incontro e lo aveva tratto in disparte:
- Briccone! Ho un tuo segreto fra le mani; ma non dubitare, sarò discreto.
E siccome Alberto lo guardava negli occhi:
- C'incontrammo per le scale - gli sussurrò all'orecchio; - ma feci le viste di non riconoscerla. Io andavo dai Cerri, al primo piano -.
Alberto gli rispose con un'alzata di spalle.
La signora Moroni era splendidissima. Egli la guardava affascinato
- Com'era stato sciocco quella mattina! Oh, ma un'altra volta non avrebbe fatto l'imbecille!... -
E cercava una scusa, quando la Moroni gli accennò di accostarsi.
- Come si chiamava quel rimedio contro il mal di capo che lui vantava tanto? Voleva sperimentarlo. Che giornataccia aveva passata! Avea creduto di ammattire!... Ne aveva avuto per sette ore!... Quel rimedio era proprio efficace? Il dottore diceva di no. Ma lei voleva provarlo di nascosto dal dottore... chi sa? Poteva giovarle davvero! Si chiamava?...
- Guarana - disse Alberto, inchinandosi dopo averla guardata negli occhi.
- Che bel giovane! - esclamò un'amica della signora Moroni mentre Alberto si allontanava.
- Un imbecille, come tutti i bei giovani! - rispose lei.

Al tocco dopo la mezzanotte Alberto era ancora al club disteso sul canapè, con le gambe allungate, con le braccia incrociate sullo stomaco e la testa abbandonata sulla spalliera. - Un poema, caro amico! - gli diceva sotto voce il Cardini. - Un vero poema! È arrivata in casa mia alle tre e mezzo, inaspettata, come un'apparizione... -
Cardini parlava da una mezz'ora, profondendosi in esclamazioni, perdendosi in un lirismo di frasi e di gesti da far comprendere, povero diavolo! che aveva bisogno di uno sfogo perché la sua felicità non lo uccidesse...
Ma appena aveva inteso pronunziare il nome della signora Moroni, Alberto si era inabissato in una rêverie cosí profonda da non sentire una sola parola delle confidenze del suo amico.

Milano, 15 dicembre 1877.



IV

L'IDEALE DI PÍULA



L'amico Píula andava giú rapidamente, in modo incredibile. Ogni settimana gli lasciava dei grandi guasti sul viso, nell'andatura, nelle maniere, nella voce, dappertutto. Il colore della sua carnagione diventava terroso: alla coda dell'occhio gli si aggruppava un fascio di piccole rughe che aprivasi a ventaglio verso le tempie e non conferiva ad abbellirlo. Altre rughe invadevano il collo, la fronte, le guance e gli davano l'aria d'un pezzo di cartapecora aggrinzita nel quale fossero stati ritagliati due buchi paralleli: gli occhi. Ma tutto questo non avrebbe fatto grande impressione senza quell'andatura stracca, curvata con cui egli trascinavasi da un luogo all'altro, senza quella sciatteria degli abiti, senza quel lamentevole suono della sua voce che pareva uscisse dalle cieche profondità dello stomaco, stavo per dire dalla pianta dei piedi, anzi da sotterra.
- Ma che cosa hai?
- Oh, nulla!
- Eppure...
- Ah!...
Quell'«ah!» lo sapevo a memoria. Significava il vuoto desolante del suo cuore, il gran desiderio della famiglia che lo tormentava da tanti anni, il suo ideale della vita che gli sfuggiva appena allungava la mano per afferrarlo.
Per questo si era buscato il nomignolo di Píula che in siciliano significa strige. Era un sospiro, un lamento, un singhiozzo, qualcosa di cosí triste, di cosí malauguroso, come il canto dello strige, che faceva proprio male a sentirglielo cacciar fuori.
Píula aveva trent'anni, ma gli se ne potevano dare addirittura cinquanta. Occorreva la fede di nascita, col «visto» del sindaco e con tanto di bollo, per non credersi corbellati. Era andato giú in poco tempo, dopo parecchi disinganni. L'ideale lo consumava, la natura lo aveva impastato male: una sensitiva, un poeta! Non già che egli avesse la debolezza di scriver dei versi, nemmeno per sogno; i suoi studi, fortunatamente, non gli permettevano di poter distinguere un endecasillabo da un settenario. La poesia l'avea tutta dentro, nelle sue viscere di sensitiva.
Bisognava sentirlo ragionare della donna dei suoi sogni! Venivano le lagrime agli occhi. Una lirica di tenerezza, un idillio, un cantico di adorazioni e di mistici rapimenti...! Ma quel sogno tardava troppo a trasformarsi in realtà.
Nel marzo d'ogni anno, Píula sentiva l'assillo della primavera vicina e rifioriva, come la terra; diventava allegro, spigliato. La sua folta capigliatura castagna provava piú assidue le carezze del pettine e dell'olio coll'essenza di spigo, il profumo da lui preferito. I bianchi e lucidi petti delle camicie si avvicendavano frequenti fra lo sparato del corpetto. I goletti contornavansi d'una cravattina nera, un vero nastrino di seta, accuratamente annodata. Il ferraiuolo, di panno verde bottiglia, dal collare un po' unto, cedeva il posto al soprabito nuovo color cioccolatte; e le sue mani stupivano di sentirsi, le domeniche, imprigionate dentro guanti di pelle ch'esse dovevano certamente riconoscere: contavano piú primavere, e sembravano nuovi.
Erano i segni che rivelavano l'interno risveglio dell'ideale. In marzo Píula ricominciava, da qualche anno in qua, la sua caccia alla moglie, una farfalla indiavolata che non voleva lasciarsi acchiappare; e allora, nelle belle giornate, veniva a trovarmi, per fare insieme una sentimentale passeggiata pei campi. Un sintomo infallibile! Aveva qualcosa da confidarmi.
- Ci siamo?
- Eh! Eh!
- Via, non far misteri misteri...
- Niente di serio! Dei progetti soltanto... Ma quest'anno voglio uscirne: o uguanno o mai piú! L'ho giurato sul crocifisso.
- Bella?
- Simpatica; e poi, buona! È l'essenziale.
- Bravo. La conosco?
- Può darsi... Ma, te lo ripeto, ancora niente di serio. Non ne parliamo, sarà meglio. Saprai tutto a cose finite -. Io intanto mi accorgevo che l'amico ciliegia si struggeva di sgravarsi del suo segreto, e lo tormentavo cambiando discorso. Pochi minuti dopo, con quella sua finta aria sbadata, mi aveva riportato al soggetto.
- Era stanco di quella sua vitaccia di celibe; non ne poteva piú! Quella mattina avea dovuto attaccarsi da sé due bottoncini della camicia... Una cosa insoffribile! E s'era punto un dito tre volte!... La sua mamma, povera vecchina, trovavasi alla messa; la serva badava in cucina, e... con quelle manacce!... Insomma, voleva uscirne; non ne poteva piú! Aveva posto il dilemma al fratello: «o lui, o lui!» A quel modo non si andava innanzi. Nino rifiutava. Dunque toccava a lui di sacrificarsi sull'altare della famiglia. Ed era pronto!
- Anche l'anno scorso...
- Oggi era un'altra cosa: un affare finito. Con me parlava a cuore aperto: un affare finito!
- Me ne congratulavo, sinceramente.
- Grazie. Aveva bisogno di conforti. Una moglie è una terribile responsabilità! Gli tremavano le spalle nel rifletterci.
- Non bisognava rifletterci.
- Poi capita addosso una tempesta di figliuoli...
- Orrore! Le gioie della paternità le chiamava una tempesta!
- Sí, sí, gioie, non diceva di no. Ma se ci rifletteva un pochino...
- Non bisognava rifletterci!
- Avevo ragione. Però... Quella mattina era andato in casa il notaio. Che seccatura! Nel matrimonio non avrebbero dovuto entrarci questioni d'interessi; gli ripugnavano: infine, il mondo era fatto cosí, e bisognava accettarlo come era. Dunque, era andato in casa il notaio. Avessi visto! Pareva l'anticamera dell'inferno, con sette diavoli di bimbi che urlavano, pestavano coi piedi, strascinavano le sedie, strillavano per la colazione, sudici, moccicosi spettinati!... Il notaio bestemmiava come un turco per farli star cheti. Eh, sí! E quelli, per risposta, urlavan piú forte! Era andato via col capo come un cestone, senza aver capito nulla dell'affare, convinto che di figliuoli non bisognerebbe farne piú di due... Forse, ce ne sarebbe anche uno di troppo!
- Malthusiano! Mi scandalizzava!
- Oh! diceva per dire. Lui credeva alla provvidenza... Ma, infine, se il Signore si fosse deciso a non dargliene piú di due... non se ne sarebbe lagnato.
- Già pensava ai figliuoli?
- Se era un affare finito! Mancavano alcune piccole formalità. A lui piacevano i conti spicci: non voleva aver noie coi parenti per questioni d'interessi. Era un uomo di abitudini tranquille,..
- Dovevo dirglielo? Era troppo sottile, troppo meticoloso...
- Ma non si trattava di un affare; bensí di un matrimonio d'inclinazione... quell'antica idea... capivo?
- Ah!... capivo, briccone! -
E Píula mi dava una spallata, fregandosi le mani, sorridente, contento come una Pasqua; e filava una buona mezz'ora della sua solita lirica, del suo solito idillio, del suo solito cantico dei cantici. Diventava giovane di vent'anni: - Si arrabbiava di non vedermi convinto come lui! Quella volta le sue cose andavano bene; il cosí detto affare finito era davvero un affare finito!
Però il maggio e il giugno passavano in trattative, in un viavai dell'avvocato, del notaio, di amici intermediari che non finivano piú.
- Insomma?...
- Si andava avanti... Una piccola difficoltà: il nonno si ostinava a non voler fare una permuta da nulla. Capivo? A lui premeva di aver la dote raccolta in un punto. Doveva confondersi con un pezzettino di terra qua, un altro là? Se non ci si fosse potuto trovar rimedio, non avrebbe fiatato. Ma il rimedio c'era: la permuta colla vigna di Licciardo. Il nonno teneva duro per fargli dispetto; aveva un altro partito in testa... Ma la ragazza gli aveva spifferato un no piú tondo di cosí!
- Voleva un consiglio? Lasciasse andare la vigna: ne riparlerebbe dopo.
- No, era una mera picca, perché aveva ragione... -
Ma ecco che nel luglio e nell'agosto Píula era ridiventato scuro scuro.
I capelli non mostravano piú l'assiduità delle carezze del pettine e dell'olio coll'essenza di spigo. I petti delle camicie rimanevano in mostra fra lo sparato del corpetto in onta che fossero evidentemente un po' troppo sgualciti. La cravattina nera, stretta come un nastrino di seta, era stata sostituita da certe cravattacce a nodo scorsoio che mostravano i denti. Il viso gli si era disfatto in un paio di settimane, come una pera mezza. E viveva appartato, evitando anche gli amici. Ai primi freddi dell'autunno aveva già ripreso il ferraiuolo di panno verde bottiglia dal collare un po' unto, e al solito, gemeva quei suoi «ah!» da vero Píula, peggio di prima.
- Te lo dicevo io?
- Oh, non me ne parlare! Chi poteva prevederlo? Volevan farmi passare per grullo; volevano abusare della mia passione per la ragazza... Capisci bene che...
- Capisco benissimo!
- E poi, sai che c'è? Son proprio contento di non esserci cascato. La ragazza... mettiamola da parte; un angelo di bontà. Non bella, se vogliamo, ma un angelo, una perfetta donna di casa, massaia, prudente... quel che ci voleva per me; e se si fosse trattato soltanto di lei!... Ma la parentela!...
- Non era poi il diavolo!
- No, ma noiosa, permalosa, esigente, piena di pretese, con tanti fumi in testa pei suoi quarti di nobiltà che piú non valevano un fico. Non si viveva di quarti, disgraziatamente! I quarti lui li capiva accompagnati da centinaia di migliaia di lire; se no, facevano ridere.
- Però la dote della Paolina...
- Ne conveniva, era discreta, sebbene un po' sparpagliata... Ma con quel brutto costume che lo sposo deve regalare i vestiti di nozze alla sposa e tutto il resto che vien dietro... volevo fare un po' i conti?
- Lasciamo stare.
- Mezza dote se ne andava in fumo prima di averla tra le mani. E già aveva sentito sussurrare di un certo abito di velluto nero... Si esigeva un abito di velluto nero!... O che sposava una principessa?
- Ah! Ah!
- A questi lumi di luna! Coll'esattore sul collo che non ci lascia respirare!
- Ah! Ah! Ah!
- Rideva? Ah! Ah! Ah! Rideva anche lui e si fregava le mani! No, quel matrimonio non era punto il suo ideale! -
Non era il suo ideale!
Da quattro o cinque anni, ad ogni trattativa andata a monte, Píula conchiudeva sempre:
- Non era il mio ideale! -
Avrei dato un occhio del capo per sapere precisamente quale fosse quel suo benedetto ideale!
Povero Píula! Mi faceva pietà. Questa volta era andato giú davvero: pareva invecchiato di cento anni. Io intanto avevo la fanciullesca crudeltà di canzonarlo:
- Ti ricordi di Ramsete III?'
Píula mi guardava in viso, con tanto d'occhi.
- Di quel re d'Egitto, tuo contemporaneo? N'è stata scoperta la mummia il mese scorso -.
Píula scrollava il capo: - Mummia! Mummia! Ma lui si sentiva piú giovane di me; aveva la giovinezza del cuore. Mummia ero io che non credevo piú a nulla, non amavo piú nulla, né ero capace di provare nessuna gentile illusione!...
- Idee egiziane, del tempo della ventesima dinastia!
- Ma lo avrebbe provato che lui era giovane ancora...
- Se dovevo aspettar quella prova!
- Nel marzo dell'anno scorso Píula, al solito, era ringiovanito; relativamente, ma ringiovanito. E una domenica me lo ero veduto venire davanti raso di fresco, col soprabito color cioccolatte, coi guanti nuovi... di tre anni fa, cogli stivaletti di pelle lustra; un zerbinotto! Fumava un virginia, prodigalità sorprendente; portava all'occhiello un garofano brizzolato bianco e rosso, una vera insegna da innamorato. Avevo stentato a riconoscerlo quando, fermatosi a pochi passi da me, aveva cominciato a guardarmi con quei occhietti strizzati e quel suo ironico sorrisino sulle labbra.
- Non me la dai a intendere - gli dissi.
- Ti ho fatto segnare per testimone - rispose.
- Testimone di che?
- Del mio... contratto di nozze.
- Ooh! Ooh!
- Risparmia gli ooh! fammi il piacere!
- Ed esso è già steso?
- Sissignore, in tanti bei fogli di carta bollata.
- Tu sei prudente; non sei capace di metterti al repentaglio di sprecar quella spesa: ma, finché non avrò inteso dal sindaco le sacramentali parole... Si trattava della figlia del Vescovo, il primo medico del paese: (non si è mai potuto sapere perché lo chiamassero cosí). La Carmelina, figlia unica, aveva già passato da qualche tempo i vent'anni. Magra, lunga, moretta, con certi occhi sgranati, cominciava a seccarsi vedendo che un marito non arrivasse anche per lei.
- Non era un buon partito?
- Ottimo. Ma gl'interessi?
- Già belli e regolati. Soltanto.
- Ahi! Ahi!
- Soltanto...
E non era passata una settimana che Píula declamava contro la società moderna, come un missionario: - Non c'era piú sentimento nei cuori di oggi, ma liste di cifre!... Il matrimonio? Una speculazione, un affare! Le ragazze andavano in cerca di un grullo da fargli le spese; i babbi non pensavano che sbarazzarsi delle figliuole, con appena la camicia indosso!... Un galantuomo doveva rinunciare alle dolcezze della famiglia se non voleva morir disperato, di pura fame!... Il mondo andava a rotoli! Solo i contadini potevano prender moglie: vivevano di nulla! Ma i proprietari? Eran tutti condannati al celibato forzoso!I Una moglie per essi diventava un tracollo!...
Povero Píula! Anche la Carmelina era andata in fumo.
- Ma insomma - gli dissi - vorresti sposare soltanto la dote?
- Se si potesse! - rispose alzando gli occhi al cielo. - Sarebbe l'ideale!...

