Luigi Capuana - Opera Omnia >> Il raccontafiabe |
ilcapuana testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia # IL RACCONTAFIABESeguito al « C'era una volta... »Prefazione Rammentate voi, bambini, il racconta-fiabe, colui che vi raccontò le storie di Spera di sole, di Ranocchino, di Cecina, di Testa-di-rospo, e di tant'altra gente meravigliosa? Se ve ne rammentate, dovete anche rammentarvi che egli pensò di regalare le sue fiabe al mago Tre-Pi, Visto che voialtri non volevate più sentirle, perché le sapevate tutte a mente. Egli sperava che il mago Tre-Pi conservasse quelle fiabe nei cassetti del suo museo, imbalsamate insieme con le altre fiabe antiche. Il Mago disse: - Ah, sciocco, sciocco! Non vedi Che cosa hai in mano? Il raccontafiabe guardò: aveva in mano un pugno di mosche. E tornò addietro scornato; e di fiabe non ne volle più sapere, dopo che le Fate gli avevano ripetuto: - Fiabe nuove non ce n'è più; se n'è perduto anche il seme. Ora avvenne che non sapendo egli a qual altro mestiere darsi, rimase lungamente disoccupato. Passava le giornate al sole, davanti l'uscio di casa sua; e spesso pensava a quelle care fiabe, che gli si erano mutate in un pugno di mosche. I bambini che lo vedevano sbadigliare su la soglia dell'uscio, gli domandavano: - O che non ce n'hai più fiabe nuove, raccontafiabe? Egli alzava le spalle, scrollava la testa e non rispondeva. Dove andare a pescarle? Gli strani oggetti che gli erano stati regalati da fata Fantasia, non potevano più servire. Ognuno di essi gli aveva già suggerito la sua fiaba, appena egli l'aveva preso in mano; e dopo non c'era stato verso di cavarne più niente. Tornare da fata Fantasia gli pareva una bella sfacciataggine. E poi, come rintracciare un'altra volta Cenerentola, Cappuccetto rosso, Pelosina, Pulcettino e tutti gli altri che lo avevano condotto alla grotta della Fata e l'avevano pregata di aiutarlo? La fiera delle Fate ricorre una volta ogni mille anni; e il capitarvi in mezzo era stata proprio una rara fortuna. Per ciò egli sbadigliava, e con le mani in mano, godevasi il sole, in mancanza d'altro, su la soglia dell'uscio. Una notte, non potendo chiuder occhio, gli passò pel capo di cercare il sacchettino dov'erano conservati il ranocchio, la stiacciata, l'arancia d'oro, la serpicina, l'uovo nero, i tre anelli e le altre cosettine regalategli dalla Fata. - Chi sa? Dopo tanto tempo, forse avevano ripreso la loro virtù. Saltò dal letto, corse a cercare il sacchettino riposto in un armadio, e tentò di fare come soleva. Prese a caso i tre anelli, e disse: - C'era una volta... Ma una volta, quantunque non sapesse neppure mezza parola di quel che doveva dire, appena aperta la bocca, la fiaba gli usciva filata, quasi l'avesse saputa a mente da gran tempo. Invano ora ripeté: - C'era una volta...! C'era una volta...! Gli usciva di bocca soltanto il fiato. Stizzito, afferra il mortaio, ci vuota il sacchettino dentro, e poi pesta e pesta; ridusse in polvere ogni cosa. Ne prese un pizzico, e strofinandolo con disprezzo fra le dita, esclamò: - Così non mi verrà più la tentazione di provare, e dire: C'era una volta!... Ma non aveva ancora finito di pronunziare queste parole, che già su la punta della lingua gli s'agitava una fiaba nuova. E se la raccontò da sé, divertendosi come un bambino. Allora, sbalordito, prese un altro pizzico di polvere e: - C'era una volta!... Ed ecco un'altra fiaba nuova nuova, ch'egli si raccontò da sé, divertendosi come un bambino Il pover'uomo, dall'allegrezza, non capiva nella pelle. Gli pareva mill'anni che si facesse giorno, per andare per le piazze e per le vie: - Fiabe, bambini, fiabe! Chi vuol sentire le fiabe! Raccolse delicatamente nel sacchetto tutta la polvere del mortaio, senza perderne un granellino; e, appena fatto giorno, uscì di casa. Non era tranquillo però: - Chi sa se queste fiabe piacciono quanto quell'altre? E gli tremava un po' la voce nel gridare: - Fiabe, bambini, fiabe! Chi vuol sentire le fiabe! I bambini accorsero e si divertirono: - Un'altra! Un'altra! E ne mise fuori più d'una dozzina. Chi non le ha udite dalla bocca del raccontafiabe, può leggerle con comodo in questo libro. Sono proprio le ultime. Al povero raccontafiabe è accaduta una disgrazia. Una sera, stanco di aver raccontato fiabe tutto il giorno, si buttò sopra un sedile di pietra del giardino pubblico e si addormentò. Allo svegliarsi, cerca e ricerca il sacchettino con la polvere portentosa che gli suggeriva le fiabe, non lo ritrovò più. E lo ricerca tuttavia, poverino! LUIGI CAPUANA
Roma, 13 settembre 1893 C'era una volta un Re e una Regina che avevano una figlia bella quanto la luna e quanto il sole; tanto frugola però, che facendo il chiasso metteva sossopra tutto il palazzo reale; capricciosa e bizzosa poi quanto può essere una bambina che i genitori non sgridavano mai. Più grosse le faceva e più questi ne ridevano: - Ah, ah, che frugolina! Ah, ah, che frugolina! Ma un giorno piansero, e come! della loro eccessiva benevolenza. Il Re stava per andare a caccia; al portone del palazzo trovò una vecchiarella cenciosa, ricurva, che si appoggiava a un bastone per reggersi. - Che volete, buona donna? - Cerco del Re. - Il Re sono io. La vecchia gli fece una bella riverenza e gli porse una lettera: - È del Re di Spagna. Il Re di Spagna pregava d'alloggiarla per una notte nel palazzo reale, come se fosse stata la sua stessa persona: - Non le domandate né donde venga né dove vada; non vi pentirete d'averle usata cortesia. Il Re credette che fosse uno scherzo, e diè ordine che le preparassero una stanzina in soffitta e la mettessero a tavola coi servitori. - Grazie, Maestà - disse la vecchia. E andò a rannicchiarsi in soffitta. A tavola, coi servitori, mangiava zitta zitta in un canto, quand'ecco quella frugolina della Reginotta che le versa la saliera e la pepaiuola nella minestra: - Sentirete che sapore! E tutti i servitori a ridere: - Ah, ah, che frugolina! Ah, ah, che frugolina! La vecchia non fiatò, e mangiò la minestra come se niente fosse stato. Il Re e la Regina, saputa la cosa, si messero a ridere anche loro: - Ah, ah, che frugolina! Ah, ah, che frugolina! La vecchia, levatasi da tavola, cercava il bastone e non lo trovava. Guarda nel camino e vede che il bastone era già mezzo arso dal fuoco; e la Reginotta, contorcendosi dalle risa, le diceva: - È ben caldo: vi servirà meglio. E tutti i servitori a ridere: - Ah, ah, che frugolina! Ah, ah, che frugolina! La vecchia trasse il bastone dal fuoco, e uscì di cucina appoggiandosi, come se niente fosse stato. Il Re e la Regina, saputa la cosa, si messero a ridere anche loro. La mattina dopo, nel punto d'andar via, la vecchia trovò sul pianerottolo la Reginotta che l'aspettava: - Vecchina, donde venite e dove andate?E colei rispose, brontolando: - Dove vado e donde vengo,La toccò col bastone, scese le scale e sparì. Da quel giorno, la Reginotta cominciò a scemare di peso. Non dimagrava, non diventava brutta, aveva la giusta crescenza, ma da un mese all'altro si sentiva sempre più leggiera. Arrivata a diciotto anni, all'apparenza era una ragazza bella, bianca di carnagione, con un mucchio di capelli d'oro, ma pesava meno d'una piuma, e il più lieve soffio la portava via. Figuratevi la disperazione del Re e della Regina. Bisognava tener chiuse tutte le finestre del palazzo reale; non potevano condurla fuori per paura che il vento non la trasportasse chi sa dove. E siccome la poverina a star rinchiusa s'annoiava, e il Re e la Regina non volevano che la gente sapesse la disgrazia della loro figliuola, così per svagarla passavano le giornate a soffiarle attorno e a farla volare pei corridoi e per gli stanzoni del palazzo. Ella si divertiva immensamente a sentirsi sballottare per aria, e gridava: - Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà! Il Re e la Regina ci rimettevano i polmoni per farla andare in alto. Ma più alto ella saliva, e più forte gridava: - Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà! Re e Regina non potevano mica stare tutto il santo giorno a fare da soffietto; e la Reginotta s'imbronciava e piangeva. Vedendola piangere, i poveri genitori tornavano subito a soffiare, il Re da una parte e la Regina dall'altra; e lei, riprendendo subito il buon umore, batteva le mani: - Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà! La facevano montare fino al soffitto; le correvano dietro per i corridoi, soffiando, soffiando, soffiando per farla stare allegra, perché quella povera figliuola non poteva avere altro svago; e quando si riposavano, ansimanti dall'aver soffiato troppo, Re e Regina si lamentavano: - Figlia disgraziata, chi ti ha fatto questa malìa? Una volta, a tali parole, la Reginotta si rammentò della risposta della vecchia, e disse: - È stata quella vecchia! - Come mai? - Mi rispose: Dove vado e donde vengo,Se avesse potuto rintracciare la vecchia, il Re le avrebbe dato un tesoro per disfare la malìa. Ma chi sa dove lucevano gli occhi di quella Strega? E Re e Regina continuarono a soffiare e a spingere in alto Piuma-d'-oro, come chiamavano la figliuola perché era bionda e i suoi capelli parevano d'oro filato. Piuma-d'-oro oramai pensava soltanto a divertirsi a quel modo. Mangiava di buon appetito, cresceva di corporatura, diventava anche più bella; il suo peso però era talmente scemato, che una piuma vera sarebbe parsa di piombo al paragone. Bastava quasi un alito per farla salire in alto; pure non si contentava mai, se il Re e la Regina non soffiavano forte: - Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà! Re e Regina non reggevano più. Dopo due anni di questo lavoro, s'accorsero che, a furia di soffiare, cominciava ad allungarglisi il muso; e Piuma-d'-oro intanto diventava più esigente, voleva spassarsela sempre per alta. Non aveva altro svago, in verità; ma i genitori potevano stare eternamente a soffiare? E quand'essi sarebbero morti, chi avrebbe avuto la pazienza di continuare? Non si davano pace. Intanto s'era sparsa pel mondo la fama della bellezza della Reginotta; il Re di Portogallo mandò a richiederla pel Reuccio che doveva prendere moglie. Grande imbarazzo. Se rispondevano no, il Re di Portogallo poteva offendersi e dichiarare una guerra. Re e Regina stettero un giorno e una notte a consultarsi, e all'ultimo decisero di prendere un anno di tempo per fare le nozze. Il guaio peggiore fu allorché il Reuccio scrisse che sarebbe andato a fare una visita alla promessa sposa per conoscerla di presenza. Bisognava palesare l'infermità della Reginotta, e questo ai genitori coceva. Vedendoli così afflitti che non avevano più animo e forza di soffiare e farla volare per aria, la Reginotta disse: - Maestà, giacché la vecchia brontolò: « Tu col vento ci verrai », lasciatemi andare; la mia sorte vuole così. Pianti, grida disperate: - Non sarà mai, figliuola mia! Non sarà mai! Ma la Reginotta s'ostinò: - Lasciatemi andare. Il cuore mi predice che me ne verrà buona fortuna. Il Re e la Regina alla fine si rassegnarono; e un giorno che tirava un furioso maestrale, condussero in lettiga la figliuola sopra un monte; l'abbracciarono, la benedissero e l'abbandonarono in balìa dei vento. In un batter d'occhio fu sollevata in alto e spinta così lontano che, dopo pochi minuti, la perdettero di vista. Lasciamo costoro a piangere, e seguitiamo la Reginotta. Quantunque afflitta anche lei, dopo alcune ore di viaggio, vedendosi trasportata a tanta altezza e così rapidamente come non aveva mai provato, si rasserenò e si mise a guardare in giù, torno torno. Che spettacolo! Città, montagne, pianure, fiumi, boschi, tutto le passava via sotto di sé, quasi lei stesse ferma e le cose fuggissero precipitosamente per l'opposta direzione. Se il vento talvolta soffiava meno forte, ella scendeva, girando, poi tornava a essere sollevata e sbalzata fino alle nuvole, andando sempre avanti, sempre avanti, sorpassando nuove città, nuove montagne, nuove pianure, boschi più fitti, fiumi più larghi. Tutt'a un tratto s'accorse che la terra era sparita. Acqua, acqua, acqua, non si vedeva altro, acqua che si agitava in cavalloni spumeggianti, e poi acquai acqua ancora... Era il mare. Quando il vento la faceva scendere giù, Piuma-d'-oro aveva paura. Una volta gli spruzzi dei cavalloni le arrivarono proprio alla faccia, e si credette perduta. Ma ecco una folata che la fa risalire, e la spinge a riprendere la corsa precipitosa... E ancora acqua, acqua, acqua!... Poi le parve che il sole si spegnesse nel mare, e che un velo vi si stendesse sopra, mentre in alto, nel cielo buio, apparivano le stelle. Il cuore le diventò piccino piccino, e si mise a piangere, e a gridare: - Ah, mamma mia! Ah, mamma mia! Il vento però la cullava così dolcemente, che a poco a poco le si aggravarono gli occhi; senza accorgersene, si addormentò quasi si fosse trovata nel proprio letto. Quante miglia aveva fatte durante il sonno? Chi poteva saperlo? All'alba, riaprendo gli occhi, si senti slargare il petto, rivedendo di nuovo pianure verdeggianti. Piuma-d'-oro volava così basso, che distingueva benissimo le case di campagna, gli alberi, le vie, i rigagnoli, fra la gente; le persone sembravano tante formiche. E scendendo ancora più giù, s'accorse che i contadini la guardavano, levando le mani in alto per accennarla agli altri; e sentiva le loro voci: - Che sarà mai? È un uccellaccio? Il sole era già alto. Il vento, diminuito, pareva che proprio si divertisse a cullarla per aria. I capelli si erano sciolti e le svolazzavano attorno al collo, le vesti si gonfiavano e sbattevano, quasi ali che la reggessero su. Stava per arrivare, finalmente, dove la sua sorte, buona o trista, voleva portarla?... Intanto lo stomaco cominciò a farsi sentire. Da un giorno e una notte ella non ci aveva messo più niente, neppure una stilla d'acqua. Come trovar da mangiare lassù per aria? Passava uno stormo di uccelli, - Uccellini, uccellini, datemi qualcosa di quel che portate in becco; muoio di fame. - I figlioletti ci attendono nei nidi; questo cibo è per loro. Gli uccelli continuarono il loro cammino. Il vento la spinse più alto. Passava una fila di nuvole. - Nuvole, nuvole belle, datemi una stilla d'acqua; muoio di sete. - Quest'acqua è pei seminati; abbiamo fretta. E le nuvole continuarono il loro cammino.. Verso il tramonto, ecco laggiù, lontano, una montagna rocciosa, con in cima un palazzo che pareva di marmo bianco e nero, grande quanto una città, meraviglioso. Piuma-d'-oro si fece animo e pensò: - Mi fermassi almeno colà! Ah, mamma mia, mi sento morire! Infatti, dalla debolezza, le venne una mancanza; non vide né sentì più niente; e quando rinvenne, si trovò stesa su la terrazza del palazzo veduto da lontano. Scese per la scaletta che conduceva all'interno, sperando d'incontrare qualcuno; non si scorgeva anima viva. Le pareti delle stanze erano di marmo bianco, le cornici, gli stipiti degli usci e le colonne, di marmo grigiastro. Tavolini, seggiole, letti, mobili, di marmo bianco o grigiastro. E dappertutto uno strano odore di sale e di pepe. Aperse un armadio; piatti con pietanze svariate, e panini e frutta e dolci; ogni cosa però scolpita in marmo bianco o grigiastro, e con un odore così forte, che la faceva starnutire. Spinta dalla fame, accostò alla bocca una di quelle finte vivande. Stupì; erano proprio di sale e di pepe. Allora si convinse che l'intero palazzo era fabbricato con massi di sale ben levigati e con pepe tanto sodamente impastato, da eguagliare il marmo. Si rammentò della saliera e della pepaiola da lei versata, quand'era bambina, nella minestra della vecchia, e disse: - Questo è il suo palazzo. Mi castiga così. E si mise a gridare, piangendo:: - Vecchina, o vecchina! Dammi da mangiare, vecchina! Una voce fioca fioca