Milano, gennaio 1879.



V

UN CASO DI SONNAMBULISMO



Fra i tanti casi di sonnambulismo dei quali la scienza medica ha fatto tesoro, questo del signor Dionigi Van-Spengel è certamente uno dei piú meravigliosi e dei piú rari. Compendierò l'interessante memoria pubblicata recentemente dal dottor Croissart; spesso, per far meglio, adoprerò le stesse parole dell'illustre scrittore.
Il signor Dionigi Van-Spengel ha cinquantatre anni. È una figura secca, lunga, eminentemente nervosa, notevolissima sopra tutto pel naso e pel modo di guardare; vista una volta non si dimentica piú. Il ritratto, disegnato da Levys, messo in testa al volume, è di una rassomiglianza perfetta. La sua fronte, poco ampia ma molto elevata, è coperta di rughe che si alzano e si abbassano con continuo movimento come il mantice di un organino. Dietro di esse mulina un cervello che ignora il riposo. Il signor Van-Spengel trovasi da venti anni alla direzione generale della polizia del Belgio, e ha preso sul serio il suo posto. In parecchie circostanze ha dimostrato di non essere stato per nulla l'allievo prediletto del Vidocq.
La sua pupilla, un po' neutralizzata da un par di occhiali di presbite, ha un'espressione affascinante; non guarda, ma penetra. L'uomo piú onesto del mondo tenterebbe invano di sopportarla pochi minuti senza imbarazzo.
«La prima volta che conobbi il signor Van-Spengel - dice il dottor Croissart - fu per cagione di una sua malattia. Da sei mesi era travagliato da un'insonnia fastidiosissima: i medici di Brusselle e di Parigi non sapevano da che parte rifarsi contro un male cosí ribelle ad ogni energico trattamento. Giunto allora dalla provincia, una cura fortunata mi avea messo subito in mostra. Egli venne a trovarmi. L'impressione di quella visita non mi uscirà piú di mente.
Ragionando del suo male, il signor Van-Spengel mi guardava in viso con quell'aria scrutatrice tutta propria, che forse un po' gli veniva dalle abitudini del mestiere, ma che in gran parte mi parve dovesse attribuirsi al suo naso lungo, acuminato, un tantino storto e rivolto in su, un naso stranissimo.
Dopo pochi minuti non fui piú buono di prestare attenzione a quello che lui diceva. Mi sentivo attaccato nel santuario della mia coscienza e badavo a difendermi. Non son facile a subire illusioni di sorta; ma la fisonomia di quell'uomo m'inspirava in quel punto un indefinibile senso di paura. Giunsi fino a fantasticare che egli adoperasse quel naso, pel morale, come lo spiedo delle guardie daziarie alle porte delle città; infatti ricercava tutte le fibre e si ficcava piú oltre.
Quando il signor Van-Spengel tacque, non ebbi alcun dubbio ch'egli non conoscesse il mio cuore quanto e, forse, piú di me. Credetti anzi di sorprendergli sulle labbra un sorrisino di trionfo. Fui, mio malgrado, costretto a chiedergli scusa e a pregarlo umilmente di ricominciare da capo.
Sia indovinasse il motivo del mio turbamento, sia rimanesse mortificato della mia disattenzione, il signor Van-Spengel fissò allora gli sguardi sul piccolo tappeto steso sotto i suoi piedi e non li distolse di là prima di aver terminato la seconda narrazione delle sue sofferenze» (pag. 6).
Il signor Van-Spengel è celibe. Non ha parenti. Vive con una vecchia che lo serve da trent'anni, ed abita un quartierino nello stesso ufficio della direzione generale di polizia. Di abitudini regolarissime, passa leggendo le poche ore disoccupate che il suo posto gli consente. Mangia poco e, cosa piú notevole, non beve vino.
È certissimo che la sera del 1 marzo 1872 il signor Van-Spengel rientrò nelle sue stanze piú presto del solito. Era di buon umore e cenò con appetito. Si mise a letto alle undici e mezzo di sera: poco dopo la serva lo sentí russare fortemente. Alle otto e tre quarti del mattino (2 marzo) era desto. Il campanello avvertiva la Trosse che il suo padrone attendeva il caffè.
La Trosse assicura che l'aspetto del signor Van-Spengel era, quella mattina, preciso come il consueto, anzi un po' piú sereno.
Nulla faceva presagire la trista catastrofe della giornata. - Il padrone - raccontò poi la vecchia - sorbí il caffè a centellini, esclamando ad ogni sorso: «Stupendo! Eccellente!» Indi accese la sua pipa. «Sapete? - mi disse; - temo di aver dormito nove ore tutte di un fiato!» E diè in uno scoppio di risa. Io tentennai il capo, ma non volli contraddirlo -.
All'una dopo la mezzanotte la Trosse lo aveva sentito passeggiare per la stanza e smuovere qualche seggiola. Supponendo che stesse male, si era levata e, pian pianino, aveva aperto l'uscio a fessura. Il suo padrone, seduto a un tavolino, avvolto nella sua veste da camera, col berretto da notte, scriveva.
Alle nove e mezzo il signor Van-Spengel avea terminato di fumare la sua pipa e si era levato. Si vestí, secondo la sua abitudine, in fretta e in furia; si fece aiutare dalla serva a infilare il soprabito, e si accostò al tavolino per prendervi gli occhiali. La serva teneva in mano il cappello e la mazza.
- Che storia è questa! - aveva esclamato ad un tratto.
Era meravigliato di trovar alcune carte sul suo tavolino. Presele in mano e lette le poche righe della prima pagina, il signor Van-Spengel si era fregato piú volte gli occhi, avea guardato attorno, in alto e in basso, per la stanza; poi era tornato a sfogliare lentamente tutto il quaderno, osservandone con viva attenzione e con crescente sorpresa la scrittura fina e compatta.
- Chi ha recato queste carte? - chiese bruscamente alla serva.
- Ma, signore!... -
La Trosse sorrideva: credeva che il suo padrone celiasse.
- Infine, parlate! Chi ha recato queste carte? Non me ne avete detto nulla.
- Non ne so nulla - rispondeva la serva vedendo la serietà del suo padrone. - Qui non c'è stato nessuno,
- Se è uno scherzo - borbottò il signor Van-Spengel fra i denti - bisogna confessare che è ben riuscito! -
Sedette sulla poltrona piú vicina, accennò alla serva di lasciarlo solo e si pose a leggere ad alta voce: Rapporto al signor procuratore del re sull'assassinio commesso la notte del 1 marzo nella casa N. 157 Via Roi Leopold in Brusselle.
E qui si fermò per osservare il calendario americano che pendeva dalla parete. Il calendario segnava 2 marzo. Il signor Van-Spengel aveva strappato pochi momenti prima il fogliettino del giorno avanti.
- O il diavolo se ne mescola, o io ammattisco - riprese a borbottare. - Questa scrittura è la mia! Non c'è che dire, è la mia! E picchiava col dorso della mano sul quaderno deposto sulle ginocchia.
- Eppure non l'ho fatta io, no davvero!
- Se il padrone mi permette... - disse la Trosse aprendo timidamente l'uscio.
- Permettere che? - rispose il signor Van-Spengel stizzito.
- Vorrei rammentarle che questa notte Mossiú ha scritto dall'una alle quattro, e...
- Siete matta!
- Scusi; Mossiú deve ricordarselo. Io mi son levata due volte credendo che si sentisse male; e tutte e due le volte l'ho veduto a quel tavolino, occupatissimo a scrivere. Mossiú vi ha poi dormito sopra, ed è forse per questo...
- Dev'essere cosí! - esclamò il signor Van-Spengel dopo un momento di riflessione. - È strano, ma dev'essere cosí! Sapete? In gioventú sono stato sonnambulo.
- Ah, mio Dio! - fece la serva. - Vuol dire che a notte lei andava per le stanze...
- Sí, mamma Trosse, qualcosa di simile. Parlavo, facevo ogni cosa proprio come quand'ero sveglio; né piú, né meno. A vent'anni però ebbi una gran malattia (fui sull'undici once di andarmene) e quel sonnambulismo cessò. Che voglia ricominciare? Cospetto! Sarebbe una gran seccatura! Ma sicuro - continuava dopo qualche intervallo - sicuro che ho scritto dormendo! Ne parlerò subito al dottore. Andate, serrate quell'uscio -.
Il signor Van-Spengel riprese in mano il quaderno e, svoltata la prima pagina, lesse:
«Signore,
Questa mattina (2 marzo) alle ore 11 ant...»
Si fermò nuovamente, per cavar di tasca l'orologio.
- Curiosa! Manca poco alle dieci e mezzo! Cose fatte dormendo!... Ecco intanto ciò che il signor Van-Spengel lesse tutto di un fiato. Lo trascrivo dall'Appendice apposta in fondo al volume.

«Signore,

Questa mattina (2 marzo) alle ore 11 antimeridiane, recandomi dal mio ufficio al ministero dell'interno per ricevervi le istruzioni e gli ordini di S. E. il ministro, allo sboccare della via Grisolles nella via Roi Léopold, vidi una gran folla radunata davanti la casa segnata col N. 157, accanto al palazzo del signor visconte De Moulmenant. Dubitando di un assembramento di sediziosi contro il pastaio che ha la bottega lí presso al N. 161, mi affrettai ad accorrere dopo aver chiamato le due guardie Lerouge e Poisson che trovavansi di fazione a capo della vicina via Bissot. Si trattava di ben altro. Il cocchiere, il cuoco, due cameriere della signora marchesa di Rostentein-Gourny stavano davanti il portone della casa a due piani, proprietà di detta signora marchesa, picchiando, ripicchiando da un'ora e mezzo, e non erano riusciti a farsi sentire né dal portinaio, né dalla cameriera rimasta in casa, né dalla marchesa né dalla marchesina.
Quelle persone di servizio affermavano aver ricevuto dalla marchesa il permesso di assistere alle nozze della figlia del cuoco; erano perciò rimaste fuori di casa tutta la notte.
Si cominciava a sospettare di qualche grave accidente. La costernazione era dipinta sul volto di tutti.
Il cocchiere, scalato il terrazzino di mezzo a cavaliere del portone, aveva tentato di farsi sentire, picchiando sulle persiane con tale violenza da rompere alcune stecche: ma senza frutto. Pareva che in quella casa non ci fosse mai stata anima viva.
Dimenticavo di dire che il sergente Jean-Roche con altre sei guardie mi avea precesso sul luogo, ed aveva già mandato uno dei suoi uomini dal giudice del circondario per aprire il portone colle forme richieste dalla legge. Il giudice arrivò da lí a pochi minuti, insieme al cancelliere.
Si cercò un magnano, e dovemmo stentare un pezzetto prima che le serrature interne fossero messe allo scoperto e sforzate.
Assegnate sei guardie per contenere la folla e scelti due testimoni, entrammo insieme a questi ed ai domestici, chiudendo il portone dietro a noi. I domestici dovevano servirci di guida e dar gli schiarimenti opportuni.
Fatti pochi passi, ecco sul primo pianerottolo della scala un'orribile scena. Il portinaio giaceva lí quant'era lungo, colla testa appoggiata a un gradino: nuotava nel sangue. Le sue mani erano squarciate da tagli in direzioni diverse. Aveva due ferite alle regioni del cuore, tre in fondo all'addome.
A quella vista la Luison, una della cameriere, svenne e fu presa da convulsioni violente. Nichette invece si slanciò su per le scale urlando, piangendo e chiamando a nome la sua padroncina. Gli uomini, allibiti, non pronunziavano sillaba.
La guardia Maresque fu tosto spedita per un dottore.
Eravamo appena a mezza scala, quando Nichette, affacciatasi dall'alto della ringhiera, urlava: "Assassinate! Assassinate!"
La casa pareva presa d'assalto. Oggetti di biancheria sparsi alla rinfusa per terra; cassette, cassettoni, armadi tutti scassinati e messi sossopra. I divani e le poltrone del salone di ricevimento spostati, o buttati a gambe all'aria. Presso il pianoforte, sopra una duchesse, il cadavere della marchesina di Rostentein-Gourny.
Colpita da una sola stilettata al cuore, era rimasta lí, colle mani aggrappate ai capelli, col capo rovesciato indietro sulla spalliera. Una piccola riga di sangue le macchiava la veste.
Gli usci che dal salone introducevano nella stanza da letto della marchesa erano tutti spalancati. In fondo, per terra, vedevasi una forma di persona avvoltolata fra coperte. Era il cadavere della signora marchesa. Due guardie lo distrigarono a stento. Parecchie lividure al collo indicavano ch'era stata prima strangolata, poi raggomitolata a quel modo.
La cameriera giaceva assassinata sul proprio letto nella camera accanto.
Il dottor Marol arrivato in quel punto, dopo attente osservazioni, constatò che le quattro vittime dovevano esser morte da otto ore, poco piú, poco meno. L'atroce misfatto era stato dunque consumato dalle due alle tre dopo la mezzanotte. Evidentemente i malfattori non erano andati lí collo scopo di assassinare. Ma non si penetra di soppiatto in una casa abitata da persone che, non foss'altro, possono urlare al soccorso, senza che l'assassinio sia anticipatamente calcolato.
Dalla vista dei luoghi non era difficile immaginare quello ch'era accaduto.
Il portinaio, levatosi per rendersi ragione di qualche insolito rumore, doveva essere stato aggredito all'uscire della sua cameretta. Grosso, robusto, coraggioso, liberossi dalle strette degli assalitori e tentò di chiamar gente. Egli dovette afferrar tra le sue braccia qualcuno dei malfattori e stringerlo fin a quasi soffocarlo, mentre gli altri lo finivano a coltellate. Penetrati nelle stanze superiori, alcuni eran corsi nella camera della marchesa, introducendosi probabilmente dalla parte di destra, altri nella camera della cameriera. La marchesa, sveglia, deve aver avuto appena il tempo di alzare il capo e di aprire gli occhi, ch'era già ridotta in istato da non poter gridare al soccorso.
Pare che nello stesso tempo venisse uccisa la cameriera. Giacché la marchesina ancora alzata, avvertita forse dall'insolito movimento nella stanza vicina, suonò parecchie volte il campanello, strappando perfino il cordone. Vedendo entrare qualcuno degli assassini, la marchesina era scappata via, inseguita di stanza in stanza, rovesciando tutto quel che le capitava innanzi, sedie, tavolini, poltrone. Ma nel salone, trovatasi forse fra parecchi di quei visacci, si era abbandonata sulla poltrona e vi era stata uccisa di un colpo.
Le induzioni erano queste; ci trovavamo tutti d'accordo.
Dopo lunga e minuziosa ispezione, potemmo avverare che l'argenteria, le gioie, i valori, erano stati intieramente involati con arditezza senza pari.
Da che parte e con che mezzi gli assassini eran penetrati in quella casa? Ecco una difficile ricerca.
Il portone, solidissimo, sbarrato da spranghe interne e chiuso da un magnifico ordegno inglese di struttura assai complicata, non mostrava guasti di sorta. Nelle imposte, ermeticamente chiuse, all'interno ed all'esterno, nessuna traccia di violenza. Il cancello di ferro fuso che chiudeva l'entrata del giardino aveva la sua serratura a posto. Le mura delle cantine erano intatte. Il piccolo portone in fondo alle cantine, che risponde nel vicolo Mignon, era chiuso con tanto di spranga. I tetti, le soffitte in perfettissimo stato. Insomma ci trovavamo in faccia ad uno di quei difficili problemi che l'inesauribile astuzia dei malfattori presenta, come una sfida, alla polizia.
Appoggiato al davanzale di una delle finestre che guardano nella via Roi Léopold, io riflettevo da un pezzo, quando tutto ad un tratto...»
- Hem? - fece il signor Van-Spengel, interrompendo la lettura.
E appuntava una terribile interrogazione sul viso della Trosse che si disegnava nel vano dell'uscio tenendo fra le dita un biglietto di visita.
- Ah, l'amico Goulard! - esclamò il signor Van-Spengel. - Ed io che stavo per piantarlo! Diavolo! Le dieci e tre quarti? Leggerò il resto piú tardi. Mamma Trosse - poi soggiunse con un atteggiamento mezzo comico mettendo in tasca il manoscritto; - siamo sul punto di diventar scrittori, romanzieri, come il vostro Ponson du Terrail. Che ne dite?
- Tanto meglio! - rispose la Trosse che non aveva capito.
- E i nostri romanzi li scriveremo senza fatica, ad occhi chiusi, dormendo!
- Tanto meglio! -
Il signor Van-Spengel si lasciò spazzolare da capo a piedi, aggiustò tranquillamente gli occhiali che gli si erano abbassati fino alla punta del naso, mise in testa la tuba, prese in mano la mazza e disse alla serva, che andava a far colazione dal suo amico Goulard. Il Goulard intanto aspettò fino al tocco, ma invano. Il signor Van-Spengel non si fece vivo in tutta la giornata.
Giudichi il lettore se sarebbe stato possibile indovinare, anche dalla lontana, quello che gli era accaduto.
Il signor Van-Spengel, senza nemmeno entrare nelle stanze dell'ufficio, sceso in fretta le scale e attraversato il vicolo dei Roulets era riuscito a metà della via Grisolles.
Il conte De Remcy, maggiore dei granatieri, che lo incontrò poco piú in là del Cafè de Paris e lo fermò alcuni minuti, ribadisce anche lui il racconto della serva intorno alla perfetta tranquillità d'animo del suo amico.
Il signor Van-Spengel era (e come no?) vivamente impressionato dal caso di quello scritto. Fra le poche parole scambiate col De Remcy ci furono anche queste: «Van-Spengel: "Credete voi all'assurdo?"
De Remcy: "Anzi!"
Van-Spengel: "Ebbene, questa sera vi dirò una cosa che vi farà strabiliare".
De Remcy: "Perché non ora?"
Van-Spengel: "Ho fretta"».
Il dottor Croissart riferisce altre quattro testimonianze di persone che fermarono il signor Van-Spengel lungo la via Grisolles; sono dello stesso tenore.
Dalla chiesetta Saint-Michel fino allo sbocco della via Grisolles nella via Roi Léopold il signor Van-Spengel fu accompagnato dal signor Lebournant, sarto, che tornava a raccomandargli un suo affare. Fu questi che notò per primo un istantaneo e profondo sconvolgimento sul volto del direttore in capo della polizia.
- Ah, mio Dio! Ah, mio Dio - avea esclamato il signor Van-Spengel.
Sboccando dalla via Grisolles nella via Roi Léopold, avea visto una gran calca di gente presso il palazzo del visconte De Moulmenant, precisamente innanzi al portone della marchesa De Rostentein-Gourny.
«Però - riferisce il signor Lebournant - quel turbamento gli durò poco. Io lo guardavo con sorpresa. Non era mica naturale che un uomo della sua fatta si turbasse per l'assembramento di un centinaio di persone. Sospettai che ci fosse per aria qualcosa di grave. La prima idea che mi si affacciò fu quella di andar a chiudere il mio negozio. Intravvidi le barricate.I
«"Permettete", mi disse torcendo a destra per la via Bissot.
Lo tenni d'occhio.
Ritornò poco dopo con due poliziotti e insieme ad essi s'indirizzò verso la folla.
Mi mescolai fra i curiosi. Tutti si fermavano domandando di che che si trattasse. Se ne dicevano di ogni colore». (pag. 7).
Riconosciuto il direttore in capo della polizia, la folla si aperse per lasciarlo passare.
Una scala era appoggiata al terrazzino centrale del palazzotto Rostentein-Gourny; e quando il signor Van-Spengel giungeva davanti al portone, la persona che discendeva diceva ad alta voce:
- Hanno il sonno duro -.
Il signor Van-Spengel impallidí. Il riscontro del suo scritto colla realtà era cosí evidente che anche una testa piú solida della sua ne sarebbe stata sconvolta. Bisogna dire che il suo carattere fosse proprio d'acciaio, se poté far violenza a se stesso e padroneggiare fino all'ultimo la sua crescente emozione.
Lascio la parola al dottor Croissart.