rispose da lontano: - C'è tanta roba costì; sentirai che sapore! Costretta dalla necessità, Piuma-d'-oro prese un panino e una mela e cominciò a sbocconcellarli. Sapevano proprio di pane e di mela, ma salati e pepati! E Piuma-d'-oro a gridare, piangendo: - Vecchina, o vecchina! Dammi da bere, vecchina! La voce fioca fioca rispose da lontano: - C'è tanta roba costì; sentirai che sapore! Prese una bottiglia e un bicchiere; l'acqua versata era torbida. Pure, costretta dalla necessità, Piuma-d'-oro bevve tutto d'un fiato. Oh Dio! Anche l'acqua era salata e pepata. E così tutti i giorni, senza veder mai viso di cristiano per quell'immenso palazzo. Fino gli alberi del giardino e i fiori e l'erbe erano di sale e pepe. E Piuma-d'-oro starnutiva starnutiva, versando goccioloni di lagrime. Veniamo, ora al Reuccio di Portogallo, arrivato per visitare la Reginotta. Il Re e la Regina gli dissero, piangendo dirottamente: - La Reginotta se la portò via il vento! Da prima si credette canzonato; poi, udita la storia di Piuma-d'-oro, disse: - Vado a cercarla. - Dove mai? -In capo al mondo. Voglio trovarla a ogni costo. Montò a cavallo e via, solo solo, domandando dappertutto: - In grazia, avete visto passare per aria una bella ragazza trasportata dal vento? Molti lo presero per matto, e non gli risposero neppure. - Ingrazia, avete visto passare per aria una bella ragazza trasportata dal vento? - L'abbiamo vista. Volava, volava; pareva un uccellaccio. - E per dove? - Dritto, avanti, avanti. Il Reuccio spronò il cavallo. Incontrò altra gente: - Di grazia, avete visto passare per aria una bella ragazza trasportata dal vento? - L'abbiamo vista. Volava, volava; pareva un uccellaccio. Poi il vento la spinse in alto, e sparì fra le nuvole. A questa notizia il Reuccio si perdé di coraggio; e stava per tornarsene addietro, quando fra le macchie scorse un vecchio con la barba bianca, lunga fino ai ginocchi, e con una zappa in mano. - Bel cavaliere, Che cercate da queste parti? - Cerco la reginotta Piuma-d'-oro che fu portata via dal vento. In grazia, l'avete vista passare? - Chiedeva da mangiare agli uccelli e da bere alle nuvole: ma nuvole e uccelli non le diedero niente, e continuarono il loro cammino. Chi va, arriva; chi cerca trova. Coraggio, bel cavaliere! - E voi chi siete? - Un povero vecchio. Dovrei scavare una radica qui, ma non ho forza. - Datemi la zappa; scaverò io per voi. Il Reuccio smontò da cavallo e si mise a scavare. Scava, scava, scava, la radica non veniva fuori. - Coraggio, bel cavaliere! Chi cerca trova. Il vecchio aveva un bel dire; la radica non veniva fuori. Il Reuccio grondava di sudore, si sentiva rotte le braccia. - Coraggio, bel cavaliere! Chi cerca trova... Grazie! Eccola qui! E il vecchio stese la mano alla radica terrosa - Vi do questo fischietto - poi disse. - Se avete bisogno di qualche cosa, sonate e vedrete. Badate però di non perderlo; non ne trovereste un altro simile per tutti i tesori del mondo. Il Reuccio ringraziò, si mise in tasca il fischietto, rimontò a cavallo e proseguì il viaggio. Pensava alla Reginotta: - Se avessi chi potesse scovarla! E tratto di tasca il fischietto, mezzo incredulo, gridò: - Aquila, aquila messaggiera, ai miei comandi! Fischia, ed ecco l'aquila che scende dall'alto con le grandi ali tese. - Aquila messaggiera, va' attorno e recami notizie della mia Reginotta; t'attendo qui. L'aquila ripartì subito, e per due giorni non si fece vedere. Al terzo giorno, ricomparve con una lettera al becco. La Reginotta scriveva: « Sono prigioniera nel palazzo di sale, e pepe d'una Fata, dove non può entrare anima viva ». Il Reuccio rammentò allora le parole della vecchia che gli erano state riferite: Tu col vento ci verrai,- Va bene - pensò. E cavato di tasca il fischietto: - Nuvole, nuvole, ai miei comandi! Fischia, ed ecco da ogni parte del cielo montagne di nuvole, che accorrono premurose, gravide di pioggia. - Aquila, aquila messaggiera, ai miei comandi. Al fischio, anche l'aquila ricomparve e scese a posarglisi ai piedi. - Su su, aquila mia! Portami al palazzo di sale e pepe della Fata; e voi, nuvole, dietro a me! Inforcò l'aquila, quasi fosse stata un cavallo; e l'aquila, aperte le ali, lo trasportò in alto, via pel cielo; essa col Reuccio avanti, e le nuvole dense, gravide di pioggia, montagne smisurate che oscuravano il sole, dietro a loro, via, via! La Fata visto dalla terrazza del suo palazzo quel temporale che si avvicinava, s'accorse del pericolo; e scatenò il libeccio che teneva chiuso in una stanza. Il vento incontrò l'aquila e le nuvole a mezza strada, e col suo gran soffio non li faceva avanzare. La lotta durava da più ore, senza che l'aquila e le nuvole avessero potuto guadagnare un palmo di spazio. Il libeccio, invece di stancarsi a soffiare, prendeva anzi maggior forza. - Aspetta un po' - disse il Reuccio. Cavò di tasca il fischietto: - Tramontana, tramontana, ai miei ordini! Fischiò; e subito si levò una tramontana furiosa, che soffiando di dietro, spinse in avanti aquila e nuvole con violenza. In pochi istanti, tutti furono sul palazzo di sale e pepe della Fata, e si fermarono. - Vento, chétati. Nuvole scioglietevi in pioggia! Il Reuccio tornò a fischiare. Parve si aprissero a un tratto le cateratte del cielo; e intanto che la pioggia veniva giù a torrenti, il palazzo di sale e pepe si andava squagliando; e giù per le gole della montagna precipitavano torbidi fiumi di sale e pepe liquefatti, che correvano verso il mare. Piovve così sette giorni e sette notti, finché del palazzo della Fata non rimase vestigio. La Fata era sparita lasciando la Reginotta aggrappata a un masso, dopo averle ripetuto all'orecchio: - Tu col vento ci verrai,Il Reuccio, montato sull'aquila, voleva prendere con sé Piuma-d'-oro. Ma che! A furia di mangiare sale e pepe, ella aveva riacquistato il suo peso, e l'aquila non poteva reggerli addosso tutti e due. - Grazie, aquila forte. Scese a terra, e lasciò l'aquila in libertà. La Reginotta, dall'allegrezza, non riusciva a dire neppure una parola. Il Reuccio intanto, cavato di tasca il fischietto: - Cavalli, cavalli bardati, ai miei comandi! Fischia, e due magnifici cavalli bardati sbucano di sottoterra davanti a loro, scalpitanti. Egli stava per rimettersi il fischietto in tasca; ma rieccoti il vecchio dalla barba bianca, lunga fino alle ginocchia, che gli aveva fatto quel regalo: - Reuccio, il fischietto non vi serve più; rendetemelo, e Dio vi accompagni fino a casa. Il Reuccio veramente voleva trattenerselo; era così comodo! - Provate - soggiunse il vecchio; - in mano vostra non fischia più. Infatti non fischiava più. E il Reuccio glielo rese: - Grazie di nuovo, buon vecchio. Dopo un mese di viaggio, Reuccio e Reginotta arrivarono sani e salvi ai palazzo reale. Si sposarono con grandi feste e vissero felici e contenti. La Reginotta però, a ricordo della sua cattiveria di bambina, fece voto di non mangiare mai più né pepe né sale in vita sua. E così finisce la storia di Piuma-d'-oro. C'era una volta due poveri contadini, marito e moglie, che campavano stentatamente, lavorando da mattina a sera. L'omo andava a giornata, la donna faceva dei servizietti alle vicine. Abitavano una casetta affumicata a pianterreno, e avevano appena un misero lettuccio e pochi altri mobili. Pure non si lamentavano mai. Andavano a dormire di buon'ora, e la mattina, prima dell'alba, erano all'erta. Una notte si sentono svegliare dal canto di un grillo. Trilla, trilla, trilla; non la finiva più. L'omo, stizzito, accende la candela e salta giù dal letto. - Che vuoi fare, marito mio? - Ammazzare questo grillaccio. - Lascialo stare; è creatura di Dio. Il grillo, veduto il lume, taceva. Quell'omo torna a letto, spegne la candela e chiude gli occhi per addormentarsi. Il grillo riprese il canto. Trilla, trilla, trilla, non la finiva più. - Non vuoi chetarti? Ora ti accoppo. Riaccese la candela, saltò giù dal letto e si mise a frugare in tutti gli angoli. - Dove ti sei ficcato, grillaccio? E il grillo: - Trih! Trih! Trih! Colui si volta e corre verso il lato donde il trillo veniva. - Dove ti sei ficcato, grillaccio? E il grillo, dall'angolo opposto: - Trih! Trih! Trih! Pareva lo canzonasse. Quella nottata marito e moglie non chiusero occhio. - Cerca tu il grillo e ammazzalo - disse l'omo. - Se la notte ventura ricomincia, me la prendo con te. Il marito era manesco, e la donna, appena egli andò via, si mise a cercare attentamente, per non essere picchiata. Cerca qua, cerca là, non ci fu verso di trovar niente. - Forse, sarà volato fuori dall'uscio. Si tranquillò. Ma la notte appresso, ecco di bel nuovo il grillo: - Trih! Trih! Trih! Non la finiva più. - Ah, marito mio! Ho frugato in tutti i posti e in tutti i buchi e non mi è riuscito di trovarlo. - Cercherai meglio domani. Intanto, prendi queste! Afferrato un legno, stava per legnare la moglie: - Se tu picchi, picchio anch'io. - Ripetilo un'altra volta! - urlò il marito. - Non l'ho detto io, marito mio! Il marito rimase. In camera non c'era nessun altri all'infuori di loro due. Parlava dunque il grillo? - Creatura di Dio, che chiedi da noi? - disse la donna. - Non chiedo nulla. - Che fai qui dentro? - Guardo il tesoro, A queste parole, l'omo accennò alla moglie di state zitta. Si rimise a letto e spense la candela. Il grillo subito subito: - Trih! Trih! Trih! Lo lasciarono cantate in pace fino all'alba. Appena fatto giorno, il contadino, invece di andate a lavorare in campagna, prese la zappa e cominciò a scavate il suolo della cameretta, dove non c'erano neppure mattoni. Scavò fino a sera, ma trovò soltanto sassi, cocci e terriccio. Aveva perduto la giornata, senza conchiuder nulla. - Grillaccio bugiardo! Se questa notte ricominci, t'accoppo. Si misero a letto e spensero il lume. - Trih ! Trih! Trih ! - Che vuoi fare, marito mio? - Ammazzate questo grillaccio. - Attendi un po'. Creatura di Dio, che chiedi da noi? - Non chiedo nulla. - Che sei venuto a fate qui dentro? - Lasciami cantate tutta la nottata; domani te lo dirò. E Trih! Trih! Trih! Non smise fino all'alba. L'omo partì per la campagna. Rimasta sola, la povera donna cominciò a tremate dalla paura. - Creatura di Dio, che vuoi da me? - Prendimi e mangiami; vedrai. Ella aveva schifo di mangiate un grillo; ma sentendo che esso insisteva: - Mangiami, e vedrai! - si fece coraggio. Lo prese per le punte delle ali, se lo mise in bocca e masticò. Quel grillo era di un sapore squisito. Avesse avuto davanti un piatto intero di grilli, la donna lo avrebbe ripulito in quattro bocconi. La sera, il marito tornò dai campi: - Che ti ha detto il grillo? - Mi ha detto: Mangiami e vedrai! E l'ho mangiato. - Almeno non lo sentiremo cantar più! Non fu così. Di tanto intanto, la notte, dai corpo della povera donna, si sentiva: Trih! Trih! Trih! E ora non c'era verso di ammazzare il grillo; bisognava prima ammazzare lei. Nove mesi dopo, la donna partorì e fece un bel bambino, il quale, appena nato, invece di piangere, si mise a trillare quasi fosse stato un grillo davvero. - Che nome gli daremo? Il nome lo porta con sé; chiamiamolo: Grillo. Grillino, sin dai primi mesi, fu la disperazione della sua mamma. Saltava dalla culla, dal letto, dalle braccia di lei come un grillo a dirittura. - Grillino, ti farai male! Ti accadrà qualche disgrazia. E Grillino: - Trih! Trih! Trih! Non sapeva ancora parlare, e rispondeva a quel modo. Quando crebbe fu peggio. Per un nonnulla picchiava i ragazzi che facevano il chiasso con lui, e poi spiccava un salto sul tetto d'una casa, in cima a un albero, dove nessuno poteva raggiungerlo. E di lassù canzonava i compagni: - Trih! Trih! Trih! Era il suo verso. Suo padre scoteva la testa a queste, prodezze: - Grillo è nato e grillo morrà. La mamma cercava di prenderlo con le buone; se la gente veniva ad accusarglielo: - Grillino, Grillino, non far dispiacere alla tua mammina. - Trih! Trih! Trih! Lasciateli dire. Finalmente Grillino ne fece una molto grossa. Passava la carrozza reale con dentro il Re, la Regina e la Reginotta. Che fa egli? Spicca un salto sul cielo della carrozza e: - Trih! Trih! Trih! I cavalli si spaventano, prendono la mano del cocchiere e via a rotta di collo, nitrendo e sparando coppie di calci, fra le strida e gli urli di tutti. Grillino intanto, con le gambe larghe e le braccia aperte, pareva incollato sul cielo e rideva, rideva o riprendeva a trillare. Quando gli parve, spiccò un salto e giù. Cavalli e carrozza si fermarono a un tratto. Questa volta però Grillino non fece a tempo per scappare. I soldati che seguivano a cavallo la carrozza del Re e che le erano corsi dietro di galoppo, furono più lesti di lui; lo afferrarono, lo ammanettarono e lo condussero in prigione. - Ah, Grillino, Grillino! Te l'avevo predetto: T'accadrà qualche disgrazia! - Mammina, state allegra; non è niente. Suo padre, scotendo il capo: - Grillo è nato e grillo morrà! In prigione, Grillino non sapendo come spassarsi, si divertiva al suo solito, trillando da mattina a sera. La sua prigione si trovava proprio sotto le stanze del Re, e quel trillo gli rompeva il capo. - Per ordine di Sua Maestà, Grillino, sta' zitto! A chi dicevano? Al muro? - Trih ! Trih! Trih! Il Re, infuriato, ordinò: - Tagliategli la testa! La Reginotta, udito che le guardie andavano alla prigione per mozzare la testa a Grillino, corse a gettarsi al piedi del Re: - Maestà; se fate ammazzare Grillino, mi accade una gran disgrazia! - Chi te l'ha detto? - Una voce dal fondo del cuore. Grazia, Maestà! - E se non si cheta? - Glielo dirò io; si cheterà. La Reginotta andò lei in persona alla prigione. Le guardie già avevano legato Grillino, con le mani al dorso, e stavano per farlo inginocchiare bendato, davanti al ceppo su cui dovevano mozzargli la testa. - Grazia di Sua Maestà! Tu, Grillino, intanto devi promettermi di stare zitto. - Non posso, Reginotta. Trih! Trih! Trih! - Grillino, Grillino, fallo per amor mio! Grillino questa volta si mise a cantare: - Grillo, Grillino,Come? Voleva sposare la Reginotta? O ch'era ammattito? La Reginotta la prese in ridere e disse al Re: - Maestà, Grillino è pazzo. Vuole sposarmi. Canta: Se non gli dà la figlia il suo sovrano,Il Re però non la prese in burla: - Ecco come gli darò la figlia! Mozzategli la testa. Le preghiere della Reginotta non valsero più. Le guardie tornarono a legar Grillino con te mani al dorso e lo fecero inginocchiare bendato, davanti al ceppo: - Grillino, raccomandati a Dio! - Trih! Trih! Trih! Il boia alzò la scure e diè il colpo. La scure rimbalzò, col taglio acciaccato, quasi il collo di Grillino fosse stato di bronzo. A questo portento, boia e guardie, atterriti, scapparono a gambe, e non pensarono neppure a chiudere la prigione. Grillino, in un lampo, sciolto e sbendato, diè un paio di salti e fu all'aria aperta. Un altro salto e montò sul tetto del palazzo reale, proprio dov'erano le stanze del Re e subito: - Trih! Trih! Trih! Non la finiva più! Il Re aveva fatto il Capo come un cestone con quel trih! trih! maledetto. Ma che fare? Come riprendere Grillino che saltava di qua e di là, da quel grillo che era? Nel palazzo reale non si dormiva più da una settimana; tutti avevano perduto la testa; parevano tanti matti: - Accidempoli a Grillino! Quella vitaccia non poteva durare. Il Re venne a patti: - Grillino, ti dò un tesoro! - Ce l'ho, Maestà. - Grillino, ti faccio barone. - Sono qualcosa di più, Maestà. - Che tu sei? - Sono Reuccio. Il Re stupì. - E dov'è la tua corona? - Sotto il letto di mia madre. Il Re mandò a cercare nella casetta affumicata sotto il letto della povera donna, per vedere se era vero. - Maestà, sotto il letto c'era un cesto con de' cenci. - Hai sentito? - disse il Re. - Non hanno saputo cercare. Il Re mandò di nuovo, e mandò i Ministri perché cercassero meglio. - Maestà, sotto il letto c'era un paio di ciabatte. - Hai sentito Grillino? - Non hanno saputo cercare. E giorno e notte sul tetto del palazzo reale: - Trih! Trih! Trih! Accidempoli a Grillino! Accorse sua madre: - Grillino, Grillino, sta' zitto! Vieni giù! Suo padre scoteva la testa: - Grillo è nato e grillo morrà! E se n'andò in campagna pei fatti suoi. I Ministri dissero: - Maestà, non c'è verso; bisogna dargli la Reginotta. Il Re piegò il capo: - Figliuola mia; bisogna che tu sposi Grillino. Quando riferirono a Grillino che il Re gli avrebbe dato la Reginotta, egli rispose con una spallucciata: - La volevo e non me la diedero: ora me la danno e non la voglio io. Due salti e sparì. La Reginotta s'ammalò. Il Re e la Regina le domandavano: - Che ti senti, figliuola? - Ho male al cuore. Se non sposo Grillino, muoio. Intanto, di Grillino nessuna notizia. Chi l'aveva sentito trillare in un posto, chi in un altro; ma nessuno l'aveva veduto. Il trillo però era quello di lui; si riconosceva. Guardie e soldati andavano attorno per tutto il regno, chiamando: - Grillino! 