«È difficile - egli scrive - indovinar con precisione ciò che accadeva nell'animo del signor Van-Spengel alla terribile conferma data dai fatti alla sua visione di sonnambulo. Il giudice signor Lamère, appena arrivato sul luogo notò che l'aspetto del direttore era nervoso. Guardava attorno un po' stralunato; pacchiava colle labbra asciutte, impaziente. Era di un pallore mortale, quasi cenerognolo; respirava affannato. Il signore Lamère gli rivolse piú volte la parola senza spillarne altra risposta che uno o due monosillabi.
Entrarono.
Alla vista del cadavere del portinaio, il signor Van-Spengel lasciò sfuggire un "oh!" prolungatissimo, e si passò piú volte la mano sulla fronte. Nel salire le scale sudava. Cavò fuori ripetutamente il fazzoletto per asciugarsi le mani ed il viso. Nel salone di ricevimento si fermò immobile, davanti il cadavere della marchesina Rostentein-Gourny, tenendosi la testa con tutte e due le mani.
Il signor Lamère si affrettò a chiedergli se si sentisse male.
"Un pochino", rispose.
E andò verso la finestra che dava sulla via Roi Léopold.
Quando il giudice lo invitò ad assistere alla perquisizione, il signor Van-Spengel rispose secco secco: Fate.
E rimase assorto nei suoi pensieri, a capo chino, colle mani chiuse l'una nell'altra, appoggiate al mento ed alle labbra, e le spalle rivolte alla via». (pag. 130).

Il dottor Marol lo trovò in questa posizione. Ma poco dopo, quand'ebbe terminato l'esame della ferita della marchesina, vide che il signor Van-Spengel, coi gomiti sul davanzale della finestra e il mento sui pugni, guardava fisso tra la folla.
Stette cosí forse una mezz'ora. Il giudice signor Lamère, compiute le sue indagini, gli si era accostato per consultarlo sul da fare. Egli credeva che i servitori, che almeno qualcuno dei servitori avesse avuto parte in quel misfatto:
- Gli pareva prudente far arrestare senza indugio tutte le persone di servizio. I particolari del delitto mostravano quattro e quattro fa otto che lí c'era lo zampino di qualcuno di casa.
- Un momento - rispose il signor Van-Spengel dopo alcuni istanti di riflessione.
Andò lentamente a sedersi sul canapè nel lato opposto della camera, trasse dalla tasca del soprabito alcune carte piegate in lungo, saltò parecchie pagine e si mise a leggere con grande attenzione.
In quel punto l'aspetto del signor Van-Spengel aveva un'espressione stranissima.
Gli abbondanti capelli grigi che gli rivestivano la testa erano arruffati, quasi irti per terrore. Il luccichio dei cristalli degli occhiali, ogni volta che alzava il capo quasi cercasse una boccata d'aria, accresceva il sinistro splendore della pupilla e del volto. Le rughe della sua fronte parevano tormentate da un'interna corrente elettrica, e comunicavano la loro violenta mobilità a tutti i muscoli della faccia. Le labbra si allungavano, si contorcevano, si premevano l'uno sull'altro mentre i piedi sfregavano continuamente sul tappeto, poggiando con forza.
- Tutti i direttori di polizia sono cosí? - chiese il signor Lamère al dottor Marol.
- Che volete ch'io ne sappia? - rispose questi piú stupito di lui.
Passarono dieci minuti.
Il signor Van-Spengel si slanciò verso la finestra ove il signor Lamère ed il dottor Marol erano rimasti ad aspettare.
- Ebbene? - domandò il primo.
- No - rispose - arrestereste degli innocenti. Attendete. Lasciatemi fare. Maresque! Poisson! -
Le due guardie erano accorse subito.
- Con permesso, fatevi in là - disse al dottore. - Affacciatevi con me, ad uno ad uno, - seguitò rivoltandosi alle guardie; - fingete indifferenza. Attenti alle mie indicazioni. Occhio desto! E si fece alla finestra col Maresque.
Il signor Lamère sentí questo dialogo:
«Van-Spengel: "Vedi tu quel biondo accanto all'uscio del gioielliere Cadolle?"
Maresque: "Quello dall'abito bigio e dal berretto alla polacca?"
Van-Spengel: "Bravo! Fissati bene in mente la sua figura."
Maresque: "Lo riconoscerei fra mille, signor direttore"» (pag. 250).
Rientrarono.
- Ora te, Poisson! E ripeté coll'altra guardia la medesima cosa.
In quel punto il signor Van-Spengel non pareva piú l'uomo di pochi momenti fa. Era calmo e impartiva gli ordini colla serietà delle persone del suo mestiere.
- Via! - esclamò all'ultimo, sospirando. - Usciremo dal vicolo Mignon; qui c'è tanti grulli curiosi! Tu, Maresque, ti accosterai al nostro biondino senza far le viste di badargli. Son sicuro che il colore della tua divisa gli urterà subito i nervi. Prenderà il largo e tu dietro, da vicino, senza aver l'aria di pedinarlo. Poisson verrà con me. Signor dottore, signor giudice, fra un quarto d'ora uno degli assassini sarà qui. Abbiate la pazienza di attendere -.
- Che dica sul serio? - chiese il giudice al dottore.
- Ma! - rispose questi, stringendosi nelle spalle.
- Ha detto il negozio del Cadolle, non è vero?
- Sí, il gioielliere: eccolo lí! -
E tutti e due si affacciarono alla finestra tra increduli e curiosi.
Piú di tremila persone stavano accalcate in quel piccolo tratto di via, incatenate dalla curiosità di conoscere i resultati delle indagini dell'autorità giudiziaria, coi visi in alto, verso le finestre del palazzotto Rostentein-Gourny, colle immaginazioni riscaldate dai pochi e contradditori particolari che andavano attorno.
Il Maresque si era fermato piú volte, prima di accostarsi verso il negozio del Cadolle.
Il biondo indicato dal signor Van-Spengel, rimasto tranquillo per qualche minuto, faceva due passi, poi tre, poi dieci verso la piazzetta Egmont, e spariva senza voltarsi indietro. Il Maresque spariva dietro a lui. Il signor direttore e l'altra guardia li seguivano a dieci passi di distanza. Piú in qua della piazzetta Egmont Poisson si staccava dal direttore. Dopo questo, il giudice e il dottore non videro piú nulla. La loro sorpresa era immensa.
Il biondo, secondo l'espressione del signor Van-Spengel, si era sentito urtare i nervi dalla divisa del Maresque ed aveva preso il largo con una indifferenza da ingannare il piú astuto.
Sui trent'anni, con lunghi e folti baffi rivolti in giú, occhio ceruleo, limpido ma irrequieto, il biondo era uno di quegli esseri sociali che non si sa mai con certezza a quale classe appartengano.
Indossava, colla eleganza che vien dall'abitudine a una vita molle e disoccupata, un vestito di fantasia, un'accozzaglia di fogge diverse, dal berretto polacco alla scarpa parigina, dalla giacchetta ungherese al pantalone inglese e alla cravatta americana; ma quest'accozzaglia non stonava armonizzata dal suo bizzarro portamento. Nessuno, a vederlo, avrebbe sospettato in quel giovane il menomo indizio di un assassino. Lo si sarebbe preso facilmente per un artista un poco matto.
Dal signor Van-Spengel si erano avute parecchie prove veramente sorprendenti di quella lucida, elettrica intuizione - un vero colpo di genio - che distingue l'uomo dell'alta polizia dal commissario volgare. Si tratta di sorprendere intime relazioni fra avvenimenti che paiono disparatissimi; d'intendere il rovescio d'una frase, d'un motto o d'un gesto che cercherebbe di sviarvi; di dar grave importanza a certe cose apparentemente da nulla; di afferrare a volo un accidente da mettervi in mano il bandolo che già disperavate di trovare: lotta di astuzie, di finezze, di calcoli, di sorprese che colla soddisfazione del buon successo compensa l'uomo dell'alta polizia del suo ingrato lavoro.
Ma qui la cosa andava diversamente. Il signor Van-Spengel, letta la seconda parte del suo lavoro di sonnambulo, vi aveva trovato, negli interrogatori anticipatamente scritti, i piú minuti particolari di quello che poi doveva accadere e si era messo, dirò cosí, ad eseguire punto per punto il programma della giornata, visto che la prima parte aveva corrisposto cosí bene.
Svoltando a destra della piazzetta Egmont, il biondo s'era avveduto della guardia, colla coda dell'occhio, e avea capito che lo pedinava. Allungato il passo, vicino al chiassetto dei Trois Fous, aveva tentato un colpo ardito. S'era fermato davanti un portone e v'era entrato di un lampo. La casa aveva un'altra uscita nella via della Reine. Se poteva essere perduto di vista un venti secondi, il colpo gli riusciva.
Profittando di alcuni carri che ingombravano la via della Reine verso il Restaurant des Artistes, girò con lestezza attorno ad essi, ritornò sui propri passi mentre il Maresque lo cercava coll'occhio tra la folla, e infilò un vicolo stretto, torto, sudicio, una di quelle tante anomalie che si trovano spesso nel cuore delle grandi città.
Aveva fatto i conti senza l'oste.
Il signor Van-Spengel lo aveva scoperto da lontano.
Il biondo passò un usciolino sepolto fra le panche di erbaggi di una bottega di ortolano e i cenci di un rivendugliolo ebreo, spenzolanti in mostra dalla tabella.
Il signor Van-Spengel, seguito dal Poisson e dal Maresque, diè un'occhiata allo stabile; poi, senza dir motto, cominciò a salire la scala che principiava quasi alla soglia.
Trovarono un andito largo, una specie di corridoio senza volta, col pavimento sdrucito e i vecchi mattoni che vi formavano degli isolotti: un locale freddo, grigio, di aspetto sinistro. Sei usci segnati con grossi numeri rossi indicavano sei stanze: ma il perfetto silenzio che vi regnava faceva supporre che i locali fossero allora disabitati.
Il signor Van-Spengel si accostò all'uscio numero 5, e picchiò colle nocche delle dita tre colpetti risoluti.
- Chi è? - avea risposto una bella voce di uomo.
- La legge! -
Apparve sull'uscio un uomo in veste da camera. Pareva di essere sulla quarantina. Aveva il volto tutto raso, i capelli neri e molto lunghi, gli occhiali inforcati sul naso e un libro in mano.
- Disturbo? - disse il signor Van-Spengel con impercettibile ironia, mostrando la sua fascia tricolore.
- Niente affatto - rispose l'altro inchinandosi. - La legge è il miglior ospite di questo mondo. Ai suoi ordini, signore -.
Le guardie scambiarono due occhiate interrogative, scrollando le spalle.
- Caro dottor Bassottin - disse il signor Van-Spengel, appuntando in viso a quell'uomo i suoi sguardi di fuoco. - Caro dottor Bassottin, o meglio signor Colichart, o, se piú vi aggrada, signor Anatolio Pardin, scegliete!... (l'altro al sentir pronunziare quei tre nomi avea fatto tre movimenti mal frenati di sorpresa). È provato che la notte scorsa voi, insieme ai vostri compagni Broche, Vilain, Chasseloup, Callotte e Poulain, col mezzo di due ordegni inglesi da voi fatti costruire l'ottobre passato dal Blak di Londra, penetraste alle due e un quarto dopo la mezzanotte, nella casa della signora marchesa De Rostentein-Gourny, via Roi Léopold, numero 157...
L'uomo a cui erano rivolte queste parole lo guardava imperterrito, facendo segni negativi col capo.
- Voi ne usciste l'ultimo - continuò il signor Van-Spengel - richiudendo il portone collo stesso ordegno servito ad aprire. Appena uscito vi metteste a cantare e a schiamazzare insieme agli altri. Poi vi sparpagliaste per diverse direzioni e vi riuniste dopo mezz'ora in questo locale a dividervi il bottino.
- Ma, signore - interruppe l'altro con un tono calmo ed insinuante, sorridendo; - qui dev'esserci uno sbaglio. Io sono il dottor Bassottin in carne e in ossa, medico chirurgo di Bruges. Voi mi trovate fra i miei libri di scienza e i miei strumenti. Non ero preparato a questa visita. Signore... oh! Dev'esser corso proprio uno sbaglio...
- Signore Anatolio! - replicò il direttore di polizia accostandoglisi all'orecchio. - Io so qualche cosa che i vostri complici non sanno: so dove avete nascosto quel diadema di brillanti che la vostra abilità di giocoliere fece sparire senza che quelli se ne accorgessero!
- Ah! Voi siete il diavolo!... -
E Anatolio si appoggiava al muro, tremante come una foglia.
- Cavategli quella veste da camera - disse il signor Van-Spengel.
Il Pardin lasciò fare.
- Strappategli quella parrucca -.
Il Pardin non oppose la menoma resistenza.
Com'erano ricomparsi i vestiti, ricomparvero allora anche i capelli biondi del giovane pedinato. Le due guardie stralunarono dalla sorpresa.
- Se vuol rimettersi i baffi! - disse il signor Van-Spengel seriamente.
E il Pardin, che pareva sotto l'oppressione di un potentissimo fascino, cavava macchinalmente di tasca i suoi baffi finti e se li adattava come gli avea prima.
- Ed ora mettetegli le manette -.
Il Pardin esitò un momentino a porgere le mani, ma non impedí che il Maresque gliele tenesse unite mentre il Poisson gli stringeva ai pollici il suo piccolo strumento di acciaio.
Il signor Van-Spengel picchiò in vari punti del pavimento, indi smosse un mattone colla punta della sua mazza. Apparve una buca. Poisson ne estrasse parecchie scatole e due involti che depose sul tavolino. Il signor Van-Spengel aprí ad una ad una le scatole, osservò gli oggetti d'oro, le pietre preziose, e le richiuse con cautela.
Mentre il signor Van-Spengel eseguiva questa operazioni, il giudice Lamère e il dottor Marol avevano fatte altre e piú minute osservazioni sulle diverse ferite delle vittime, perdendosi in un ginepraio di supposizioni intorno al modo con cui gli avvenimenti eran dovuti accadere.
Un piccolo episodio li avea commossi. Erano nella camera della marchesina.
- Perché non l'avevano trovata uccisa lí, ma nel salone di ricevimento? La marchesina era ancor sveglia verso le due e mezzo dopo la mezzanotte. Che cosa faceva? Il dottor Marol si accorse pel primo d'una lettera restata a mezzo, sul tavolino, ma non osò buttarvi gli occhi. La sua squisitezza di animo gli impediva di violare il segreto dei morti, il segreto di una signorina.
Il giudice Lamère invece trattò quella lettera come un documento del suo futuro processo e la lesse.
Eccola: fu pubblicata dai giornali belgi quell'anno. «Mia cara,
Sono felice! Bisogna che ti dica subito queste due parole: le capirai meglio quando avrai letto fino all'ultima riga. Sono felice! Se ancora me le tenessi nel cuore, potrebbero farmelo scoppiare. Oh! sarò sempre in tempo a morire. Oggi sono felice! Troppo felice!
Figurati! Mi son messa a scrivere alle undici e mezzo di sera. È già l'una dopo la mezzanotte ed ho appena incominciato. Ma in queste due ore e mezzo non ho fatto altro che parlare con te, ad alta voce, come se ti avessi avuta presente. Ah, mia cara!...
La penna non corrisponde alla foga del mio pensiero, al tumulto de' miei affetti. Perché le persone che si amano non s'intendono da lontano senza né scriversi né parlarsi? Ecco: io duro fatica a proseguire, ed ho cento cose da dirti. Via, siamo serie!...
Egli mi ama!
Me l'ha detto questa mattina, in salotto, dove ci trovammo soli per due brevi minuti. Io tremavo come una bimba nel sentirlo parlare. Egli tremava piú di me. Non intesi bene le prime parole; ma le compresi egualmente e gli risposi... cosí strampalata! Oh, fu di una delicatezza senza pari! Pareva chiedesse scusa di farmi felice.
Scesi subito in giardino. Non potevo contenermi. Un fremito di piacere mi agitava da capo a piedi e mi rendeva leggiera come una piuma.
Lí tutto sorrideva; tutto era pieno di profumi. I fiori mi salutavano scotendo il capino sullo stelo con grazia indicibile; le acque delle vasche mormoravano mille cosette maliziose che mi facevano provare certi brividi!... Una gioia fino allora ignorata!
Correvo pei viali; mi fermavo; odoravo i fiori, gli accarezzavano; agitavo colle mani convulse le acque della vasca...
Pare impossibile che una parola ci possa rendere cosí! Volevo esser seria e non riuscivo. Mi sembrava che io profanassi il divino sentimento dell'amore manifestando la mia allegrezza in quel modo cosí fanciullesco; ne avevo dispetto... Ma tornavo a far peggio. Correvo di nuovo, saltavo... Poveri fiori! Quelle mie carezze li maltrattavano, ne guastavano le foglioline e le corolle, li sfogliavano anche; ma!... I felici sono crudeli, cara mia!
Egli m'ama! C'era proprio bisogno che me lo dicesse? No, no!... Ma pure non vivevo tranquilla; dubitavo sempre, mi torturavo da mattina a sera; mentre ora!...»

Il signor Lamère ed il dottor Marol avevano le lacrime agli occhi. Il cuore da cui erano sgorgate quelle righe piene di tanto affetto non batteva piú!
Il Lamère ed il dottor Marol si guardarono in viso stupiti vedendo entrare il signor Van-Spengel seguito dal giovane arrestato fra le due guardie. Il Van-Spengel pareva in preda a un fierissimo accesso nervoso. Metteva paura.
- Cancelliere - disse il signor Lamère - stendiamo dunque il verbale.
- Se ne risparmi la fatica - balbettò il signor Van-Spengel, avanzandosi barcollante, con un sorriso da ebete. - Il verbale eccolo qui!... E presentava il suo manoscritto, dando in uno scroscio di risa convulse.
Era ammattito!