0 Grillino! Lontano, lontano, sentivano: - Trih! Trih! Trih! - È su quella montagna. E accorrevano. Arrivati lassù, il trillo si sentiva nella pianura lontano, lontano: - È laggiù! E scendevano a corsa. Arrivati nella pianura, il trillo si sentiva tra i boschi, lontano lontano. Guardie, soldati, dal gran camminare, erano spedati, non ne potevano più. La Reginotta diventata una larva, col fiato ai denti disse: - Maestà, vado io! Lasciatemi andar sola. E prima andò nella casetta affumicata dei genitori di Grillino. - Buona donna, dov'è la corona di Grillino? E a un tratto s'intese: - Trih! Trih! È sotto il letto. Reginotta, scavate. La Reginotta, trovata una zappa in un canto, si mise a scavare. La corona non veniva fuori. - Grillino, sono stanca! Ho le braccia rotte. - Trih! Trih! Reginotta, scavate. La povera Reginotta riprese. Scava, scava, scava, la corona non veniva fuori. - Grillino, sono stanca! Mi sento morire! - Trih! Trih! Trih! Reginotta, scavate! La Reginotta, sfinita, si buttò per terra: - Mi sento mancare! E morì. Grillino comparve; e vista la Reginotta senza vita, si mise a piangere. - Trih! Trih! Trih! Ah, Reginotta mia! La mala sorte volle così! Trih! Trih! Trih! Prese in mano la zappa, diè due soli colpi, e venne fuori la corona reale; sotto di essa, un tesoro non mai visto: abbacinava a guardarlo. - Babbo, mamma, questo è vostro. Ora piangete Grillino. E si stese come morto per terra. Babbo e mamma lo piangevano: - Grillino bello mio! Figlio, Grillino! Intanto il corpo di Grillino si raccorciava, si raccorciava. - Grillino bello mio! Figlio, Grillino! Il lamento dei genitori si sentiva per tutta la via. E il corpo di Grillino continuava a raggrinzarsi, a raggrinzarsi; non pareva più di uomo. Infatti a poco a poco egli era già ridiventato grillo nero, con le gambine esili, e le ali. - Addio, mamma! Addio, babbo! Un salto, e via per l'uscio: - Trih! Trih! Trih! Grillo era nato e grillo era morto. C'era una volta una bambina, figlia d'un calzolaio. La madre, cullandola, le cantava sempre: - Dormi, figlia Regina!Il marito, battendo le suole le faceva il verso, per ridere: Dormi, il Reuccio arriva! La madre, dopo pochi mesi, morì e il calzolaio riprese subito moglie. Da prima, parve che la matrigna volesse bene alla figliastra. Spesso, accarezzandola, le diceva: - Ora ti faccio un fratellino. - Fratellini non ne voglio. - Perché? - Perché... Passò un anno. Vedendo che non c'era nessuna speranza di avere un figliuolo, la matrigna, indispettita, cominciò a prendersela con la bambina. La maltrattava senza ragione, la picchiava, le faceva patire la fame. Il suo babbo le voleva bene, ma si lasciava menare pel naso da quella donna. - Babbo, vostra moglie m'ha picchiato! - Perché non la chiami mamma? Chiamala mamma. - La mia mamma non è più qui. - Allora, fa bene a picchiarti, figlia Regina! Soleva dirle così. Una volta la poverina era stata lasciata languire di fame un'intera giornata, e la matrigna voleva che le stesse davanti, a guardarla, mentre mangiava a due palmenti. - Ogni boccone, uno stranguglione! - borbottò la bambina. - Figlia di tua madre, via di qua! Non ti voglio più tra' piedi. Via di qua! E, a pugni e a pedate, la cacciò fuori di casa. Il marito era andato a consegnare un paio di stivali a un avventore. Tornato in bottega, domandò: - Dov'è la bambina? - A fare il chiasso, la fannullona! Viene la notte, e la bambina non si vede. - Oh Dio! Le sarà accaduto un malanno! Vado a cercarla. - A quest'ora? Lasciamo socchiuso l'uscio di casa. Quando torna, se ne va a letto. II calzolaio, che faceva sempre la volontà della moglie, non insistette. La mattina però, levatosi per tempo, il suo primo pensiero fu per la bambina. Il letto era ancora intatto, e l'uscio socchiuso. - Ah, figliolina mia! Dove sarà mai? Vado a cercarla. - Vuoi perdere la giornata? - disse quella donnaccia - Tu resta a lavorare; vado io. Vedi com'è cattiva! Se la trovo, la picchio di santa ragione. E uscì fuori. - Vicine, avete visto quella bambina? - Ieri andava di corsa laggiù laggiù. Domandatene più in là. - Comari, avete visto ieri una bambina che correva? - Andava di corsa laggiù laggiù. Domandatene più in là. - Buona nonna, ieri avete visto passare una bambina? - Che bambina o bambino? Non ho visto anima viva! - Perché rispondete con quella vociaccia e quel visaccio, brutta strega? Vi ho detto forse qualcosa di male? - Il male non l'hai detto, ma l'hai fatto. Tieni! E le buttò addosso un catino d'acqua. Di donna che era, la matrigna diventò lupa; ma lei non se n'accorgeva. Credeva di parlare e abbaiava. La gente fuggiva al solo vederla comparire. Torna a casa e infila l'uscio. Il marito spaventato, comincia a tirarle addosso forme, gambali, tutto quel che gli capita sotto mano; poi, afferra un bastone, e giù colpi da orbo. - Sono io, marito mio! Sono io, marito mio! Credeva di parlare e abbaiava. Colui, che la vedeva in forma di lupa con tanto di bocca spalancata, aveva paura d'esser morsicato; e perciò dava botte che rompevano le ossa. La donna, vista la mala parata, scappò a gambe levate. Per le vie, la gente le correva appresso con pali, forconi, spiedi e armi d'ogni sorta. - Dàgli! Dàgli alla lupa! Dàgli! Tornarono addietro soltanto quando la perdettero di vista. S'era rifugiata in una tana. E la bambina? Messasi a camminare sempre diritto davanti a sé, giunse all'aperta campagna. Incontrò una vecchietta. - Bambina, perché piangi? Dove vai? - La matrigna mi ha scacciata di casa a pugni e a pedate. Vo dove mi portano i piedi; lasciatemi andare! - Se t'incontrano i lupi, ti sbranano. - La mia matrigna è assai peggio dei lupi; lasciatemi andare. - Dormi con me questa notte; domani all'alba andrai via. La buona vecchietta la fece entrare in casa, le diè da mangiare e da bere, e la mise a letto. La mattina, prima che partisse, le regalò un anellino: - Tienlo sempre in dito; sarà la tua fortuna. Quando ti trovi in qualche pericolo, di': « Anellino, aiutami tu! ». Ti aiuterà. La vecchia era una Fata, e l'anellino era fatato. Poco dopo sopraggiunse la matrigna. La Fata le buttò addosso il catino d'acqua e la cambiò in lupa. Cammina, cammina, cammina, la povera bambina si smarrì in mezzo a un bosco. Cominciava a farsi buio, e non si vedeva faccia di cristiano. Dattorno, si sentivano intanto gli urli delle bestie feroci. - Ora mi mangiano viva! La poverina piangeva, col viso tra le mani, seduta per terra. Tutt'a un tratto, ecco un calpestìo tra le macchie li accosto, e un fiuto forte forte: - Uh! Uh! Uh! Oh, che buon odore! Uh! Uh! Uh! Oh, che buon Odore di carne umana!. Nel buio s'intravvedeva una forma di persona che andava fiutando forte forte tra le erbe e le macchie: - Oh, che buon odore! Uh! Uh! La poverina, le si accapponava la pelle. Si rannicchiò, dicendo sottovoce: - Anellino, aiutami tu! E trattenne il fiato. Quella forma nera nera le si aggirava dattorno fiutando: - La sento e non la trovo! Uh! Uh! Frugava rabbiosamente tra le macchie e le erbe, e tornava a fiutare. Una volta la bambina si sentì quel fiato grosso proprio su la faccia, e le si gelò il sangue per la paura. - Anellino, aiutami tu! · - La sento e non la trovo! È andata via; ha lasciato qui l'odore soltanto. E il calpestìo si allontanò tra le macchie e gli alberi folti. Fatto giorno, la bambina si rimise in cammino. - Ho fame, anellino; aiutami tu! Guarda davanti a sé e scorge su l'erba una fetta di pane e un po' di cacio. Mangia, beve a una fonte e seguita a camminare. Cammina, cammina, cammina, escì finalmente fuori dal bosco e si sentì allargare il cuore. La campagna era tutta verde; fiori di qua, fiori di là al due lati della strada, e in fondo una villa in cima a una collinetta, che pareva un giardino. Fatti pochi passi, vede sopra un albero un grand'uccello con le piume di mille colori. - Uccello, è questa la strada che mena lassù? - Sì, è questa. Là finisce ogni dolore,- Che vuol dire? - Va' e vedrai. Più avanti incontra una scimmia che saltava da un albero all'altro. Un po' impaurita, domandò: - È questa la strada che mena lassù? Sì, è questa. Là finisce ogni dolore,- Che vuol dire? - Va' e vedrai. Davanti il cancello della villa, trovò una bella signora vestita di seta e d'oro con collane, braccialetti, anelli d'oro e di diamanti: un bagliore. - Ben venuta, bambina! T'aspettavo. - Mi conoscete? - Ti conosco, E nel baciarla, la tastava tutta. - Che carni fresche! Che bel boccone! Vieni, vieni: questa è casa tua. E si leccava le labbra con la lingua. La bambina entrò in sospetto: - Perché dice: Che bel boccone? Anellino, aiutami tu! E che si vide dinanzi? Invece della bella signora una brutta megera, con naso ricurvo che toccava il mento e per capelli tanti serpenti che si agitavano aggrovigliandosi, battendole sulle spalle, avvolgendosele attorno al collo. Serpenti per braccialetti, serpentelli alle dita a mo' d'anelli: e non più la veste di seta e ricami d'oro, ma di strane pelli di bestie selvagge. Intanto ella si trovava già dentro, e colei aveva subito chiuso l'uscio a chiavistello. Era una Mammadraga, che si nutriva di bambini. Figuriamoci che cuore fece la poverina a quella vista! - Anellino, aiutami tu! - Uh! Uh! Che buon odore! La Mammadraga la fiutava tutta, ma non poteva toccarla per via dell'anellino e dalla rabbia si mordeva le labbra. - Che ci hai addosso? Fammi vedere. Perché nascondi le mani? La bambina, tremante, le mostrò le mani. - Oh, che brutto anello! È di rame. Te ne darò uno d'oro. - Questo mi piace e mi basta. La Mammadraga le voltò le spalle e la lasciò sola. Di fuori, il palazzo della Mammadraga era bellissimo; dentro però una spelonca, con le pareti e le vòlte tutte affumicate, e un puzzo di carne bruciacchiata che ammorbava. E su per le seggiole gatti neri che facevano le fusa, e per terra rospi che saltellavano; e sui massi sporgenti, gufi appollaiati con gli occhioni luccicanti e il becco insanguinato. - Anellino, aiutami tu! La bambina, rabbrividita, si mise a girare per tutte quelle grotte affumicate, sperando di trovare una buca donde scappare. In fondo c'era un uscio, dietro cui si sentivano voci allegre di bambini che facevano chiasso. Picchiò e l'uscio s'aperse da sé. Ogni notte la Mammadraga andava a rubar bambini per farsi la provvista, e li teneva chiusi lì a fine d'ingrassarli e averli più saporiti quando doveva mangiarseli. I bambini che non sapevano nulla, facevano il chiasso. Ogni giorno ne arrivava uno, due, talvolta tre e ne mancava sempre uno. Appena videro la bambina, le furono attorno: - Come ti chiami? - Caterina. - Facciamo il chiasso! Fa' il chiasso con noi! - Ah, poveretti! La Mammadraga ci mangerà! I bambini si misero a strillare e si attaccarono ai panni di lei. - Quando viene qui la Mammadraga, teniamoci forte per le mani. L'anellino ci aiuterà. Infatti, a mezzogiorno, entrò la Mammadraga per scegliere il bambino da divorarsi a pranzo. - Bambino, vieni con me; ti porto dalla tua mamma. - Anellino, aiutaci tu! E, presi per mano, si strinsero tutti attorno a Caterina. La Mammadraga dalla rabbia si mordeva le labbra, si storceva le dita. - Scellerata, sei tu! Vuoi farmi morire di fame! Ma non poteva toccarla, per via dell'anellino. E andò via, con la spuma alla bocca, minacciando. L'anellino faceva miracoli. - Anellino, abbiamo fame, aiutaci tu! E avevano subito da mangiare. - Anellino, vogliamo dei balocchi! Aiutaci tu! E avevano subito dei balocchi. - Anellino, vogliamo dei dolci! Aiutaci tu! E avevano dolci d'ogni sorta. Ora che erano avvisati, appena entrava la Mammadraga, si prendevano per la mano e si afferravano ai panni della bambina. - Scellerata, sei tu! Vuoi farmi morire di fame! E la Mammadraga andava via, con la spuma alla bocca, minacciando. Scappare però non potevano. Una mattina, la Mammadraga tornò alla sua spelonca, seguita da una lupa e la mise di guardia all'uscio della grotta dov'erano chiusi i bambini. Era la matrigna di Caterina. La lupa la riconobbe, e disse alla Mammadraga: - Volete l'anellino? Lasciate fare a me! - Caterina, che ignorava quella trasformazione, veniva spesso davanti l'uscio a pregarla: - Lupa, lupetta, lasciaci scappare! - Che mi dài? - Una bella tana e pecore e polli per pasto. - Me li procuro da me. - Lupa, lupetta, lasciaci scappare! - Che mi dà!? - Quel che tu vuoi. - Quell'anellino. - Questo no. - Allora restate tutti a morire lì. Così passarono molti mesi. Una notte la bambina si mise a chiamare: - Vecchina mia, dove tu sei? - Eccomi. - La lupa vuole quest'anellino per lasciarci scappare. - Dalle quest'altro. Le spiegò come doveva fare e disparve. La mattina: - Lupa, lupetta, lasciaci scappare! - Che mi dà!? - Quel che tu vuoi. - Quell'anellino. Gli altri bambini s'erano già presi per la mano e si tenevano attaccati forte ai panni della compagna. - Tieni qui - disse Caterina. La lupa stese la zampa e la bambina le infilò l'altro anellino in un dito. E che accadde? Caterina diventò lupa lei, e tutti gli altri bambini tanti lupacchiotti, l'uno con la coda dell'altro fra i denti; il primo teneva fra i denti la coda di Caterina. La lupa invece ridivenne donna, e la bambina, lupa com'era, riconobbe in lei la matrigna. - Scellerata, che m'hai fatto! Ora la Mammadraga mi mangerà! E andò a rannicchiarsi nell'angolo più oscuro della grotta. Venne la Mammadraga: - Lupa, e questi lupacchiotti? - Sono miei figli; li ho partoriti stanotte. - E i bambini? - Se li è divorati quella lì. La Mammadraga si slanciò addosso alla donna e ne fece quattro bocconi. Intanto lupa e lupacchiotti stavano per scappar via. Si udi un urlo: - È carne avvelenata! Muoio! Muoio! Si voltarono e videro la Mammadraga che si rotolava per terra e dava gli ultimi tratti. - Anellino, aiutaci tu! Ridiventati bambini, si presero allegramente per le mani e fecero un ballo attorno la Mammadraga morta, saltando e cantando: - Qua finisce ogni dolore!Andarono a guardare nella grotta accanto, dov'erano ammonticchiate tutte le ossa dei bambini che la Mammadraga s'era spolpati e videro un brulichio di ossa che si ricercavano, si riunivano, si vestivano di carne, ridiventavano bambini vivi. Chi c'è morto torna in vita,- Andate via, io debbo restar qui - disse Caterina. - Quest'anellino vi condurrà fino a casa. Anellino aiutaci tu! E vi aiuterà. Si vide uscire dalla spelonca una fila di bambini presi per mano: pareva una processione che non finiva più. I primi erano lontani un miglio, e gli ultimi appena a pochi passi dalla spelonca. E, andavano via cantando: - Mammadraga l'è finita!Partiti loro, la bambina stette ad aspettare. La Fata le aveva detto quel che sarebbe avvenuto. A un tratto, gran