Il libro del dottor Croissart, interessantissimo per tutti i versi (egli è direttore del manicomio di Brusselle) termina con profonde considerazioni su questo strano fenomeno di psicologia patologica, degne di esser lette e meditate. Egli conchiude:
«Quando vediamo il nostro organismo mostrar tanta potenza in casi tanto eccezionali ed evidentemente morbosi, chi ardirà d'asserire che le presenti facoltà siano il limite estremo imposto ad esso dalla natura?»

Catania, 25 marzo 1873.



VI

IL DOTTOR CYMBALUS



Da due anni Hermann Strauss lavorava assiduamente a un Nuovo sistema della Natura; ma quel giorno la sua meditazione era stata troppo intensa. Perduto nella immensità d'un problema d'altissima metafisica, aveva finito coll'addormentarsi; e russava da piú d'un'ora quando fu bruscamente svegliato da un insistente picchiare all'uscio.
- Avanti! - borbottò, sbadigliando e stirandosi sulla poltrona.
Comparve una gran cuffia dov'era affogata una grinzosa testa di vecchia.
- Ci è un giovane che desidera parlarle - biascicò la cuffia.
- Passi - rispose Hermann. - Chi diavolo può essere? - E aveva appena terminato di pensar questa domanda, che un bel giovane, alto di statura, biondo, pallido e in abito da viaggio, si presentava sulla soglia.
- William Usinger! -
I due amici si abbracciarono affettuosamente.
- Era arrivato quel giorno?
- Sí; e ripartiva domani. Aveva bisogno di lui.
- Son qua. Ma siedi; fumiamo una pipa.
- Grazie -.
L'Usinger posò sul tavolino un grosso piego sigillato.
- Vo in America - egli disse; - lontanetto, è vero?
- Ci metterai un po' di piú ad arrivare. Infine si va in capo al mondo e si ritorna.
- Si poteva anche non tornare...
- Certamente, quando si trovava da star bene... Ah! È il tuo viaggio di nozze! - esclamò Hermann picchiandosi colla mano sulla fronte e spalancando gli occhi cerulei sotto le sue lenti da miope.
Il silenzio di William lo sorprese.
- Hai già sposato?
- No. Ma parliamo di cose serie. Sono qui per un affare di grave interesse.
- Non sei sposo?
- No - replicò William seccamente.
- O dunque?
- Parto per l'America.
- Ma che cosa è accaduto?
- Una cosa semplicissima: Ida sposa un altro.
- Tu l'abbandoni? Tu che mi scrivevi di amarla tanto?
- È lei che preferisce di sposare un francese.
- Francese per giunta! - esclamò Hermann dando un fortissimo pugno sul tavolino.
- Oh, per me val lo stesso, quando l'amato non son piú io!
- Povero William! Tu vuoi dimenticare, tu vuoi...
- T'inganni. Due donne non mi usciranno mai dal cuore: mia madre e lei!
- A proposito, e tua madre?
- Non ha voluto ricevermi.
- Nemmeno per farsi vedere, per farsi adorare in silenzio? -
William scosse il capo tristamente.
- Tua madre dev'essere un'altra!
- È lei! Ne ho in mano le piú irrefragabili prove.
- Povero William!
- Mi sento vecchio, decrepito a venticinque anni. Senza famiglia, senz'affetti, senza speranze, senz'illusioni, che ci faccio fra voi?
- Hai ragione. Vai in America: abbandona questa vecchia Europa che casca a pezzi da ogni parte. Vai in America. Buon viaggio! Lí potrai presto rifarti il cuore. Buon viaggio!... Ma è triste doversi dire addio forse per sempre!
- Ed ecco il motivo della mia visita - disse William molto commosso. - Questo plico sigillato contiene alcune carte importanti e le mie ultime volontà.
- Le tue ultime volontà?
- Riguardo a quel che lascio in Europa - soggiunse l'Usinger sorridendo. - Per l'esecuzione del mio testamento non bisogna aspettare la mia morte. Appena imbarcato, intendo non esser piú vivo per nessuno di qui, cioè fra tre o quattro giorni. Non ammattirai; te lo avverto perché tu non stia in pensiero. Ho venduto tutto. Questo plico contiene, in biglietti, in obbligazioni, in cambiali, quas'intiera la somma che ne ho ricavata.
- E pel tuo viaggio? Pel tuo avvenire?
- Non dubitare, ci ho pensato. Accetti?
- Ma di cuore! -
Hermann aveva le lagrime agli occhi. William, pallidissimo, faceva grandi sforzi per contenersi.
- Hermann - disse l'Usinger dopo alcuni momenti di silenzio; - promettimi di non aprire questo plico prima di quando ti ho detto!
- Anche piú tardi, mio caro, se cosí ti fa piacere. Io già l'ho con me che non tento di distoglierti dalla tua trista risoluzione. Trattienti almeno un paio di giorni!
- Non posso, ho molte faccende da sbrigare. Volevo anzi, per far piú presto, spedirti il plico colla posta; ma poi mutai pensiero. Ho voluto abbracciarti prima di lasciare l'Europa.
- Grazie, caro William! Mi hai fatto proprio piacere. Dove sei tu alloggiato?
- Alla Blauen Stern.
- Verrò a trovarti. Staremo insieme fino a stasera -.
Quando Hermann Strauss rimase solo, accese la sua grande pipa, si calcò sulla fronte il berretto di pelle di volpe, incrociò le braccia e stette assorto, lungamente, cogli occhi fissi sul busto di Hegel collocato lí in faccia.
A un tratto si riscosse, si precipitò sul plico, ne ruppe i sigilli, prese il solo foglio scritto ch'esso conteneva, e, prima di averne letto mezza pagina, cacciò un urlo.
- Che io arrivi a tempo! Che io arrivi a tempo! - balbettava scappando fuori di casa.

La Blauen Stern era situata al punto opposto della città.
Hermann attraversò una viuzza, svoltò una cantonata, sboccò in una piazzetta, infilò due altre straducole contorte ed oscure, uscí nella via principale, e poi tirò diritto, correndo affannosamente, senza curarsi che la gente si fermasse a guardarlo. Giungendo al portone dell'albergo non avea piú fiato.
- William Usinger? - domandò al portinaio mezzo appisolato nel suo stambugino.
Il portinaio si scosse, si strofinò gli occhi e, guardatolo in viso, chiamò:
- Resi!
Comparve una donna sui trent'anni, una vera paesana, grassa, bionda, untuosa. Il portinaio accennò ad Hermann che parlasse con lei.
- William Usinger è in casa? - replicò Hermann che sembrava sui carboni accesi.
- Glielo dirò subito -.
E sparí dietro l'uscio da cui era sbucata.
Quei minuti di aspettazione parvero un secolo ad Hermann. Finalmente la Resi venne a dire che l'Usinger era andato fuori di buona ora e non era piú tornato.
- Le sue valigie son ancora qui? - domandò Hermann agitatissimo.
- Non ha valigie.
- Dovrà pagare il suo conto...
- L'ha saldato.
- Dove poteva trovarlo? Come raggiungerlo a tempo? Hermann pestava coi piedi, si strizzava le mani, bestemmiava, guardando indeciso di qua e di là; quando eccoti l'Usinger.
- Ah! - urlò Hermann, correndogli addosso come se quello avesse tentato di scappare.
- Hai aperto la busta! - disse William, con piglio severo.
- Sí!
Hermann per precauzione lo teneva sempre pel vestito. Montarono le scale, silenziosi. Entrati in camera, William buttò in un canto il suo berretto da viaggio e si lasciò cadere sopra una poltrona. Hermann rimase in piedi innanzi a lui.
- Aveva perduto il cervello?
Lo rimproverava affettuosamente.
- Poteva darsi. Ma cosí che credeva di fare?
- Il suo dovere d'amico.
- Un dovere inutile.
- William!
- Voleva persuaderlo di amare la vita dopo tutto quello che lui sapeva? C'era forse il mezzo di strapparsi il cuore dal petto e non morire? Aveva lui il modo di renderlo freddo e insensibile come il marmo?
- Sí! sí! - esclamò Hermann.
A quelle ultime parole dell'Usinger gli era balenata nella mente una luce improvvisa; perciò lo abbracciava con effusione. William stava a guardarlo stupito.
- Il cervello del suo amico aveva dato la volta? -
Ma Hermann sorrideva, si fregava le mani dalla gioia:
- Gli bastava l'animo di sostenere una dolorosa operazione chirurgica?
William fece una mossa di offesa.
- Lo prendeva per un bimbo?
- Si sentiva l'animo di sostenere una dolorosa operazione chirurgica? - Glielo domandava seriamente.
- Perché?
- Per diventare freddo e insensibile come il marmo. Gli bastava l'animo? - Rispondesse.
- Oh, sí! - disse William. - Ma questo è impossibile.
- Meno di quel che supponi. Tu conosci certamente, almeno di fama, il dottore Franz Cymbalus, uno dei piú grandi, anzi forse il piú grande dei fisiologi viventi. Le sue scoperte sul sistema nervoso sono le conquiste piú straordinarie della scienza moderna. È stato mio maestro e mi vuol bene. Anderemo a trovarlo. Il dottor Cymbalus ti salverà.
- È dunque un Dio cotest'uomo?
- Uno scienziato; val quasi lo stesso.
- Non credere che io m'illuda - disse l'Usinger. - Se acconsento a venir da lui, è solamente per contentarti. Abita lontano?
- In una sua villetta, a poche miglia dalla città.
- Su, andiamo! -
E l'Usinger rispose con un'incredula scrollata di spalle al gran respiro di soddisfazione cacciato fuori da Hermann.