rumore, quasi la spelonca crollasse. Invece la spelonca diventava un palazzo così magnifico, che lo stesso palazzo del Re era niente al paragone. Venne l'uccello dalle piume di mille colori. - Padrona, comandate. Ora la padrona siete voi. Venne la scimmia, saltellando, facendo mosse buffe: - Padrona, comandate. Ora la padrona siete voi. E Caterina veniva servita come una Reginotta. Passarono parecchi anni. Ella si era già fatta una bella ragazza; ma, sola sola, in quel palazzo cominciava ad annoiarsi. La Fata le aveva detto: - Devi attendere il Reuccio di Francia. Se non vien lui, non puoi uscire di qui. E attendeva, stando alla finestra, guardando lontano tutti i giorni, se mai il Reuccio arrivasse. Una mattina, ecco un uomo laggiù che prendeva la strada della collina: - Sarà il Reuccio. Indossò i più begli abiti, si ornò delle gioie più brillanti, e gli andò incontro in cima alla scala. Invece era un povero vecchio. Saliva gli scalini a stento, appoggiato a un bastone. - Chi siete? Dove andate? - Vo pel mondo in cerca della mia figliuola. L'ho perduta da tant'anni! Lei finse di non riconoscere suo padre, ma dalla contentezza, aveva le lagrime agli occhi. - Mangiate, bevete, e riposatevi. La vostra figliuola non è lontana di qui. - Come lo, sapete, signora mia? - Lo so. Il giorno dopo, il vecchio si apprestava a partire. - Non vo' chiudere quest'occhi, prima di ritrovare la mia figliuola. - È qui vicina. L'ho mandata a chiamare. Mangiate intanto, bevete; vi servo a tavola io stessa. Poteva mai immaginare che la sua figliuola avesse quel palazzo e fosse così straricca? Finalmente, una sera, ecco squilli di trombe e scalpitio di cavalli. Il Reuccio di Francia arrivava col séguito. Si trovava a caccia in quei dintorni, e visto il palazzo in cima alla collina, aveva pensato di chiedere ospitalità per quella notte. Il Reuccio era di malumore. Una zingara gli aveva predetto: - Sposerete la figlia d'un calzolaio! - Ti si secchi la lingua! E, per distrarsi del brutto presagio, andava a caccia tutti i giorni. Vedendo quella bella giovane, rimase sbalordito. - Principessa, vi saluto. - Non sono principessa, Reuccio. - Che cosa siete? - Quel che vuole il Reuccio. - La mia Reginotta, qua la mano. - Di là c'è mio padre; chiedete il suo consenso. Trovatosi a faccia a faccia con quel misero vecchio, il Reuccio si credette burlato. Pure, per curiosità, gli domandò: - Siete voi il padre di Caterina? - Sono io. - Io sono il Reuccio di Francia e voglio sposarla. - Reuccio, non sta bene farsi beffa d'un povero vecchio! Mia figlia è perduta e non so dove sia. La cerco invano da tant'anni. - Che commedia è questa! - esclamò il Reuccio, sdegnato. Entrò Caterina: - Dite, buon vecchio: dopo tant'anni come riconoscereste la figliuola? - Ha tre nèi sotto la nuca. - Come questi qui? E si chinò per farglieli vedere. - Ah! Figliuola mia! Figliuola mia! Si gettarono, piangendo, l'uno tra le braccia dell'altra. Il Reuccio, tutto contento, disse al vecchio: - Ora manca soltanto il vostro consenso. - E sposereste la figliuola d'un calzolaio? Il Reuccio stupì! La zingara aveva predetto il vero. La giovane però era così bella che non c'era Reginotta al mondo da starle a paro. Il calzolaio diventò Principe, e sua figlia Reginotta. Dormi, figlia Regina!Ed era arrivato davvero! Fiaba detta, fiaba scritta, C'era una volta un Re che aveva un vocione così grosso e forte, da poter essere udito benissimo fino a dieci miglia lontano. Quando parlava, pareva tuonasse; e per ciò gli avevano appiccicato il nomignolo di re Tuono. I Ministri e le persone di corte, dovendo praticare con lui tutti i giorni, diventavano sordi in poco tempo; ed era una disperazione. La povera gente che andava a chiedere giustizia ci rimetteva un polmone per farsi sentire, e spesso spesso non riusciva. Gli affari correvano a rotta di collo; la gente non ne poteva più. Ma, come dire al Re: - Maestà, siete voi che fate assordire i Ministri? Il Re credeva di parlare con lo stesso tono di voce di tutti gli altri; e quando i Ministri, diventati sordi, non udivano più neppure lui, ci s'arrabbiava, e li mandava via a calci, facendoli ruzzolare per le scale del palazzo reale. Nei primi giorni, coi nuovi Ministri le cose andavano benino. Parlando con loro però, il Re s'accorgeva ch'essi, di tanto in tanto, portavano le mani, agli orecchi per tapparseli. - Che è mai? - domandava. - Strillo forse come un maleducato, come un carrettiere? - No, Maestà - rispondevano impauriti. - Soffriamo di gattoni I nuovi Ministri soffrivano sempre di gattoni per iscusa. Il Re non si capacitava di questa malattia così comune a tutti i suoi nuovi Ministri. E, alla fine, aveva pensato di rimediare, dandoli anticipatamente in cura ai medici di palazzo. I medici li martoriavano di cataplasmi, ventose, salassi e altri malanni; e coloro, per l'ambizione di salire alto e avere le mani in pasta, sopportavano zitti ogni tormento. Il Re andava a visitarli, e alzando la voce pel dubbio che quella malattia degli orecchi non li facesse sentire bene, domandava: - Come state? Come state? Figuratevi che tuoni, con quell'alzata di voce! Il palazzo reale ne tremava. - Bene, Maestà! Benissimo, Maestà! E stavano bene davvero, perché erano già mezz'assorditi. Il Re intanto credeva che gli affari del suo regno procedessero proprio a meraviglia. Nessuno gli chiedeva mai un'udienza; nessuno veniva mai a fargli un reclamo. Sfido io! Ognuno aveva paura, e preferiva ogni altro guaio a quello di restar sordo per tutta la vita. Un giorno si presentò al palazzo reale un contadino: - Voglio parlare al Re. Il Re, stupito di questa novità, ordinò subito: - Fatelo entrare. Squadrando quel vecchietto mal vestito, che faceva cosa tanto insolita, il Re s'accorse ch'egli aveva due tappi di sughero negli orecchi. - Che significano quei tappi? - Maestà, ho i gattoni. O che tutti i suoi sudditi pativano di gattoni? Insospettito, disse: - Non me la dài a bere, contadinaccio! Che significano quei tappi? Parla, o ti fo, mozzare la testa. Tra il diventar sordo e l'aver mozzata la testa, il contadino scelse il meno male. - Grazia, Maestà, se volete che dica il vero. - Grazia ti sia concessa. E colui gli disse quel che nessuno aveva osato mal dirgli: - Maestà, col vostro vocione fate assordire la gente. Dapprima il Re montò in furore; non voleva credergli. In che modo egli non s'accorgeva dei proprio vocione? Ma il contadino soggiunse: - Tant'è vero, che Vostra Maestà vien chiamato re Tuono. Il Re fu afflittissimo di questa scoperta. Tentò di frenar la voce, di sussurrare più che pronunciare le parole; ma era inutile. Anche parlando a quel modo, il suo vocione era tale, che chi stava a sentirlo ne restava intronato. E per punire i Ministri che non avevano avuto il coraggio di palesargli la verità, li fece legare come polli e li mandò in prigione. Il contadino, invece, fu da lui creato unico Ministro, e gli permise di tenere i tappi di sughero agli orecchi. Il povero Re, addolorato di quel suo difettaccio, non usciva più dal palazzo reale, dava ordini soltanto coi gesti. Ma, era vita quella? Poteva durare? Fra le altre cose, egli voleva prendere moglie per avere l'ereditario della corona; ed ora si spiegava facilmente tutte le ripulse ricevute dalle tante principesse da lui richieste. Le principesse non volevano assordire, e per sfuggire questo pericolo rinunziavano al benefizio di diventare Regine. Il contadino Ministro disse un giorno: - Maestà, perché non consultate un Mago? Io sospetto che il vostro vocione non provenga da qualche malefizio che voi avete addosso. Il Re decise di fare un bando. E volendo andare per la più corta, giacché il suo vocione poteva essere udito da dieci miglia lontano, salì sul tetto del palazzo reale e fece il bando da se stesso, ingrossando la voce più che poteva: - Chi saprà guarirmi dal vociooone, avrà tant'oro quanto peeesa! E andò in giro per tutto il regno, salendo in cima alle montagne, gridando da quelle alture: - Chi saprà guarirmi dal vociooone, avrà tant'oro quanto peeesa! In pochi giorni non ci fu angolo del regno dove il bando non fosse conosciuto. E quei tuoni della voce del Re erano stati così forti, che per un paio di settimane piovve a dirotto, quasi avesse tonato davvero. Intanto i mesi passavano, uno dietro all'altro, e nessun Mago si presentava. Il povero re Tuono cominciava già a disperare, quando una mattina vennero ad annunziargli l'arrivo di un famoso Mago, venuto da lontani paesi; diceva di conoscere il segreto della malattia del Re e la ricetta per guarirlo. Alla vista di quel Mago, così grasso e grosso che pareva una botte, il Re si grattò il capo, pensando: - Ce ne vorrà dell'oro per costui! Ma si strinse nelle spalle, pronto a qualunque sacrifizio. Avrebbe dato fin la camicia che aveva indosso, pur di guarire. - Maestà - disse il Mago. - Il vostro male proviene da un capello incantato. Il Re si rallegrò interamente. Gua'! Si sarebbe fatto radere la testa e sarebbe finita. Il Mago doveva contentarsi d'una bella mancia; ora che s'era lasciato scappar di bocca il suo segreto. - Solamente, - riprese colui - bisogna trovare e strappare quel capello a prima vista. Sbagliato una volta, non si rimedia più. E l'unica persona al mondo che può fare il prodigio è la principessa Senza-lingua. - O dove scovare cotesta principessa? - In Oga Magoga. La chiamano così perché le manca la lingua. Un anno, un mese e un giorno e la vedrete qui, se Vostra Maestà, mantenendo la promessa, mi dà tant'oro quanto peso. - Prima di fare l'esperienza? - Prima, Maestà. Condurrò con me, da ambasciatore, il vostro Ministro. Per un momento il Re esitò: - Se quel furbo lo canzonava? Dove riacchiapparlo? Il Ministro poteva intendersela con costui... In ogni caso, - rifletté - mi rifarò co' miei sudditi. Gli piangeva il cuore, guardando la montagna d'oro che ci volle per agguagliare il peso di quella botte: - Pur di guarire! E diede il buon viaggio al Mago e al Ministro. Passati appena sei mesi, eccoti un giorno il Ministro solo solo; il Mago era sparito, e della principessa Senza-lingua né nova né novella. S'era messa in viaggio, dicevano, per farsi fare una lingua artificiale non si sapeva da chi; e nessuno, da un anno, ne aveva avuto più notizia. - Cercate e troverete. Il destino dei Re vuole così! Erano parole del Mago. - Facciamo un altro bando! - esclamò il Re molto seccato. E volendo andare per la più corta, salì di nuovo sul tetto del palazzo reale, e fece il bando da se stesso, ingrossando la Voce più che poteva: - Chi trova la principessa Senza-liiingua, avrà tant'oro quanto peeesa! E andò in giro per tutto il regno, e poi fuori del regno, in diverse parti del mondo, salendo in cima alle montagne e gridando da quelle alture: - Chi trova la principessa Senza-liiingua, avrà tant'oro quanto peeesa! E i tuoni della voce del Re furono così forti, che piovve dirotto dovunque, quasi avesse tuonato davvero. I mesi passavano, uno dietro all'altro, ma neppure una mosca recava notizia della principessa. Re Tuono cominciò a perdere la pazienza. Ora, invece di affliggersi e star zitto, urlava, sbraitava. Parte dei suoi sudditi era già assordita, parte stava per assordire, e tra questi che ci sentivano male e gli altri che non ci sentivano più accadevano scene buffe che, spesso spesso, finivano a legnate e peggio. Il regno pareva in tumulto. Le guardie accorrevano di qua e di là; ma, essendo più sorde di tutti, ora davano ragione a chi aveva torto, ora torto a chi non c'entrava per niente, e accrescevano la babilonia in luogo di dissipare i malintesi. Aveva voglia, re Tuono, di gridare alle guardie: - Fate giustizia! Fate giustizia! Più lui,gridava e più assordivano. Il regno sembrava un paese di matti. Un bel giorno, davanti il palazzo reale comparve un ciarlatano che strillava: - Pasticche per la voce! Pasticche per la voce! Chi l'ha la perde; e chi non l'ha non l'acquista! Pasticche! Pasticche! Re Tuono, trattandosi di voce, la prese per un'offesa alla sua reale maestà; e diè ordine di arrestare quell'impertinente e condurglielo dinanzi. - Che intendi dire con cotesto tuo: « Chi l'ha, la perde e chi non l'ha non l'acquista? ». - La verità, Sacra Corona. Provi e vedrà. Il Re lo guardava fisso. Dal vestito, colui pareva un uomo; ma le fattezze del volto erano così belle e gentili, che si sarebbe detto una donna, se non avesse avuto i capelli corti. - Chi sei? Come ti chiami? - Mi chiamano il Senza-lingua. Ma Sua Maestà vede bene che il nome è sbagliato; la ho e un po' lunghetta, anzi... Il mio mestiere richiede così. E in prova, senza badare che si trovava nel palazzo reale e alla presenza del Re, riprese a strillare scherzosamente, come in piazza: - Pasticche per la voce! Pasticche per la voce! Chi l'ha, la perde; e chi non l'ha non l'acquista! Pasticche! Pasticche! Il Re, diventato di buon umore, si mise a ridere. - Da qua; voglio provare. Ne prese una e la mise in bocca. O che fu? Un tocca e sana? Il vocione del Re aveva calato di metà. Va' a trattenere re Tuono! Si buttò sulle pasticche come un galletto al becchime; e mangia, mangia, mangia... le inghiottiva mal masticate, col pericolo di strozzarsi... mangia, mangia, mangia... le finì tutte in pochi istanti. Parlò, e il suo vocione parve sparito sottoterra. Re Tuono non era più re Tuono, con quella vocina così fievole che si poteva udire a mala pena. Per caprine le parole, bisognava accostargli l'orecchio alle labbra, e farvi coppo attorno con le mani. - Meglio così! Dalla contentezza, il Re ordinò che si facessero grandi feste per tutto il regno, con giuochi, cuccagne e fontane di vino schietto. - Che cosa vuoi? - disse a quell'uomo. - Chiedi e avrai. - Colazione, pranzo e cena tutti i giorni, e nel palazzo reale una stanza dove non deve entrare neppure il Re. - Così poco? Ti sia concesso! Avendo ora la vocina flebile flebile, il Re s'infastidiva di sentir parlare fin con la voce ordinaria. - Perché urlate? - rimproverava a tutti - Non sono mica sordo! Star due minuti ad ascoltarlo era proprio uno sfinimento; ognuno si sentiva mancare il fiato. Col praticare con lui e col doversi sforzare a parlar piano, in breve tempo, tutto il personale di palazzo, dai Ministro allo sguattero, si ridusse effettivamente senza voce. E mentre, dopo la guarigione del Re, gli orecchi guastati dal suo vocione andavano guarendo senza bisogno di medicamenti, le voci, e per riguardo del Re, e per adulazione e poi per capriccio di moda, cominciarono ad abbassarsi, ad abbassarsi; e quello che poco prima era un paese di sordi, ora poteva dirsi proprio il paese degli sfiatati. Soltanto l'uomo delle pasticche, che mangiava a Ufo e abitava nel palazzo reale, soltanto lui udiva il Re senza bisogno di accostargli l'orecchio alle labbra né farvi coppo con le mani, e poteva parlare con lui senza abbassare il tono della voce. Come andava questa faccenda? Sua Maestà non gli aveva detto mai, come agli altri: « Perché urlate? Non sono mica sordo! ». Eppure colui gli parlava sempre con la voce naturale ch'era un po' strillante. Aveva dunque la lingua fatta diversa dagli altri? La curiosità della gente si accrebbe il giorno che il venditor di pasticche andò in furia, perché uno gli aveva detto per chiasso: - Mostrami la tua lingua! Vo' vedere com'è fatta. Non c'era niente di male in queste parole; ma colui, infuriato, pestando i piedi e piangendo, era andato a chiudersi nella sua camera del palazzo reale e non voleva uscirne più, perché nessuno potesse più dirgli: - Mostrami quella tua lingua! Vo' vedere com'è fatta. Il Ministro venne a parlargli in nome del Re: - Perché ti arrabbi? Vogliono vedere la tua lingua? E tu mostragliela, sciocco! Così! E fece l'atto. L'altro, sbadatamente, lo imitò; ed ecco la lingua scappargli di bocca, cadere per terra e farsi in mille pezzi quasi fosse stata di terracotta. Il Ministro rimase! Poi si diè un gran colpo alla fronte, e corse subito dal Re: - Maestà, Maestà, la principessa Senza-lingua! Oggi si compiono precisamente l'anno, il mese e il giorno. Il palazzo reale fu a un tratto sossopra. La gente affollata dietro l'uscio voleva entrare in quella camera e vedere la Principessa Senza-lingua. Invano il Re diceva: - Non può entrarvi nessuno, neppur io; ho dato la mia parola. Chi lo sentiva? Lo vedevano gesticolare con le braccia e muovere le labbra, quasi fingesse di parlare. Il Ministro accostò l'orecchio alla bocca del Re, facendo coppo con le mani; ma il Re, infuriato, con uno spintone lo sbatacchiò addosso alla folla. Per fortuna, in quel punto l'uscio della camera s'aperse, e tutti stupirono alla vista del gran mucchio d'oro sovra cui stava comodamente sdraiata una bellissima giovane, vestita di broccato, ornata di perle e diamanti, con le bionde trecce sciolte su per le spalle, la faccia appoggiata a una mano, e un gran ventaglio nell'altra. Si faceva vento tranquillamente. Il mucchio d'oro era proprio lo stesso regalato dal Re al Mago, grosso quanto una botte. Il Re, in un baleno, si gettò ai piedi della principessa e gli posò la fronte su le ginocchia. Ella lasciò il ventaglio, stese la mano, gli ficcò un dito tra i capelli e diè uno strappo. Il capello incantato fece una fiammata e le svaporò fra le dita. - Grazie, principessa Senza-lingua! Grazie, mia Regina! - disse il Re col più bel suono di voce, che nessuno avesse mai udito. - Grazie, re Tuono, mio signore e mio Re! Insieme con l'incanto dell'uno era sparito l'incanto dell'altra. La principessa aveva acquistata la lingua, come le aveva predetto il Mago, adattandole quella artificiale cadutale poco prima per terra. - Il vostro destino voleva così! - disse il Ministro. - Dovevate essere sposi. E ora posso andarmene. - Perché mai? Perché? Il Re non finì di dire queste parole, che il Ministro, diventato un nanino vispo vispo, si ficcò, come un topolino, tra il mucchio dell'oro e sparì. Era un servitore delle Fate. Contenti come Pasque, il Re e la Principessa si sposarono, con feste e divertimenti d'ogni sorta. Il Re perdonò ai Ministri, li fece scarcerare e li rimise in carica. Non correvano più pericolo d'assordire. - Faranno sempre i sordi! Vedrete - prognosticò la gente. E il prognostico non fallì. Maturo è il frutto, secca la foglia; C'era una volta due sorelle rimaste orfane sin dall'infanzia: la maggiore bella quanto il Sole, diritta come un fuso, con una gran chioma che pareva d'oro; la minore così così, né bella né brutta, piccina, magrolina e zoppina da un piede. Per la sorella, non aveva nome: era semplicemente la zoppina. La vecchia nonna, da cui erano state raccolte in casa, non avrebbe voluto che costei la chiamasse sempre con quel nomignolo: - Che colpa n'ha, la poverina? È mancanza di carità rammentarle il suo difetto. - O se è vero ch'ella è zoppina! Non me lo invento io. E la cattiva rideva, per giunta. Si fosse pure contentata di maltrattarla con quel nomignolo soltanto! Non sarebbe stato niente, perché la zoppina non se ne faceva, come se non dicesse a lei. Il peggio era che la maltrattava anche coi fatti, quasi non fosse stata dello stesso suo sangue, ma una serva. - Zoppina, fa' questo... Zoppina, fa' quello!... Zoppina, vien qua! Zoppina, va' là. Non le dava requie un momento; ed ella intanto se ne stava in panciolle per non sciuparsi le belle manine, o pure allo specchio o alla finestra, quantunque la nonna spesso la sgridasse: - Chi aspetti lì, a quella finestra? - Aspetto il Reuccio Né lo diceva per chiasso. Si era messa in testa che il Reuccio, passando per la strada, dovesse restare incantato dalle bellezze di là e farla Reginotta. E la mattina, quando il Reuccio andava a caccia, seguito da tanti cavalieri, se lo divorava con gli occhi, e si sporgeva fuori dalla finestra, facendosi quasi sventolare la sua gran chioma d'oro per attirarne gli sguardi. II Reuccio non le badava, non si voltava; passava trottando, con gran dispetto di lei. Ella però non si dava per vinta. - Guarderà domani. Se mi guarda, è fatta: sarò Reginotta. E sfogava la sua rabbia contro la sorella. Arrivava fino a picchiarla, se le pareva di non esser servita a puntino, specialmente nei giorni che il Reuccio passava di corsa, proprio quando ella credeva di essersi fatta più bella, lavata, pettinata, e con la biancheria di bucato. Un giorno, che s'era alzata dal letto di malumore più del solito, aveva gridato sgarbatamente: - Zoppina, va' a comprarmi il latte: e sia fresco, zoppina! La povera zoppina era scesa in istrada, e, ciampicando, s'avviava verso la bottega del lattaio, quando, dalla svolta della cantonata, ecco sbucare il Reuccio e il séguito a cavallo, di carriera. Ebbe tanta paura, che inciampò, e cadde. Al grido di lei, il Reuccio poté frenare a tempo il suo cavallo e salvarle la vita. Scese subito di sella, l'aiutò a rizzarsi in piedi, le domandò premurosamente se s'era fatta male, e vedendo che zoppicava, credette che fosse per effetto della caduta. Allora le porse il braccio, l'accompagnò dal lattaio e poi la ricondusse fino alla porta di casa. La sorella maggiore già s'affrettava a scender le scale per non lasciarsi sfuggire quell'occasione di farsi vedere dal Reuccio; già borbottava le belle parole di ringraziamento da dirgli, e già pensava al graziosissimo inchino da fargli; ma quand'ella arrivò giù, il Reuccio era rimontato a cavallo, e spariva in fondo alla strada. Figuriamoci che stizza! Quel giorno parve ch'ella avesse un diavolo per capello: niente la contentò, niente le andò a verso: - Zoppina! Zoppinaccia! Brutta zoppaccia! La poverina si mise a piangere. - Fa' la volontà di Dio - le disse la nonna. - Dio ti aiuterà. La nonna, ch'era molto vecchia, si ridusse in fin di vita. Prima di morire, si rivolse alla sorella maggiore: - Ti raccomando quella poverina. Ora che non ci sarò più io, non esser con lei sempre cattiva come pel passato. È buona, affettuosa; non si merita punto i maltrattamenti che tu le fai. E non la chiamare più zoppina! - O se è vero ch'ella è zoppina - fu la risposta di lei. - Non me lo invento io. - Senti: verrà un giorno che vorresti esser tu la zoppina! E la vecchia morì. Rimaste sole, la sorella maggiore si tenne per padrona addirittura. Se la nonna le avesse raccomandato di far peggio di prima, quella cattiva ragazza non avrebbe potuto far peggio. La povera zoppina piangeva giorno e notte. Colei sfoggiava abiti di seta, collane, e anelli, e orecchini di brillanti: la zoppina, doveva indossare un vestituccio di stoffa scadente, scuro, sbricio sbricio, quasi da monachina. E tutti i giorni: - Zoppina! Zoppinaccia! Zoppina del diavolo! La poverina faceva la volontà, di Dio, come le aveva detto la nonna; ma la notte, nella sua misera cameretta, si metteva a piangere, zitta zitta; e pregava: - Nonnina mia, nonnina mia, pensateci voi per me! Una mattina, nel far le scale per andare a comprare il latte, scòrse su uno scalino qualcosa che non distingueva bene che fosse. Si chinò, lo raccolse, e vide ch'era un fiorellino tutto scalpicciato e sgualcito; un fiorellino rosso, che mandava un odore di paradiso. Lo ripulì, gli riaggiustò le foglioline e se lo mise in petto. Tornata a casa, lo ripose in un vasetto con l'acqua, su un tavolino della sua camera, e di tanto in tanto andava a osservarlo. In quel vasetto con l'acqua, il fiorellino parve risuscitato, e riempiva la camera del suo profumo. Quando la sorella la sgridava: - Zoppina! Zoppinaccia... Zoppaccia del diavolo! - ella, senza sapere perché, andava a guardare il fiorellino, e si sentiva consolata. Verso mezzanotte, entrata in letto, la poverina s'era messa a piangere: - Nonnina mia, nonnina mia, pensateci voi per me! E sentì una voce flebile flebile, dolce dolce, che diceva: - Ci penserò io! Ci penserò io! Ebbe paura e accese il lume. Nella camera non c'era nessuno: né quella era la voce della sua nonna. - Mi sarà parso! Spense il lume e si addormentò. Così più notti di seguito; ella però oramai più non provava paura a quella voce flebile flebile, dolce dolce, che pareva venisse da lontano. Anzi, una notte, fattosi animo, osò domandare: - In nome del Signore, chi sei?... Sei tu la mia nonnina? Passato un, mese, il fiore era sempre così vegeto e così fresco nel vasetto, dov'ella rimutava l'acqua due volte al giorno, da potersi credere spiccato allora allora dalla pianta. La zoppina n'era meravigliata, e cominciò a sospettare che esso fosse incantato, e che fosse sua quella voce da lei udita ogni notte. Perciò la notte appresso, appena sentì dire: - Ci penserò io - subito gli domandò: - In nome del Signore, tu chi sei? Ma non ebbe risposta. La mattina si sveglia, cerca tastoni la veste, e al tatto si accorge che la stoffa era un'altra. Apre gli scuretti della finestra, e che vede? Su la seggiola a piè del letto, vede steso un vestito nuovo, così bello, così ricco, ch'ella rimase un pezzetto a guardarlo a bocca aperta, senza osare neppur di toccarlo. Indossò un vestito smesso, con le maniche sdrucite ai gomiti, e quello lo nascose nell'armadio per via della sorella. Il giorno dipoi si sveglia, cerca tastoni la veste, e al tatto si accorge che la stoffa era un'altra. Apre gli scuretti della finestra, e che vede? Su la seggiola, a piè del letto, vede steso un secondo vestito nuovo, più bello e più ricco di quell'altro riposto, un vestito da Regina. Frugò nel cassettone, trovò un vestituccio smesso ma più sdrucito e più stinto del primo, e lo indossò; nascose quell'altro nell'armadio, per via della sorella. La sorella che non le aveva badato il giorno avanti, vedendola così cenciosa, cominciò a sgridarla: - Zoppina sudiciona! E dell'altro vestito che n'hai fatto? - L'ho dato a lavare. Si contentò della risposta e si mise alla finestra. Da qualche tempo aveva notato che il Reuccio, passando, alzava gli occhi verso la facciata della casa loro, come sé cercasse qualche persona che non c'era: scorreva con lo sguardo tutte le finestre, e abbassava gli occhi scontento. - Ma, forse deve fingere di non vedermi, per timore del Re suo padre! - ella pensava. E insuperbiva più che mai. Quel giorno, il Reuccio, passando, alzò secondo il solito, gli occhi alle finestre, come se cercasse qualche persona che non c'era, e, abbassatili scontento, spronò il cavallo e tirò via. Quel giorno ella fu così cattiva con la zoppina, che la poveretta piangendo si mise a gridare: - Ah nonnina, nonnina, vi siete scordata di me! E la sorella, inviperita: - Te la do io la nonnina! E picchia. .... - Te la do io la nonnina! E picchia. Le lasciò le lividure. La notte, la zoppina: - Nonnina mia, nonnina mia, pensateci voi per me. - Ci penserò io! Ci penserò io! Svegliatasi, cerca tastoni la veste, e al tatto si accorge che la stoffa era un'altra. Apre gli scuretti della finestra, e che vede? Su la seggiola, a piè del letto, vede steso un terzo vestito nuovo tutto ricamato d'oro, tempestato di pietre preziose: neppur la Regina doveva averne uno pari. Questa volta era inutile frugare nel cassettone; ella sapeva benissimo che non aveva altri abiti smessi. - Come fare, per via della sorella? Non sapeva risolversi ad indossare uno di quelli: intanto la sorella, di là, gridava: - Zoppina! Zoppinaccia! Non senti dunque, zoppina del diavolo! E le si rovesciò in camera, furibonda. Visto quell'abito da Regina, rimase di sasso. - Di chi è? - Non lo so. - Chi te l'ha dato? - Non lo so. - E tu perché in sottana? - Non ho più vestiti da indossare: me l'han portati via. - Zoppaccia, non me la dài ad intendere. Per acchetare la sorella, la poverina, mezzo sbalordita, le raccontò tutto: del fiorellino, della voce udita di notte, degli altri vestiti trovati su la seggiola: e glieli fece vedere. Colei non voleva crederle. - Zoppaccia, non me la dài ad intendere. Prese i vestiti e il vasetto col fiore e li portò in camera sua. La zoppina dovette indossare un abito vecchio della sorella. Ci nuotava dentro e pareva più buffa che non era. - Vo' provar io! - disse la sorella maggiore. E la notte appresso, spento il lume, cominciò a dire: - Nonnina mia, nonnina mia, pensateci voi per me! - Ci penserò io! Ci penserò io! Rimase stupita. - Dunque la zoppina non aveva mentito! E la mattina, svegliatasi, cercò tastoni la veste; al tasto s'accorse che la stoffa non era quella. Aperse gli scuretti della finestra, e che vide? Su una seggiola, a piè del letto, vide steso un vestito vecchio, di canavaccio, tutto sbrendoli e frittelle. E nell'armadio, dov'ella aveva riposti i tre bei vestiti, ne mancava uno, il migliore. - Ah, zoppaccia del diavolo! Sei stata tu! E picchia e ripicchia! Le lasciò le lividure. Però volle ritentare: - Nonnina mia, nonnina mia, pensateci voi per me! - Ci penserò io! Ci penserò io! Smaniava che si facesse giorno, per vedere se le accadeva come la mattina avanti. Le accadde peggio. Su la seggiola a piè del letto trovò steso un vestito fatto di scorze di albero imputridite. E dall'armadio ne mancava un altro di quelli ripostivi, il migliore. - Ah, zoppaccia del diavolo! Sei stata tu! Sei stata tu! E picchia e ripicchia! Le lasciò le lividure, Caparbia, volle ritentare; ma la mattina seguente, non solo non trovò nulla né sulla seggiola né nell'armadio, ma fin il fiorellino rosso era sparito dal vasetto, lasciando nella camera un puzzo che ammorbava. - Ah, zoppaccia del diavolo! Sei stata tu! E picchia e ripicchia! Le lasciò le lividure. Il giorno dopo si sparse la notizia ch'era stato scoperto un furto nella guardaroba della Regina: mancavano tre abiti di gala, abiti di un valore inestimabile; tutta la corte era sossopra; il Re e la Regina su le furie; i Ministri spaventati della collera reale perdevano la testa. Il Re li aveva radunati a consiglio. - Se fra tre giorni non mi trovate il ladro, vi faccio impiccare tutti in fila! Eran passati due giorni, e i poveri Ministri si tastavano il collo. Del ladro, nessuna notizia. E il Re: - Domani all'alba, vi farò impiccare tutti in fila! I Ministri pensarono di mettere una sentinella a ogni porta e far perquisire tutte le case. Le guardie rovistavano da per tutto, ma non trovavano niente. Andate in casa delle due sorelle, cerca, ricerca, fruga, rifruga non trovarono niente neppur lì. La sorella maggiore intanto, di nascosto dalle guardie, borbottava nell'orecchio della zoppina: - Zoppaccia ladra! Zoppaccia ladra! Che tradimento volevi farmi! La povera zoppina, atterrita di veder tanti brutti ceffi, non rispondeva nulla. E pregava dentro di sé: - Nonnina mia, aiutateci voi! Aiutateci voi! Pregava anche per quell'altra. Una guardia, più sospettosa dei compagni, tastata la materassa del letto della sorella maggiore, disse: - Scucite qui. Scuciono e fra la lana eccoti gli abiti regali di gala, proprio quelli trovati dalla zoppina su la seggiola in camera sua. - La ladra è lei! La ladra è lei! - urlava la sorella maggiore. Ma le guardie le acciuffarono tutte e due, e le condussero in carcere, La zoppina neppure piangeva; guardava attorno, stupefatta. L'altra pareva impazzita: - La ladra è lei! La ladra è lei! Nella prigione, le chiusero in due stanze separate. La zoppina, al buio, pregava a mani giunte: - Ah nonnina, nonnina, pensateci voi per me! - Ci penserò io! Ci penserò io! Si volse dalla parte d'onde la voce veniva e, nel buio, vide il fiorellino rosso che luccicava come un pezzettino di carbone acceso. A poco a poco quel luccichio crebbe, crebbe, illuminò tutta la stanza, e fra lo splendore comparve una bellissima donna che non toccava terra coi piedi, e pareva fatta tutta di luce, carni e vestiti. - Sono fata Fiore; mi chiamano così perché un mese