Il dottor Cymbalus era seduto sopra una panca di legno con due bimbi sulle ginocchia. Sorrideva, li accarezzava e rispondeva bonariamente alle vivaci domande di quelle due bionde testoline.
- Domine, bona dies - disse Hermann dietro il cancello, togliendosi di capo il berretto.
Il dottore lo riconobbe, mise a terra i due bimbi che si perdettero pei viali, e andò ad aprire facendo colla mano un affettuoso saluto.
- Amico mio! - disse, introducendo i due arrivati. - Sono lietissimo di rivedervi. Signore, vorrei poter soggiungere altrettanto di voi; ma, se la memoria non m'inganna, non credo d'avervi veduto un'altra volta. Per questo non siete meno il ben venuto in casa mia.
- William Usinger - disse Hermann.
William fece un profondo inchino. Il dottor Cymbalus gli stese la mano.
- Maestro, il mio amico ha bisogno della sua scienza - disse Hermann sorridendo all'Usinger.
- È ammalato?
- Piú che ammalato: è deciso di ammazzarsi.
- Cosí giovane?
- Sí, maestro, cosí giovane!
- Non viene certamente da me perché gliene fornisca il mezzo - disse il dottore. - Ma entriamo in casa. Ragioneremo con piú comodo -.
Il dottore condusse i due ospiti nel suo gabinetto di studio, un caos di libri, di carte, di mappe, di strumenti, di boccette, di vasi, di cranii, di preparati anatomici, di scheletri umani. L'Usinger, entrando, sentí dei brividi per la schiena.
Il dottore sedette sulla poltrona dietro il suo tavolino. I due amici gli sedettero di faccia.
Quella figura di vecchio scienzato era dolce e serena. La sua fronte spaziosa e solcata da rughe profonde, il suo occhio vivo e scintillante malgrado le veglie sostenute per mezzo secolo in pro della scienza e dell'umanità, il suo labbro quasi sempre sorridente, la posatezza delle sue maniere, la bontà della sua parola, tutto rivelava in lui una natura elevata; di quelle che dal sapersi piú grandi delle altre attingono la virtú dell'umiltà che le fa venerande.
- Voi dunque volete morire? - disse il dottor Cymbalus con un accento di paterna ironia.
- Sí, o signore - rispose l'Usinger freddamente. Mentre Hermann raccontava, a grandi tratti, la dolorosa storia di William, il dottor Cymbalus teneva bassa la testa e gli occhi socchiusi; le sue labbra erano atteggiate a commiserazione profonda.
- Io non posso approvare la vostra risoluzione - egli disse all'Usinger quando Hermann ebbe finito. - I miei studi m'ispirano un immenso orrore per l'opera di rovina che voi meditate; forse, perché mi trovo, piú d'ogni altro, nel caso di misurarne la gravità. La mia vecchiezza e i miei studi mi autorizzano a tenervi questo linguaggio. Le vostre sventure sono grandi; però voi dimenticate che la natura non toglie nulla senza dar dei compensi. Nel mondo vi sono molti esseri che paiono condannati alla perpetua servitú di altri esseri superiori; nascono, vivono, muoiono senz'un loro apparente profitto. Fra gli uomini, nella vita civile e in quella dell'intelligenza, succede lo stesso. Il genio potrebbe dirsi una tremenda schiavitú; la scienza, un'orribile catena. Tutta la gloria e tutte le ricchezze di questo mondo non valgono a compensare la piú piccola parte dei dolori che l'artista e lo scienziato provano nella creazione delle loro opere e nella ricerca della verità, che è una creazione anch'essa. Voi dite di voler morire perché vi è mancata la consolazione degli affetti domestici; ma chi vi dice che la natura non v'abbia destinato ad esercitare le forze del vostro cuore e del vostro intelletto in una sfera assai piú larga di quella della famiglia? La società si compone di tanti cerchi concentrici. La famiglia occupa il posto di mezzo; l'umanità l'ultimo, almeno nel mondo che noi abitiamo. Piú in là della famiglia vi è la città; piú in là di questa, la nazione; piú in là ancora, le nazioni; un campo immenso, fecondissimo, ove quella piena d'affetto che vi tumultua nel cuore potrebbe trovare mille sfoghi. Quante vie non sono aperte alla vostra attività nell'istruzione, nella politica, nella milizia, nel commercio, nelle arti, nelle industrie, nelle scienze, perfino nelle occupazioni piú spregevoli?
Per una sublime fatalità, ogni minima influenza del minimo atomo contribuisce, coi suoi mezzi, al grande edificio del progresso. La materia si trasforma e trasforma, alla sua volta, quello che noi chiamiamo spirito, pensiero. Vi siete mai reso conto della benefica legge del lavoro, la piú perfetta esplicazione dell'amore? No, certamente. Per vostra mala sorte vi siete invece concentrato in voi stesso; avete aumentato con crudele compiacenza la forza del male; avete già iniziato, isolandovi, quell'inconsiderata opera di distruzione che ora intendete di compire. Forse non avete mai provato la consolazione di beneficare i vostri simili...
- Sí - lo interruppe l'Usinger. - Ma sopratutto (può darsi ch'io sia un grande egoista) ho sempre pensato a me stesso. Io ammiro la grandezza delle cose da lei dette, e mi addoloro di trovarle indifferenti per me, cioè, troppo elevate pel mio cuore, per la mia indole, fors'anche per la mia stessa volontà. Ma se la sua scienza, o signore, non ha altri mezzi per giovarmi, mi affretto a chiederle scusa di questi momenti di noia. Li deve al mio buon amico Strauss; ma li perdoni a tutti e due.
- Maestro! - disse Hermann, stendendo le mani verso il dottore in atto di preghiera. - Maestro, bisogna salvare ad ogni costo quest'infermo di mente. L'ho qui condotto colla fiducia che lei lo avrebbe salvato.
- Ma in che maniera, caro Strauss? - domandò il dottore.
- Mi son ricordato a un tratto di quella sua straordinaria scoperta, della quale lei diceva di sentirsi atterrito; di quella scoperta che lei vuole portar con sé nella tomba, per non mettere nelle mani della fanciulla umanità un'arma cosí terribile e di cosí facile abuso. Ebbene, Maestro, quella scoperta può strappare alla distruzione una vita vigorosa, un'intelligenza potente. Non vorrà lei stender la mano per salvare metà d'una creatura già decisa di perdersi intiera? -
Il dottor Cymbalus guardava William fissamente. Questi aspettava con calma la risoluzione dello scienziato.
- E s'io vi rispondessi che non posso far nulla?
- Mi ammazzerei.
- Ma voi ignorate senza dubbio quello che Hermann mi chiede!
- No, signore. So che si tratta d'un'operazione colla quale rimarrei freddo e insensibile come un uomo senza cuore.
- È un'operazione che qualunque vecchio barbiere sarebbe capace di fare. Ma io provo ribrezzo a stender la mano sopra una creatura perfetta per guastarla senza riparo! Non vo' commettere un sacrilegio. Un ago, una lancetta basterebbero per turbare la meravigliosa armonia del vostro organismo. Qualcosa di voi perirebbe, come per incanto. Diverreste un uomo nuovo, una creatura senz'affetti...
- Non desidero altro - interruppe l'Usinger. - Le mie sventure provengono dal cuore. S'io fossi insensibile, se...
- Ah, ma un giorno voi potreste amaramente rimpiangere quello di cui ora volete disfarvi!
- No, non è possibile; soffro troppo.
- Badate! La scienza sarà impotente a darvi il minimo aiuto. È la sua inferiorità di faccia alla natura, è la sua miseria attuale. Per dispetto, come l'ebreo della leggenda, voi potreste buttar nell'oceano la preziosissima gemma del vostro sentimento. Ma nessuno, badate! Ripeto, nessuno potrebbe piú ripescarvela. Persistete ancora nella vostra risoluzione?
- Piú che mai, mio signore! -
Il dottor Cymbalus appoggiò i gomiti sul tavolino, mise la testa fra le mani e stette a riflettere per due minuti. Hermann guardava il suo maestro trattenendo il respiro. William aspettava, tranquillo, facendo girare tra le dita gli orli del suo berretto da viaggio.
- Avrei amato - disse il dottore - che piú della mia scienza vi giovassero i miei consigli. La vita è una bella cosa; credetelo a un vecchio che non può star molto a lasciarla. Dite di no? Dio faccia che un giorno non mi abbiate a dar ragione! -
Il dottor Cymbalus scrisse una prescrizione sur un foglietto di carta e la porse ad Hermann:
- Dopo sei giorni di questa cura, tornate qui. Tenteremo -.
Hermann si precipitò sulla mano del maestro e la coperse di baci.
William si sentiva stranamente commosso.

Una settimana dopo, Hermann e William picchiavano al cancello della villetta.
In un angolo della camera larga ed ariosa era preparato il letto pel paziente. Sopra il tavolino rotondo posto nel centro, vedevansi due boccette con liquidi rossi e nerastri, fasce ripiegate, filacce e una piccola borsa chirurgica.
William guardò questi apparati con occhio indifferente. Il dottor Cymbalus gli ordinò di mettersi a letto, poi gli somministrò il cloroformio.
Mentre Hermann, aiutato dal servo del dottore, rivoltava bocconi il suo povero William reso insensibile, il dottore cavava fuori dalla borsina due aghi e una lancetta, preparava due fasce e stendeva sopra cuscinetti di filacce un po' di quei liquidi rossi e nerastri delle boccette, che subito si rapprendevano.
Era sopra pensiero.
- Lasciatemi solo - egli disse; - e non entrate prima che io suoni -.
Trascorsero dieci minuti; durante i quali Hermann, che origliava dietro l'uscio, non sentí altro nella camera che il passo affrettato del dottore dal letto al tavolino e dal tavolino al letto. Benché non dubitasse menomamente della riuscita, era agitatissimo, tremava, non vedeva l'ora che l'uscio della stanza di William fosse stato aperto.
Il dottore suonò.
- Tenetevi pronti - disse, vedendo entrare Hermann e il servitore. - Appena si sveglierà, le sue convulsioni saranno tremende -.
Un lento mugolio annunziava da lí a poco il ritorno ai sensi dell'Usinger.
Le filacce, trattenute da due fasce nel mezzo della spina dorsale e all'occipite, indicavano il posto dove l'operazione aveva avuto luogo. Non vi si scorgeva traccia di sangue.
William stirava le braccia con moto convulsivo, poi le lasciava cadere come sfinite. Tentò svoltarsi, ma non riuscí. Lo lasciarono fare. Il dottore aveva raccomandato intervenissero soltanto nel caso che quello cercasse di strapparsi le fasce.
Il mugolio diventava a poco a poco un urlo prolungato. William mordeva i cuscini, tormentava con le mani le lenzuola e le materasse, si agitava con tutta la persona, e urlava:
- Ahi! ahi! La morte! La morte! Ahi! Ahi! -
Quando videro che tentava di strapparsi la fasce, Hermann e il servo lo afferrarono ai polsi. Era livido, colla fisonomia contratta, cogli occhi terribilmente spalancati.
- Ahi! ahi! - continuava ad urlare. - La morte! La morte!
- Vi è da temere, maestro? - domandò Hermann ansioso.
- Tutto va bene - rispondeva il dottore colla soddisfazione dello scienziato che ha ottenuto una vittoria. William restò per alcuni minuti come un corpo inerte. Il dottor Cymbalus gli tastava il polso.
- Le convulsioni ricominciano; saranno le ultime, ma piú violente -.
L'accesso riprese appena il dottore aveva terminato di parlare, ma non durò molto. William ricadde spossato.
- Lasciamolo riposare - disse il dottor Cymbalus -. Già si sviluppa la febbre. È la natura che si solleva contro la violazione delle sue leggi! - William dormí tranquillamente quattr'ore di fila. Quando svegliossi, i suoi occhi smarriti si fissavano sulle persone e sugli oggetti intentamente, come per riconoscerli bene; poi passavan via, senza lasciar capire se gli avesse o no riconosciuti. Le sue mani brancicavano nel vuoto, sfregavano le coperte; poi si tastava il viso, il petto, lo stomaco, e tornava a brancicare qualcosa invisibile. La sua voce era un lamentio basso, interrotto, una specie di singhiozzo. Durò cosí due giorni. Al terzo riconobbe Hermann e gli strinse la mano: sorrise al dottore.
- Soffro molto - diceva; - soffro molto qui -. E gl'indicava il petto.
- Non è nulla - rispondeva il dottor Cymbalus. - Passerà -.
Quando questi gli tolse le fasce, Hermann vide sulla spina dorsale e sull'occipite di William due piccolissime cicatrici, due graffiaturine nere; niente altro.
William si sentiva uscire a poco a poco da un profondo sbalordimento. Le idee gli erravano per la mente, gli sfuggivano, gli tornavano innanzi come nuvoloni sballottati da un temporale; poi cominciavano ad ordinarsi simili a una folla di persone entrate confusamente in una sala che riescono infine a trovar tutte il lor posto. Capiva che doveva essere accaduto qualcosa di straordinario dentro di lui; provava un vuoto immenso e un benessere ineffabile, ma non si ricordava bene: credeva d'aver sognato.
- Hermann, il dottor Cymbalus, il letto, la stanza, l'operazione subita non erano fantasmi creati dalla sua fantasia delirante? Si era forse ucciso, e quello stato di calma era la sua nuova esistenza in un mondo migliore?
Finalmente ebbe la certezza della realtà.
- Consummatum est! - gli disse il dottor Cymbalus scotendo la testa tristamente.
- Ella è il genio del bene! - rispose William.
- Dite piuttosto il genio del male, capace di distruggere e non di edificare!
- Ah, dottore, come son lieto di non aver ascoltato i suoi consigli! Io gusto una pace, una felicità che non credevo possibili sulla terra! -