son creatura vivente e un mese fiore: è il mio destino. Tu mi hai raccolto, mi hai ripulito, mi hai rimutata l'acqua due volte al giorno, mi hai salvato dal penare. Ora son qua io per te! E detto questo, scomparve. La mattina il Reuccio, nel punto di montar a cavallo, vide per terra un fiorellino rosso; uno degli scudieri stava per metterci il piede sopra. - Bada! Bada! Se lo fece raccogliere, e rimase incantato del gratissimo odore che il fiore mandava; un odore di paradiso. Subito gli venne in mente la zoppina, a cui aveva molto pensato dal giorno che la raccattò da terra come quel fiore: gli era parsa tanto buona, tanto gentile, quantunque non bella. Non l'aveva più riveduta; e non s'era mai saputo spiegare perché pensasse così spesso a lei avendola vista una sola volta. Si mise il fiore all'occhiello, e quando tornò a palazzo, lo ripose in un vasetto con l'acqua, in camera sua; lo chiamò il Fiore della zoppina. La notte, sul punto di addormentarsi, a un tratto ode: - Psi! Psi! Psi! Psi! Accese subito il lume, guardò attorno stupito; non c'era nessuno. Poco dopo, di nuovo: - Psi! Psi! Psi! Psi! - Chi sei? Che cosa vuoi? - Sono fata Fiore! Ascolta bene quel che ti dirò: ma non accendere il lume. E fata Fiore gli raccontò la dolorosa storia della zoppina. Verso la fine il Reuccio piangeva. Non attese che fosse giorno, e corse dal Re suo padre. Rifece il racconto della Fata e poi si gettò al piedi del Re: - Maestà, fatemi sposare questa zoppina! La Reginotta dev'esser lei. Il Re non disse di sì né di no. Ma quando gli parve l'ora, diede ordine: - Conducete qui le due ladre. Le guardie andarono prima alla prigione della sorella maggiore. Tutta arruffata e sconvolta non sembrava più lei; pareva una Strega. L'ammanettarono e la introdussero al cospetto del Re. Aperto l'uscio della prigione dov'era rinchiusa la zoppina, le guardie si arrestarono meravigliate su la soglia. La nera stanzaccia s'era trasformata in un magnifico giardino fiorito, e la zoppina, così bella da non riconoscersi, con indosso un abito sfarzosissimo, coglieva fiori e ne faceva tanti bei mazzi. - Questo pel Re, questo per la Regina, e questo pel Reuccio che sospira. Subito il Re e la corte andarono alla prigione per condur via la zoppina con tutti gli onori di Reginotta. La sorella maggiore, appena la vide, diede in ismanie e furori: - Ah! Zoppina ladra! Mi hai rubato anche il Reuccio! Possa tu morire di mala morte, zoppaccia ladra! Invece morì lei di mala morte; perché il Re non volle farle grazia, vedendola così cattiva fino all'ultimo contro la sua buona sorella, che implorava per essa il perdono reale. Diventata Reginotta, la zoppina che per virtù di fata Fiore non era più zoppina, a ricordo del suo passato, volle esser chiamata sempre a quel modo; anzi, quando compariva in pubblico, affettava con grazia di zoppicare un tantino. C'era una volta un vecchio tornitore che faceva trottole d'ogni forma e d'ogni grandezza. Quand'era la stagione delle trottole, i ragazzi si affollavano nella sua bottega: - Tornitore, mi fate una trottola? - Piccola o grande? Piatta o col cocuzzolo? Secondo che la volevano piccola o grande, piatta o col cocuzzolo, egli adattava subito un pezzetto di legno al suo tornio, e con un piede sul pedale e in mano lo scalpello, si metteva a lavorare lesto lesto, brontolando: - Trottolina, piatta piatta,Oppure: - Trottolone fatto a pera,E continuava a brontolare così, fino a che la trottola non era bell'e finita. Quel brontolìo era lo spasso dei ragazzi, che spesso gli facevano il verso: - Trottolina, piatta piatta,- Ecco qua. Due soldi, tre soldi. E i ragazzi andavano via contenti come pasque. Un giorno passò davanti a quella bottega il Reuccio, e si fermò a guardare. Il tornitore stava per terminare una bella trottola e brontolava, al suo solito, senza levar gli occhi dal lavoro. - Tornitore, fatemi una trottola anche per me. - Piccola o grande? Piatta o col cocuzzolo? - Piccina piccina. - Sarà servito. Vedrà che trottolina. Parlerà. E subito con un piede sul pedale e in mano lo scalpello, si mise a lavorare lesto lesto, brontolando: - Trottolina piccinina,Trattandosi del Reuccio, il tornitore andò egli stesso dal fabbro ferraio per far mettere alla trottolina un picciuolo di ferro ben limato e lisciato, e il giorno appresso la portò al palazzo reale: si attendeva un grosso regalo. La trottolina gli era riuscita una bellezza. Prima di andare a consegnarla, l'aveva provata. Girando, faceva un brisìo lieve lieve; non che parlare, pareva cantasse. Dicendo al Reuccio: La trottolina parlerà, il povero tornitore intendeva dire appunto di quel brusìo. Il Reuccio però non l'aveva capita così. E visto che la trottola non parlava, si mise a strillare, a pestare i piedi: - Voglio la trottolina che parla! Voglio la trottolina che parla! Accorsero il Re e la Regina. Il tornitore spiegando la cosa, tremava come una foglia. Intanto il Reuccio continuava a strillare, a pestare i piedi: - Voglio la trottolina che parla! Disse il Re al tornitore: - Tu hai promesso di fare al Reuccio una trottolina che parla, e bisogna che parli. Se domani non gli porti la trottolina parlante, guai a te! Il tornitore andò via più morto che vivo. - Ah! Poverino a me! Come fare una trottolina che parli davvero? Quella notte non chiuse occhio, piangendo e lamentandosi: Poverino a me! La mattina venne un servo del palazzo reale: - Sua Maestà vuole la trottolina che parla. A un tratto il tornitore ebbe un'idea; e tutto allegro andò dal Re: - Maestà, la trottolina l'ho fatta io; ma la lingua gliel'ha fatta il fabbro ferraio; se la trottolina non parla, è colpa sua. Il Re si capacitò. - Aspetta lì; mandiamo a chiamare il fabbro ferraio. E il fabbro ferraio venne: - Maestà, che comanda? - La trottolina del Reuccio dovrebbe parlare; il tornitore l'ha fatta e tu gli hai messo la lingua di ferro; gliel'hai messa male. Se domani non mi riporti la trottolina parlante, guai a te! Quel furbo rispose: - È vero, Maestà; io le ho messo la lingua, ma la bocca gliel'ha fatta lui; se la trottolina non parla, è colpa di chi non ha saputo farle bene la bocca. - Ah! Ve la mandate dall'uno all'altro?... O domani riporterete qui la trottolina parlante, o guai a voi. Andarono via tutti e due più morti che vivi. - Ah, poverini noi! Come fare una trottolina che parli davvero? - Andiamo da un Mago - disse il fabbro ferralo. - Chi sa? Potrà farcela lui. E andarono subito dal Mago. Giusto egli aveva per le mani una bambolinuccia che parlava. - Date qua la trottolina. V'incollò la bambola sopra, avvolse attorno al picciuolo il laccetto, e fece girare la trottola per prova. La trottola girava e la bambola parlava: - Buon giorno, Reuccio! Buona sera, Reuccio! Il Reuccio, com'ebbe quella trottolina, si mise a saltare dalla gioia. Il Re fece al tornitore e al fabbro ferraio un magnifico regalo, ed essi ne portarono una buona parte al Mago. - Tenete tutto per voi; io non voglio nulla. Il Reuccio passava le giornate facendo girare la trottola. E la trottola: - BuOn giorno, Reuccio! Buona sera, Reuccio! Alla bambola egli aveva messo nome Trottolina, e non voleva fare il chiasso altro che con lei. Crebbe, e intanto non cessava mai di giocare a trottola; il Re n'era seccato. - Non sei più un ragazzo. Ora devi prender moglie. - Sposerò Trottolina. Il Re montò sulle furie; prese la trottola e la sbatacchiò sul pavimento. La bambola schizzò da una parte e la trottolina, spaccata in due pezzi, dall'altra. - Ecco come sposerai Trottolina! Il Reuccio stette zitto e andò a chiudersi in camera sua. Non voleva più uscirne. Quand'era solo piangeva: - Ah, Trottolina mia! Non puoi dirmi più: Buon giorno, Reuccio! Buona sera Reuccio! Si ammalò. Aveva una febbre lenta, dimagrava dimagrava; e i medici non sapevano dire che male fosse. Il Re e la Regina erano disperati: si vedevano morire lentamente il Reuccio sotto gli occhi, senza potergli dare nessuno aiuto. Uno dei medici domandò: - Ha avuto qualche grave dispiacere il Reuccio? - No. Il Re e la Regina non potevano mica immaginare che il Reuccio morisse di languore per Trottolina. Ma il dottore insistette: - Reuccio, vi hanno dato qualche gran dispiacere? - Mi hanno rotto Trottolina. Allora il Re mandò a chiamare il tornitore e il fabbro ferraio: - Fatemi pel Reuccio un'altra trottola parlante. Maestà non sappiamo più farla. - O domani l'avrò qui, o guai a voi! Quei due andarono via più morti che vivi. - Ah, poverini a noi! Chi sa se il Mago cene farà un'altra? E corsero da lui. - Voi, tornitore, fate la trottola; voi, fabbro ferraio, appiccicatele il picciuolo di ferro ben limato e lisciato, e poi tornate da me. Il Reuccio così riebbe la trottolina parlante e si mise a farla girare. La trottola girava, e la bambola parlava: - Buon giorno, Reuccio! Buona sera, Reuccio! Ed ora aggiungeva: - Quando ci sposeremo, Reuccio? Quando ci sposeremo? Con meraviglia di tutti, trottola e bambola crescevano di giorno in giorno, quasi fossero vivi. Ma Trottolina parlava soltanto quando la trottola girava, Che potevano fare il Re e la Regina? Visto questo prodigio di Trottolina che cresceva, e purché il Reuccio non tornasse ad ammalarsi, acconsentirono che la sposasse. Tanto era un matrimonio per chiasso. Pei primi giorni passò. Il Reuccio faceva girare la trottola, e Trottolina parlava. La trottola girava per dei quarti d'ora, senza fermarsi; correva di qua e di là, e il Reuccio le correva dietro: - Fermati, Trottolina! Trottolina si fermava, ma allora non parlava più. Girando girando, sembrava proprio viva. Fermata, era una bambola di legno e niente altro. Gli venne a noia. La buttò in un angolo della camera e non la cercò più. La notte, sentiva un lamento: - Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata! Saltava da letto, credendo che Trottolina fosse già diventata persona viva: andava a guardarla; niente. Trottolina era tuttora di legno e stava appoggiata contro il muro in quell'angolo dove l'aveva buttata. Ogni notte però quel lamento: - Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata! Il Reuccio non poteva più dormire. Ordinò che gliela levassero di camera e la portassero in cantina. Non valse. Tutte le notti, dalla cantina sentiva fino in camera sua quel lamentio. - Non vuoi chetarti? Aspetta: ti concio io! Scese in cantina con un'accetta, per fare in pezzi trottola e Trottolina; ma alla vista di lei, che era così bella e graziosa, sentì intenerirsi il cuore. Era cresciuta tanto che pareva una bella ragazza di diciotto anni; e ora, per far girare la trottola ci voleva molta forza. Non si trattava più d'una trottolina, ma d'un trottolone, e invece d'un laccetto, occorreva proprio una fune. I genitori del Reuccio erano morti; il Re era lui. Mancava la Regina; e i Ministri gli dissero: - Maestà, il matrimonio con Trottolina non regge: sposate una donna vera. Il Re si lasciò persuadere e risolvette di sposare la Reginotta di Spagna. Il giorno delle nozze, la Reginotta di Spagna si sentì male tutt'a un tratto e in poco d'ora morì. Il Re se n'accorò. La notte, il solito lamentìo: - Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata! - Non sono più Reuccio. Aspetta: ti concio io! Scese in cantina, prese delle fascine, le messe torno torno alla trottola e a Trottolina e vi appiccò il fuoco. Una vampata; ma la trottola in fiamme cominciò a girare a girare, mettendo fuoco a ogni cosa. Saliva le scale, correva per tutte le stanze del palazzo reale, e dove passava attaccava il fuoco. In un attimo il palazzo fu in fiamme. La trottola girava e Trottolina parlava: - Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà! Il Re le correva dietro, tentando di spegnere le fiamme: - Fermati, Trottolina! Ma si bruciacchiava le mani inutilmente: Trottolina non si fermava; e sembrava lo canzonasse col suo: - Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà! Attorno al palazzo c'era una gran folla, accorsa per spegnere l'incendio. Chi attingeva acqua, chi portava le secchie, chi le vuotava; fatica sprecata: più acqua buttavano e più le fiamme prendevano forza; salivano fino al cielo. Dal gran fumo non ci si vedeva. E tutti piangevano il Re che doveva essere carbonizzato a quell'ora, insieme coi Ministri e le persone di corte. Quando fu giorno, invece che si vide? Nel luogo del palazzo reale c'era un magnifico giardino, e più in là un altro palazzo reale, al cui confronto quello bruciato sarebbe parso una bicocca. E pei viali del giardino il Re e Trottolina, diventata persona viva, di carne e d'ossa, che presi per mano passeggiavano come se nulla fosse stato. Trottolina diceva scherzando al Re: - Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà! Ma non girava più; non aveva più la trottola sotto i piedi. Ora che Trottolina non era di legno, il Re la sposò per davvero. E furono marito e moglie; C'era una volta un vecchio falegname, che aveva una botteguccia e pochi arnesi del suo mestiere: una sega, un succhiello, una pialla, uno scalpello, un martello, una tanaglia, il pancone e nient'altro. Lavorava di grosso, e ordinariamente gli davano ad acconciare cose vecchie; per questo gli avevano appiccicato il nomignolo di Mastro Acconcia-e-guasta. Guastava un uscio e rimediava una cassa, un tavolino, due sportelli, secondo la richiesta. La colla e i chiodi dovevano comprarli gli avventori. - Perché, mastro Acconcia-e-guasta? - Perché sì. I chiodi che avanzavano li rendeva, la colla no; la metteva da parte. - Perché, mastro Acconcia-e-guasta? - Perché sì. Era la sua risposta; e tirava su una presa di tabacco. Guadagnava pochino: intanto se la scialava meglio di un principe. Di dove li cavava tanti quattrini? La mattina andava al mercato per far la spesa: - Macellaio, quel filetto di bue quanto costa? - Non è per la vostra bocca, mastro Acconcia-e-guasta; è per la tavola del Re. - Ho la bocca come lui l Glielo dicevano a posta ogni volta per fargli rispondere così. E tutti ridevano: - Bravo, mastro Acconcia-e-guasta! - Pesciaiolo, quello storione quanto costa? - Non è per la vostra bocca, mastro Acconcia-e-guasta; è per la tavola del Re. - Ho la bocca come lui! E tutti ridevano: - Bravo mastro Acconcia-e-guasta! Comprava un monte di roba, carne, pesce, formaggio, salame, erbe, frutta, le meglio cose. - Chi se la mangia tutta cotesta roba, mastro Acconcia-e-guasta? - Io e i miei figliuoli. - O che avete dei figliuoli? - Sì: Seghina, Piallina, Scalpellino, Martellino, Tanaglina e Succhiellino che è il minore. E la gente rideva: - Buon appetito a tutti, mastro Acconcia-e-guasta! Tornato a bottega, riponeva in un canto la cesta con la roba, e si metteva a lavorare senza mai smettere fino a tardi, finché vi si vedeva. - E il desinare, mastro Acconcia-e-guasta? - Lo preparano, in cucina. A un'ora di notte, mastro Acconcia-e-guasta si chiudeva in bottega e metteva tanto di spranga alla porta. Ed ecco, acciottolìo di piatti, tintinnìo di bicchieri, rumore di argenteria e di coltelli smossi, quasi lì dentro apparecchiassero una gran tavola. E, poco dopo, risate, strilli, e mastro Acconcia-e-guasta che gridava: - Sta' buona, Seghina!... Attento, Scalpellino! Tu mi rompi quella bottiglia!... Bada, non conciarti, Tanaglinal... Sporcaccione di Martellino!... Piallina, Succhiellino, a posto le mani! I vicini, dietro la porta, stavano a sentire, stupiti. La mattina: - Gran pranzo, eh, mastro Acconcia-e-guasta? I figliuoli vi fanno disperare. - Eccoli lì, cheti cheti. E mostrava gli arnesi attaccati a una parete della botteguccia; ma la cesta era vuota, e di quel monte di roba da mangiare non restava briciolo, neppure le lische del pesce, o i nòccioli della frutta. I vicini non sapevano che almanaccare per scoprire il mistero di mastro Acconcia-e-guasta; e perdevano il tempo inutilmente. Di giorno vedevano un povero vecchio che si rompeva le braccia a lavorare fino a tardi in quel bugigattolo che pareva una tana. E tutta la roba da mangiare? E l'acciottolìo de' piatti, e le risa, e gli strilli? Invano avean tentato più volte di far un buco alla porta per guardare dentro. Il legno sembrava mezzo fradicio; non c'era però succhiello che potesse arrivare a penetrarlo. - Che legno è questo, mastro Acconcia-e-guasta! - Legno-ricotta. - Allora perché non ve lo mangiate? - La ricotta non mi piace. - Non ce la date a intendere, mastro Acconcia-e-guasta! Egli alzava le spalle e tirava su una presa di tabacco: - Lasciatemi in pace. La cosa giunse fino all'orecchio del Re: - Ah! dice: Ho la bocca come lui? E ordinò che a mastro Acconcia-e-guasta i venditori dessero la peggiore roba che avevano, pena la vita. Quella mattina, mastro Acconcia-e-guasta dovette rassegnarsi a portar via certa carnaccia che non l'avrebbero voluta neppure i cani; pesce guasto, formaggio inverminito, frutta mézza. - Siete contento, mastro Acconcia-e-guasta? - Se son contento io, non saran contenti gli altri. - Perché? - Perché sì. Il Re dava un pranzo al Ministri e al dignitari di corte. Portano in tavola, e Re, Ministri, dignitari arricciarono il naso. La carne puzzava come una carogna, il formaggio camminava da sé su pei piatti, tanto formicolava di vermi, la frutta ammorbava di fracidume. - Come mai? - urlò il Re. - Venga qui quel birbante del cuoco. Il povero cuoco giurò e spergiurò che aveva comprato roba buona; ci aveva i testimonii. In cucina, le pietanze spandevano un odore da resuscitare anche un morto. Re, ministri, dignitari dovettero acconciarsi con un po' di pan duro, bagnato nell'acqua; altrimenti sarebbero morti di fame. - Questo è un tiro di mastro Acconcia-e-guasta! - disse uno dei Ministri. - Vo' andare a vedere se è vero. Si travestì e via dal falegname, portando addosso una cassaccia vecchia, per pretesto. - Acconciatemi questa cassa, mastro Acconcia-e-guasta. - Posatela lì. Andate a comprare i chiodi e la colla. - Colla ce n'avete tanta! - Quella serve per me. - Che buon odore di vivande, mastro Acconcia-e-guasta! - Sono i resti del desinare; eccoli là. Il ministro si sentì venire l'acquolina in bocca a vedere un bel tòcco di filetto arrosto e mezzo pesce con la salsa che dicevano: Mangiami, mangiami! - 0 dove l'avete comprata questa buona roba? - Dove si vende, in mercato. - So che c'è ordine reale di non darvi roba buona. Mastro Acconcia-e-guasta alzò le spalle e tirò su una presa di tabacco. Il Ministro rapportò tutto al Re. Tennero consiglio. - Questo mastro Acconcia-e-guasta dev'essere un Mago! Leviamogli tutti gli arnesi; vediamo che farà. Andarono le guardie e gli sequestrarono pialla, succhiello, martello, sega, ogni cosa. Il Re li volle riposti in una stanza accanto alla sua camera, e per maggior cautela si legò alla cintura la chiave dell'uscio. Durante il giorno, gli arnesi stettero cheti; ma dopo l'un'ora di notte, in quella stanza si udì un rumore d'inferno: la sega segava, la pialla piallava, il martello martellava, il succhiello succhiellava, la tanaglia attanagliava; e, dopo un pezzetto, strilli e pianti. - Abbiamo fame! Abbiamo fame! Il Re corse ad aprire; gli arnesi stavano al loro posto per terra, dove li avevano buttati alla rinfusa. Appena richiuso l'uscio, rumore daccapo, strilli e pianti: - Abbiamo fame! Abbiamo fame! Per quella notte il Re non poté dormire neppure un minuto. La sera appresso fu peggio. Il Ministro disse: - Maestà, proviamo a dar loro da mangiare. La sega segava, la pialla piallava, il martello martellava, il succhiello succhiellava, la tanaglia attanagliava. - Chetatevi, in nome di Dio! Ecco qui da sfamarvi. E chiusero l'uscio. Ed ecco, acciottolìo di piatti, tintinnìo di bicchieri, rumore di argenteria e di coltelli smossi, quasi lì dentro stessero ad apparecchiare una gran tavola; e poi, risa e strilli: - Tu mi conci! Tu mi strappi! Tu mi inzuppi. Un portento. - Oh, mastro Acconcia-e-guasta dev'essere un Mago! Il Re spedì le guardie e se lo fece condurre davanti: - Che è questo, mastro Acconcia-e-guasta? I vostri arnesi parlano e mangiano; come mai? Colui si strinse nelle spalle, e tirò una presa di tabacco. - Se non svelate il mistero, vi faccio tagliare la testa. - Che mistero o non mistero, Maestà! Essi sono i miei figli. - E perché ridotti in quello stato? - Per aiutarmi a buscarci il pane. Il Re gli credette, e ordinò che gli restituissero ogni cosa. - Badate però di non dire più: Ho la bocca come lui! Ve ne pentirete. Mastro Acconcia-e-guasta riprese a lavorare. Ma gli avventori diventarono scarsi; la gente avea paura di aver che fare con lui. Invano egli andava attorno per le vie, gridando a ogni quattro passi: - C'è mastro Acconcia-e-guasta! Chi ha roba da guastare e da acconciare! Nessuno lo chiamava. - E ora come farete, mastro Acconcia-e-guasta? - Finché c'è colla, s'ingolla! Infatti di colla in bottega n'aveva una catasta. Di giorno in giorno però essa veniva mancando. Mangia oggi, mangia domani, colla non ce ne fu più. - E ora come farete, mastro Acconcia-e-guasta? Mastro Acconcia-e-guasta alzava le spalle e tirava su grandi prese di tabacco. Il Re aveva sei figliuoli, tre maschi e tre femmine, tutti belli e di ottima salute. Ma appunto in quei giorni si ammalarono tutti e sei, e il medico non capiva di che male. Languivano, senza appetito, senza poter tollerare il più leggiero cibo nello stomaco. Consulti dietro consulti, medicine, intrugli d'ogni sorta non giovavano a niente. La figliuola maggiore morì. Mentre la portavano a seppellire, ecco mastro Acconcia-e-guasta, con una cassettina da morto su la spalla che andava dietro l'accompagnamento: - Chi vi è morto, mastro Acconcia-e-guasta? - Mi è morta Seghina! Il giorno dopo morì uno dei maschi; e mentre lo portano a seppellire, ecco mastro Acconcia-e-guasta, con una cassettina da morto su la spalla, che andava dietro l'accompagnamento: - Chi vi è morto mastro Acconcia-e-guasta? - Mi è morto Martellino! Così, ogni giorno, ora moriva un figliuolo, ora una figliuola del Re, e mastro Acconcia-e-guasta appariva dietro l'accompagnamento con una cassettina da morto su la spalla: - Chi vi è morto, mastro Acconcia-e-guasta? - Mi è morto Scalpellino! Mi è morta Piallina! Il Ministro, che era furbo, saputo che mastro Acconcia-e-guasta era stato veduto ogni volta con una cassetta da morto su la spalla dietro l'accompagnamento dei figliuoli del Re, disse: - Maestà, se non volete morti tutti i vostri figliuoli, mandate a chiamare mastro Acconcia-e-guasta. La disgrazia vi viene da lui. Oramai restava in vita una sola figliuola del Re, ed era già all'agonia. - Ah, mastro Acconcia-e-guasta, salvate la mia cara figliuola! - Ah, Real Maestà, salvate il mio caro Succhiellino! - In che modo? - C'è un solo modo: farli sposare! Il Re, lì per lì, per amor della figliuola stimò giusto acconsentire: - Poi, gliela farò vedere io, a mastro Acconcia-e-guasta! - disse fra sé. La Principessa, che era diventata Reginotta perché più non c'erano altri figliuoli, in pochi giorni guarì. Il Re disse a mastro Acconcia-e-guasta: - Conducete Succhiellino a palazzo. - Badate, Maestà: di giorno sarà proprio un succhiello, la notte no. Per ora, la sua sorte è questa. - E dopo? - Dopo, quando Dio vorrà, sarà altrimenti. - Allora, del matrimonio non ne facciamo nulla per ora. - Come piace a Vostra Maestà. Di tratto in tratto, il Re domandava a mastro Acconcia-e-guasta: - È ancora succhiello il giorno e la notte no? Ancora, Maestà - Allora del matrimonio non ne facciamo nulla. - Come piace a Vostra Maestà. Gli anni passavano. Il Re era contento che il matrimonio della Reginotta con Succhiello andasse per le lunghe, e si divertiva a canzonare mastro Acconcia-e-guasta: - Questo è latte che non rappiglia! E voi che fate, mastro Acconcia-e-guasta? Ora non avete più arresi e vi rimane soltanto il succhiello. - Racconto fiabe a Succhiellino. Ieri glien'ho raccontata una bella assai. Volete sentirla, Maestà? - Sentiamola, mastro Acconcia-e-guasta! - C'era una volta un Re che aveva due figliuoli, uno buono e l'altro cattivo. Quello buono era il Reuccio e alla morte del padre doveva essere Re. La cosa non garbava al fratello cattivo. Il Re si turbò, e lo interruppe: - La vostra fiaba non mi piace. - State a sentire, Maestà: il bello comincia qui. Dunque, al cattivo non garbava e pensò di disfarsi del fratello buono, per diventare Re lui alla morte del padre. Disse al fratello: « Andiamo a caccia ». E andarono. Quando furono in un bosco, lontani dalle persone del séguito, cava fuori la spada e dà addosso al fratello che non si aspettava il tradimento. Il Re si turbò maggiormente, e lo interruppe: - No, no, la vostra fiaba non mi piace. - Ecco il più bello, Maestà; state a sentire. Egli credeva di averlo ammazzato, e lo lasciò lì per morto dopo averlo coperto con erbacce e rami d'albero. E al padre riferì: « Lo hanno sbranato le fiere! ». - Ahimè! - gridò il Re. - Tu sei mio fratello! Perdona! E gli si buttò ai piedi, tremante e piangente: - Non mi far male!... Eccoti la corona! Non mi far male! Sii Re! - Né tu, né io! - rispose mastro Acconcia-e-guasta. - Il Re sarà Succhiellino e la tua figliuola Regina. Mastro Acconcia-e-guasta indossò abiti principeschi; non sembrava più lui, e andò a prendere Succhiellino. Non era più un succhiello, ma un bel giovane che pareva proprio nato a posta per essere Re. La Reginotta non era da meno di lui. I due fratelli si abbracciarono, si baciarono; e colui che poco prima aveva il nome di mastro Acconcia-e-guasta raccontò la propria storia: in che maniera era scampato da morte; e poi diventato falegname. La gente la dice la fiaba della Figlia dell'Orco; ve la racconterò un'altra volta. Succhiellino e la Reginotta si sposarono con grandi feste, vissero lieti lunghi anni ed ebbero molti figli. E chi più ne vuole più ne pigli. C'era una volta un Re che aveva due figli, uno buono e l'altro cattivo. Quello buono era il Reuccio, e alla morte del padre doveva essere Re. La cosa non garbava al cattivo, e pensò di disfarsi del fratello per diventare Re lui. Un giorno gli disse: - Andiamo a caccia? E andarono. Giunti in mezzo a un bosco, lontani dalle persone del séguito, cava fuori la spada e dà addosso al fratello, che non si aspettava quel tradimento. Credette di averlo ucciso. Coprì con erbacce e rami di albero il corpo insanguinato, e tornò addietro. A palazzo, il Re domandò: - E tuo fratello? - Maestà, che disgrazia! Fu sbranato dalle fiere! Il povero padre ne fece un gran pianto. Dal dolore si ammalò, e dopo pochi giorni morì. Il Reuccio, sotto le erbe e i rami, rinvenne; e cominciò a lamentarsi, a chiamare soccorso: - Aiuto, buoni cristiani, aiuto! Era già buio. Udendo rumore lì accosto, il poverino gridò più forte che poté: - Aiuto, buoni cristiani, aiuto! Sentì frugare tra l'erbe e i rami; poi, due manacce con tanto di ugne lo ghermiscono, lo levano di peso quasi fosse un fuscellino, e una lingua ruvida come una raspa gli lecca il sangue addosso: - Oh che buon sapore! Oh che buon sapore! Il Reuccio, a quel vocione cupo cupo, rabbrividì: - Povero a me! Son capitato alle mani dell'Orco! L'Orco, era proprio lui! Se lo mise sotto braccio come un fardelletto, e si avviò per tornare alla sua grotta. Di tratto in tratto, si fermava, leccava il sangue delle ferite: - Oh che buon sapore! Oh che buon sapore! Alto, grosso, quasi un gigante, faceva certe sgambate così larghe e leste, che non lo avrebbe raggiunto neppure il vento. In pochi minuti fu alla porta della grotta e picchiò: - Apri, apri, figliuola; il babbo ti porta roba buona! Il Reuccio si era svenuto di nuovo e pareva proprio morto. La figlia dell'Orco, vedendo quel bel giovane tutto insanguinato, n'ebbe pietà: - Che roba buona dite mai! È morto; non vedete? Lo butto nel carnaio. L'Orco leccò un'ultima volta il sangue, e disse: - Hai ragione. Buttalo nel carnaio. Io torno fuori. - Buon'andata e buon ritorno. Non venite prima di giorno. Appena l'Orco fu partito, la figlia corse a un armadio, prese il barattolo dov'era l'unguento che sana le ferite, e ne unse quelle del Reuccio. Il Reuccio aprì gli occhi, quasi si svegliasse da una gran dormita. - Chi siete, bella figliuola? - Sono la figlia dell'Orco; non abbiate paura. Voi chi siete? - Il Reuccio. E le raccontò il tradimento del fratello. - Lasciatemi andare; mio padre dev'essere in pena a quest'ora. - C'è monti, valli e foreste; non trovereste la via. Mio padre v'incontrerebbe e ne farebbe due bocconi. Bisogna avere il suo anello per non smarrirsi; ma egli lo porta sempre in dito. - Glielo leverò, mentre dorme, se voi mi aiutate. - E dopo?... Mi sbranerebbe. - Vi porto via con me. Ci sposeremo. S'intese il grido dell'Orco, che tornava inferocito per non aver fatto preda alla caccia: - Uhii! Uhii! - Ecco mio padre. Entrate in quella grotta. C'è da mangiare, da bere e un buon pagliericcio per dormire. Non fiatate fino a questa sera; se no, mio padre fa due bocconi di voi! L'Orco, appena entrato, cominciò a fiutare attorno: - Uh! Uh! Che odore di carne cristiana! Uh! Uh! - È la fantasia che ve lo fa sentire. Siete stanco; desinate e andate subito a letto. L'Orco, brontolando, si spolpò mezzo bue arrosto, e si mise a letto: - Grattami la testa, figliuola. Non poteva addormentarsi, se sua figlia non gli grattava la testa. Con una mano ella grattava, e con l'altra tentava di cavargli l'anello dal dito. - Che tenti, figliolaccia? - urlò l'Orco mezz'addormentato. La figlia, impaurita, ritirò la mano e lasciò stare. Verso sera, l'Orco si preparava a uscire per la sua caccia. - Uh! Uh! Che odore di carne cristiana! Uh! Uh! Fiutava attorno, sgranando gli occhi, con l'acquolina in bocca. - È la fantasia che ve lo fa sentire. Buona andata e buon ritorno; non venite prima di giorno. L'Orco, brontolando, tirò la porta dietro a sé. - Uhii! Uhii! Si sentiva da lontano un miglio. La figlia dell'Orco chiamò fuori il Reuccio. - Ho tentato di cavargli l'anello; non mi è riuscito. Ritenterò domani. - Fatemi vedere tutta la casa, intanto che vostro padre non c'è. - Giuratemi prima che voi mi sposerete, se andremo insieme via di qui. - Ve lo giuro. La figlia dell'Orco aperse un uscio, e il Reuccio rimase a bocca aperta vedendo una stanza tutta tempestata di oro e diamanti, con mobili di marmo, di argento, di legni preziosi. Per terra però qua e là ossa spolpate, macchiate di sangue. - Che ossa son queste? - Non ci badate E aperse un altr'uscio. Il Reuccio rimase a bocca aperta. Pareti di lamine di argento lucide come specchi; cornici d'oro e di perle; pavimento di marmi rarissimi; e mobili fastosi, cortinaggi di stoffe non mai viste, con ricami d'oro e frange d'oro... Una magnificenza. Per terra però qua e là ossa spolpate, macchiate di sangue. - Che ossa son queste? - Non ci badate, Il Reuccio capì che erano ossa umane; tutte quelle povere creature se le era divorate l'Orco. E si sentì correre brividi da capo ai piedi, pensando che forse anche colei ne aveva mangiate la sua parte. - E lì dentro che c'è? Accennava all'uscio tutto d'acciaio, con congegni complicati e due mostri di bronzo; uno a destra, l'altro a sinistra, che mettevano paura. - Lì dentro c'è il tesoro. Ma non vi si entra; bisogna avere in mano l'anello, per non esser mangiato vivo da questi mostri. S'intese il grido dell'Orco che ritornava dalla caccia: - Uhii! Uhii! - Lesto, nella vostra grotta, e non fiatate fino a sera; se no, mio padre fa due bocconi di voi. Il Reuccio ebbe appena il tempo di nascondersi, che l'Orco picchiava alla porta: - Apri, apri, figliuola! Il babbo ti porta roba buona. Il Reuccio di là sentiva urli e pianti, e ganasce che maciullavano; e poi soltanto