Infatti era una felicità vera. All'eccessivo tumulto dei suoi affetti succedeva un silenzio completo. I suoni gli aliavano intorno alle orecchie, sussurrandovi le loro note senza decidersi ad entrarvi. I colori venivano a posarglisi sulla retina colla delicata precauzione di chi non vorrebbe farsi scorgere.
Quella parola misteriosa della malinconia dei tramonti, del mormorio delle acque, del profumo dei fiori, delle linee della campagna, della serenità dei laghi, dell'altero slanciarsi dei monti al cielo, del mesto sprofondarsi delle vallate; quella parola misteriosa che tutti cerchiamo, che tutti ci sforziamo a riprodurre poeti, romanzieri, pittori, scultori, maestri di musica, quella viva ed eterna parola dell'universa natura, lui non la sentiva piú o non la intendeva. Viveva come circondato da un'immensa solitudine, fra le vaste ruine d'un mondo una volta animato. E si sentiva felice, e s'inorgogliva di se stesso.
- Come era superiore a quanto gli stava attorno! Nulla giungeva piú a fare nessun'impressione su lui!
- Ricordava sua madre, ricordava Ida Blumer, le sole creature ch'egli avesse immensamente amate e per le quali il suo cuore aveva tanto sofferto; ma non provava piú né commozione, né rimpianto: - Era vendicato di esse! -
Gioiva del suo trionfo.
Durante questo tempo, avvenimenti inaspettati mettevano sossopra il palazzo della contessa K***.
La sventura avea spetrato quel cuore di madre, e il pentimento e il rimorso la conducevano alla casa del figliuolo cosí spietatamente abbandonato e, una volta, fatto scacciare dai suoi servitori.
William abitava insieme ad Hermann.
Quella stessa vecchia che un giorno lo introdusse nella stanza di studio del suo amico gli annunciò la visita d'una gran dama.
- Passi - rispose smettendo di lavorare.
Una signora vestita a lutto, con un fitto velo sugli occhi si presentava sulla soglia. Esitava ad inoltrarsi.
William le era andato incontro. Allora quella signora avea sollevato il suo velo ed era rimasta a testa bassa innanzi a lui.
- Mia madre -.
William non si era scomposto.
Ma la signora, fulminata da quella freddezza, lo fissò in volto. Non vi traspariva nessun indizio di commozione repressa. Suo figlio la guardava attentamente, ma con impassibile tranquillità.
Al grido straziante della contessa, e al vederla fuggire inorridita, William avea alzate le spalle ed era tornato al tavolino, a disegnare figure di geometria.
Otto giorni dopo, passando davanti la casa dove si espongono i cadaveri non riconosciuti delle persone perite di morte improvvisa o violenta, avea veduto molta gente affollarsi sull'uscio. La curiosità lo avea spinto ad entrarvi.
Sopra una bara giaceva il cadavere d'una giovane dai diciotto ai vent'anni.
Bella, vestita con eleganza, aveva i capelli rappresi sulla fronte e sul collo; gli abiti ancora bagnati indicavano il genere di morte scelto dalla infelice per finire i suoi giorni.
- È Ida Blümer - egli disse; - la riconosco -.
Condotto davanti al commissario, vi fece la sua deposizione. La vista di quel cadavere lo aveva lasciato indifferente.

Eran passati sei anni.
- Che cosa voleva dire quella stanchezza vaga, indefinibile che cominciava ad insinuarsi nella sua vita regolare e monotona? Quei confronti del passato col presente, che gli erano stati cagione di tanta allegrezza, perché ora prendevano un accento di lieve rimprovero? -
Fu spaurito di questi sintomi e cercò di svagarsi.
Ma come sfuggire la memoria? Si vedeva perseguitato da essa perfino nei sogni.
Giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, la stanchezza e la noia aumentavano. Non poteva far nulla per arrestarle; si sentiva inetto a resistere.
- La gran legge del lavoro! -
Aveva un bel ricordarsene; non gli riusciva di lavorare. Si stancava, si annoiava subito. Gli mancava qualcosa che gli rendesse caro il lavoro.
La sua solitudine gli faceva spavento. I momenti piú tristi della sua vita gli parvero preferibili, immensamente, a quella calma di morte che l'operazione del dottor Cymbalus gli avea procurata.
- Mamma! Ida! Mamma! Ida! - chiamava ad alta voce, chiuso nella sua stanza, senza voler vedere nessuno.
Tentava di riscuotersi con quei nomi dal torpore che lo teneva incatenato fra i suoi terribili nodi.
- Ma nulla! -
Quelle parole: «Mamma, Ida» gli risuonavano nell'orecchio come due voci che non avessero mai avuto alcun senso per lui.
- Ah! Quell'ore di pianto, di disperazione, di strazio mortale passate a guardar da lontano le finestre del palazzo K*** nelle notti d'inverno! Ah! quell'ore d'agonia, quando si struggeva di abbracciare sua madre che perduta tra le feste e i conviti piú non si ricordava di lui! Quelle erano state ore! E quando i furori della gelosia, i folli propositi di vendetta gli avevano sconvolto il cervello, al tradimento di Ida Blümer? Che emozioni! Che divini dolori!... Ed ora piú nulla! Nulla! Un giorno corse da sua madre.
La contessa K*** si preparava per un viaggio lontano. Nel momento che William saliva le scale del palazzo ricordando la trista scena di parecchi anni fa, essa trovavasi nel suo elegante salotto, abbandonata su una poltrona, col viso fra le mani, piangente. Una cameriera levava della roba da un mobile antico incrostato di avorio e di madreperla, e nominato un oggetto, aspettava che la sua signora le rispondesse sí o no con un cenno del capo.
William irrompeva nella stanza.
La contessa pareva ammattita dalla gioia. Rideva, piangeva, lo abbracciava, lo carezzava, tornava ad abbracciarlo. William non rifiniva dal baciarla:
- Il contatto di quelle labbra dovea fargli rivivere il cuore! Chiamami figlio! Chiamami figlio!
- Figliuolo, figliuolo mio! - ripeteva la contessa.
Il rimorso, il pentimento, la gioia rendevano sublime l'accento di lei.
William smaniava; si scioglieva dalle braccia di sua madre, le metteva una mano sulla fronte per tenerle sollevato il volto:
- Voleva contemplarlo bene e assorbire tutti gli splendori di quegli occhi! Qui le tue mani, sul mio cuore!... Premi forte!... Ancora piú forte! Ma no! No! Quel terribile gelo non voleva fondersi. Il suo cuore era morto per sempre! Non un palpito! Non una leggiera emozione! Baciava forse una statua? Era un'infamia! Oh, maledetta quella scienza che lo aveva cosí ridotto! -

La mattina dopo, senza dir nulla al suo amico, William Usinger prese la strada che conduceva alla villetta del dottor Cymbalus.
Era giorno di festa. Allegre brigate di uomini e di donne, sparse pei prati che fiancheggiavano la strada, conversavano allegramente o ballavano al suono del violino e del contrabasso. William si fermava a guardare quelle persone felici; ma non capiva piú nulla di quella loro musica, e di quelle loro canzoni. Quei visi sorridenti gli sembravano atteggiati a scherno o a disprezzo per lui.
Il dottor Cymbalus lo ricevette colla sua solita cordialità.
William gli espose quel che provava.
- Io non v'ingannavo, figliuolo mio! - gli disse il dottore diventato tristo e meditabondo. - Forse sarebbe stato meglio vi avessi lasciato mettere in atto la vostra disperata risoluzione! Non credete per questo che vi fossi indotto da una vanità di scienziato, per tentar l'esperimento delle mie scoperte. Voi calunniereste il mio cuore d'onest'uomo che la scienza fa palpitare vivamente per qualunque creatura che soffre. Fui sedotto da una speranza: osai sperare che la natura non sarebbe stata inesorabile. Eravate cosí giovane! Avevate tanto sofferto! Ma la natura non muta le sue ineluttabili leggi.
- Addio, dottore! - disse William.
- Abbiate coraggio, abbiate coraggio!
- Avrò coraggio -.
Il dottor Cymbalus dalla finestra del suo studio seguí coll'occhio il giovane che s'allontanava a capo chino. Lo vide fermarsi per consegnar qualcosa al servo poi sparire nel campo vicino, dietro un folto gruppo di alberi.
S'udí un'esplosione d'arma da fuoco.
Il dottore corse in fretta, accompagnato dal servo, verso il punto dove l'Usinger era scomparso.
William giaceva a terra immerso in un lago di sangue, col petto squarciato da una terribile ferita.
Quando il servo consegnò al dottore il foglio ricevuto alcuni momenti prima, il vecchio scienziato lo aperse tremando dalla commozione, colle lacrime agli occhi. Esso conteneva queste brevi parole:
«Lascio tutto il mio patrimonio al dottor Franz Cymbalus ed al mio amico Hermann Strauss perché con esso istituiscano una scuola gratuita dove si insegni ad Amare!»

Firenze, settembre 1865.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Racconti" di Luigi Capuana, 3 volumi (TOMO I, TOMO II, TOMO III), a cura di Enrico Ghidetti, collezione: I novellieri italiani, Salerno editrice, Roma, 1974







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