quel maciullare di ganasce. La figlia diceva al padre: - Siete stanco; andate a letto. L'Orco si spogliava: - Grattami la testa, figliuola. - Ora gli leva l'anello - pensò il Reuccio. Infatti, la sera dopo, appena l'Orco fu andato via per la caccia, la ragazza chiamò: - Reuccio, Reuccio, ecco l'anello! Mio padre, poverino, ora si sperderà in mezzo al bosco. Per amor vostro, io l'ho tradito. Andarono nella stanza del tesoro, presero oro e diamanti in quantità, e uscirono fuori. L'anello lo teneva in dito la figlia dell'Orco. Passando pel bosco, sentivano da lontano: - Uhii! Uhii! - È mio padre che non trova la via. L'ho tradito per amor vostro, povero babbo! Il Reuccio la guardò in faccia e vide che aveva le labbra sporche di sangue. - Che hai mangiato con tuo padre? - Agnellini, caprettini che parevano bambini. Non mi son pulita la bocca. Nella prima città dove arrivarono, il Reuccio mantenne la sua parola e sposò la figlia dell'Orco. Lì seppe che suo padre era morto, che il fratello traditore era già Re. Ma che poteva farci? E rimase in quella città, godendosi i tesori portati via all'Orco. Sua moglie a tavola non mangiava, o assaggiava appena le pietanze. - Perché non mangi? - Non ho appetito. O che campi d'aria? - Non ci badare. Una notte, il Reuccio si sveglia e non trova sua moglie nel letto. La cerca per tutta la casa, e non la trova neppure. Era in gran pensiero. Verso l'alba, eccola che rientra. - Dove sei stata? - A prendere un po' d'aria. La guardò in faccia; aveva le labbra sporche di sangue: - Che hai mangiato? - Agnellini, caprettini che parevano bambini. Non mi son pulita la bocca. Per quella volta non ci fece caso. Intanto sua moglie lo aizzava sempre contro il fratello traditore. - Se tu fossi Re, io sarei Regina! - Sei meglio che Regina. Non ti manca nulla. - Se tu fossi Re, io sarei Regina! Dovresti andare a ammazzare tuo fratello com'egli tentò di ammazzar te. - E se non riesco? - Con l'anello di mio padre si riesce a tutto! Dovresti vendicarti. Se tu fossi Re, io sarei Regina! Picchia oggi, picchiadomani, il Reuccio cominciò a pensare sul serio alla vendetta contro il fratello. Lo tratteneva soltanto l'amore dei figliuoli. Ne aveva già cinque e un altro era per la via. Se lui moriva in quell'impresa, come sarebbero rimasti quei poverini? Ma sua moglie ripicchiava: - Se tu fossi Re, io sarei Regina! Si sgravò del sesto figliuolo. Ora erano tre maschi e tre femmine. Una notte il Reuccio si sveglia e non trova sua moglie nel letto. La cerca per tutta la casa, e non la trova neppure. Era in gran pensiero. Verso l'alba, eccola che rientra. - Dove sei stata? - A prendere un po' d'aria. La guardò in faccia; aveva le labbra sporche di sangue: - Che hai mangiato? Agnellini, caprettini che parevano bambini. Non mi son pulita la bocca. Questa volta però il Reuccio entrò in sospetto e inorridì pensando che pasto aveva forse fatto sua moglie. - Non è figlia d'Orco per niente! E l'odio contro il fratello e il desiderio di vendetta gli riavvampò in cuore. - Se non fosse stato per il suo tradimento, non avrei sposato la figlia d'un Orco. L'odiava di più per questo. Il sangue che lordava le labbra di sua moglie doveva essere di creature umane. Oh, che orrore! Un giorno disse a sua moglie: - Porto i bambini a spasso. Prese in collo l'ultimo, che ancora non si era staccato ed era spoppato di fresco, e uscì fuori città. Cammina, cammina, la notte lo sorprese in una pianura deserta. Non c'era casolare dove rifugiarsi; non si vedeva anima viva. - Ah, fratello scellerato, dove mi trovo per te! Voglio ammazzarti! Coricò su la terra nuda i bambini che già cascavano dal sonno, e si sedette in un canto per vegliarli. Tutt'a un tratto vede davanti a sé due occhi di bragia, e una forma nera di animalaccio che si accostava adagino adagino. Gli si agghiacciò il sangue. Non aveva la forza di cavar la spada e difendersi. E sentiva brontolare: - Ah! Che buon odore di carne piccina! Che buon odore! Quella voce non gli giungeva nuova, ma non gli riusciva di riconoscerla. L'amore dei figli però gl'infuse coraggio. Cavò la spada e si slanciò contro l'animalaccio dagli occhi di bragia, che già aveva addentato i bambini. - Ahi! Ahi! Muoio! Muoio! Era sua moglie, la figlia dell'Orco; stava per divorarsi le proprie creature. Non era figlia d'Orco per niente. I bambini erano tutti lacerati, insanguinati, e il povero Reuccio non sapeva come medicarli. Il giorno era alto, e per la campagna deserta non si scorgeva anima viva. Ed egli piangeva strappandosi i capelli, con quell'orrido spettacolo sotto gli occhi: la moglie morta da un canto e i bambini lacerati, insanguinati e morenti dall'altro. - Fratello scellerato! Senza il tuo tradimento, non sarei a questo punto! - Che hai? Perché piangi? Si voltò e si vide dinanzi una bellissima donna tutta vestita di bianco con in mano una verga d'oro. - Ah, buona signora, aiutatemi voi! I miei bambini!... I miei bambini! - Posso aiutarti, ma a un patto. - A qualunque patto, buona signora! - Ascolta bene: io so tutto. Il tradimento di tuo fratello, l'Orco, la tua fuga con la figlia di lui, il tuo matrimonio, tutto. Se vuoi però che io ti aiuti, devi perdonare a tuo fratello. - A quell'infame? No, mai! La bellissima signora, turbata in viso, gli voltò le spalle e stava per andarsene. - Sì, sì, gli perdono! - gridò il Reuccio. - Pei miei figliuoli! La signora gli si accostò sorridente e gli disse: - Ascolta bene. Dei tuoi figliuoli, dopo parecchi anni, uno solo sopravviverà; questo, il minore. E sai perché? Perché egli soltanto non è nutrito di carne umana. Tua moglie, per virtù dell'anello, ti assopiva profondamente e usciva la notte a caccia di bambini: non era figlia d'Orco per niente. Gli altri cinque, ove campassero, diventerebbero Orchi anche loro! Il Reuccio piangeva. - Se tu perdoni al fratello, il tuo figliolino sarà Re. - Sì, sì, gli perdono! Gli perdono di tutto cuore! - Ora, guarda! Stese la verga d'oro e cominciò a toccare ad uno ad uno i bambini; e di mano in mano che li andava toccando, accadeva un portento. Questi diventava un martello, quegli uno scalpello, chi una tenaglia, chi una pialla, chi una sega. Toccato il minore, diventò un succhiello. Il Reuccio allibì: si sentì drizzare i capelli in testa. La signora gli fece un cenno con la mano: - Non disperarti: non è niente. Tu sarai falegname e questi i tuoi arnesi. Di giorno, ti serviranno per il tuo mestiere; la notte, tòccali con l'anello dell'Orco; ridiventeranno bambini. - E voi chi siete? - Sono una Fata. Il Reuccio si rincorò: - Fata, buona, Fata, suggeritemi voi che debbo fare. - Raccogli questi arnesi e va' nella città dov'è il Re tuo fratello. Prenderai a pigione una botteguccia, e lavorerai di falegname. La colla e i chiodi devono comprarli gli avventori. I chiodi che avanzeranno, li renderai; la colla, no; mettila da parte. Sarà buona da mangiare; vedrai. E gli spiegò tutto quel che doveva accadere. Il Reuccio raccolse gli arnesi: I miei figli ora si chiamano: Piallina, Scalpellino, Tanaglina, Martellino, Seghina e Succhiellino! Piangeva e rideva consolato. - E il cadavere di tua moglie? Lo lasci così, in preda alle bestie feroci e agli uccelli di rapina? - È giusto! Poveretta, Orco il padre, Orca lei: non ci aveva colpa. Le tolse dal dito l'anello, scavò una fossa e la seppellì. - Che nome prenderò, buona Fata? - Il nome te lo appiccicherà la gente; ti chiameranno: Mastro Acconcia-e-guasta. Parrai un vecchio; ma parrai soltanto. - Grazie, grazie, buona Fata! Guardò attorno, vicino, lontano; la Fata era sparita. Il resto, bambini miei, già lo sapete. E la fiaba della Figlia dell'Orco è bell'e finita. C'era una volta un pescatore che vivucchiava alla meglio col prodotto della sua pesca. Partiva in barca la sera, stava a pescare tutta la nottata, e la mattina dopo all'alba era di ritorno. Quando aveva fatto una buona retata, scorgendo da lontano la moglie che lo attendeva, ansiosa, alla spiaggia, le faceva segno di rallegrarsi, agitando per aria il berretto. Da parecchi mesi però il povero pescatore aveva una gran disdetta; pareva che quasi tutti i pesci si fossero messi d'accordo per non farsi pescare da lui. I suoi compagni, invece, ne pigliavano tanti e poi tanti, che spesso dovevano rigettarli in mare, perché il troppo peso non facesse affondare le barche. Disperato un giorno disse alla moglie: - Vendiamo barca, reti e ogni cosa; almeno tireremo innanzi un buon paio di settimane con quel po' di danaro che ne caveremo. Se no, saremo ben presto morti di stento tu, io e Bambolina. Avevano una figlioletta, nata di sette mesi, così piccina e miserina, che la sua mamma, stando a filare davanti l'uscio di casa, la teneva comodamente in una tasca del grembiule. La creaturina non riusciva a crescere. A sette anni era rimasta tal quale di quando era nata. Non piangeva mai, sorrideva sempre con quel vestitino da bambola, e parlava con una vocina così esile esile, che si sentiva appena. Per questo la chiamavano Bambolina. Quanto a mangiare, invece, Bambolina aveva un appetito che sbalordiva; i poveri genitori non sapevano a qual santo votarsi per sfamarla. Ed era una bocca inutile; la moglie lo diceva spesso al marito: - Costei è la nostra disgrazia! Ma è sangue del nostro sangue. Facciamo la volontà di Dio! Ora che il pescatore si trovava con quella disdetta addosso, ripensava continuamente le parole della moglie: -Costei è la nostra disgrazia! E non poteva vedere la bambina; non le faceva più una carezza; la maltrattava anzi, quando ella, con la vocina esile esile, gridava: - Ho fame! Ho fame! Un giorno il pescatore, che aveva già venduto barca, remi, reti e ogni attrezzo del suo mestiere, stava a sedere su uno scoglio vicino alla spiaggia, con la testa fra le mani, lamentandosi della sua mala sorte. A un tratto vide sorgere in mezzo al mare una figura di donna che, dal petto in giù, aveva forma di pesce. Nuotava, nuotava, tutta grondante, e veniva diritta verso di lui. - Pescatore, perché ti lamenti? - Sono un disgraziato! Vo' a pescare, e non piglio più pesci. Ho venduto barca, reti e ogni cosa, e il denaro è già. finito. Non so fare altro mestiere. Moriremo di fame io, mia moglie e Bambolina. - Senti - disse la donna-pesce. - Se tu mi dài Bambolina, ti regalo un bel mucchietto di monete d'oro, che ti caverà da ogni guaio. - Non vendo il sangue del mio sangue. - Pensaci bene. Tornerò fra otto giorni. La donna-pesce si tuffò in mare e disparve. Giunto a casa, stava per raccontare alla moglie quel che gli era accaduto; ma si trattenne. Voleva ripensarci bene. Ci ripensò per otto lunghi giorni, e all'ultimo si decise. Senza dir nulla alla moglie, avrebbe venduto Bambolina alla donna-pesce e sarebbe uscito da ogni guaio. Una mattina infatti disse alla moglie: - Vo' alla spiaggia con Bambolina, per farla divertire. Se la mise in tasca, e s'avviò. - Babbo, dove mi porti? - Dove vuole la tua sorte. - Ah, babbo scellerato! Ah, babbo senza cuore! - Zitta, o ti torco il collo. Passava gente, e la bambina, intimidita, tacque. Di lì a pochi passi: -Babbo, dove mi porti? - Dove vuole la tua sorte. - Ah, babbo scellerato! Ah, babbo senza cuore! La donna-pesce mi mangerà. Il pescatore sbalordì. - Che ne sai tu della donna-pesce? - L'ho sognata la notte scorsa. Tagliami almeno una ciocca di capelli e portala per ricordo alla mamma. Le tagliò una ciocca di capelli, e giunto su lo scoglio si sedette ad aspettare. Verso mezzogiorno, ecco a fior d'acqua la donna-pesce, tutta grondante: - Pescatore, ci hai pensato bene? - Ci ho pensato bene. Ho qui in tasca Bambolina. Fammi vedere il tuo gruzzolo d'oro. La donna-pesce spinse in alto la coda e mostrò un panierino tessuto di fili d'erba sottomarina, con dentro un bel mucchietto di monete di oro stralucente. Il pescatore rimase abbagliato; e portò una mano alla tasca, senza guardar in viso la figliuola: - Da' qua. Eccoti Bambolina. - Non le manca neppure un capello? - Neppure un capello. Egli tacque della ciocca tagliatele poco prima, temendo che la donna-pesce non volesse fare più il negozio, saputo che a Bambolina mancava qualcosa. La donna-pesce si accostò allo scoglio, porse il mucchio d'oro al pescatore, prese in cambio Bambolina e si allontanò dalla spiaggia: - Bada, pescatore! Chi inganna è ingannato. Si rituffò in mare e disparve con Bambolina tra le braccia. La moglie, vedendo tornare il marito, gli domandò premurosa: - Bambolina dov'è? - Eccola qui. E trasse di tasca il panierino col mucchietto delle monete d'oro. A quella vista, la povera madre cominciò a strapparsi i capelli, a piangere e a gridare: - Ah, figliolina mia! L'ha venduta, lo scellerato! Ah, Bambolina mia! - Zitta, o ti torco il collo. L'ho venduta per cagion tua. Dicevi sempre: È una bocca inutile! È la nostra disgrazia! Questa è una ciocca dei suoi capelli; te la manda per ricordo. - Tienti l'oro per te; a me i suoi capelli mi bastano. Li baciava, li ribaciava, li bagnava di lagrime. - E alla gente che dirai? - Dirò che Bambolina è caduta in mare e se la son mangiata i pesci. Il pescatore, riposto il suo tesoro in un cassettone, ne prese soltanto una manciata, per andare a far delle compere nei negozi più ricchi. Intendeva subito godersi la vita e sfoggiare. - Quanto lo fate questo qui? - Cento lire. - Uh! Una miseria! Tenete. - A chi li date cotesti gusci di telline? Qui non si fa la burletta. Il pescatore diventò smorto come un cadavere. Mettendo le mani in tasca, sentiva di avervi una manciata di monete d'oro; cavandole fuori, si trovava in pugno tanti gusci di telline. Gli pareva impossibile; non si sapeva persuadere. E va in un altro negozio. - Quanto lo fate questo qui? - Trecento lire. - Uh! Una miseria! Tenete. - Qui non si fa la burletta. A Chi li date cotesti gusci di telline? Se ne tornò a casa sconsolato. Aveva perduto la figliolina e sarebbe morto di fame lo stesso! La donna-pesce gliel'aveva detto: « Bada, pescatore! Chi inganna è ingannato ». E già si trovava bell'e ingannato con quei gusci di telline. - Moglie mia, come faremo? - Faremo la volontà di Dio. - La gente, non vedendo più la bimbetta, domandava: - E la vostra Bambolina? - Cadde in mare e se la mangiarono i pesci. Il marito rispondeva così; e la moglie stava zitta e piangeva. Come mai nessuno aveva saputo niente di quel caso? La gente cominciò a sospettare e a ciarlare. - Chi sa che n'hanno fatto, povera creaturina! L'hanno ammazzata per levarsi di torno una bocca inutile. Scellerati! Le ciarle giunsero all'orecchio del Re. Il Re spedì le sue guardie e si fece condurre dinanzi marito e moglie ammanettati. - Che n'è di Bambolina? - Cadde in mare e se la mangiarono i pesci. La donna scoppiò in pianto: - Maestà, non è vero! L'ha venduta alla donna-pesce! - Ti do tempo un mese. Se fra un mese non avrai recuperata Bambolina, avrai accarezzato il collo dal boia. Il pescatore corse allo scoglio e si mise a chiamare: - Donna-pesce!... O donna-pesce! La donna-pesce comparve a fior d'acqua tutta grondante. - Che cosa vuoi da me? - Se mi ridai Bambolina, ti restituisco il tuo oro con qualcosa per giunta, quel che tu vorrai. - Portami in cambio il Reuccio e la cosa è fatta. Il pescatore si tastò il collo, gli pareva di averci attorno la corda del boia che doveva strozzarlo. Quel cambio col Reuccio era impossibile. Pure si risolse di tentare. Ogni mattina andava davanti al palazzo reale: se il Reuccio fosse uscito fuori solo a fare chiasso con gli altri bambini, egli con belle paroline l'avrebbe attirato in riva al mare e l'avrebbe dato alla donna-pesce in ricambio di Bambolina. I giorni passavano e il Reuccio non si vedeva; o se usciva fuori, c'era sempre qualche servitore che gli faceva la guardia. Un giorno finalmente si diè il caso che uscisse solo. - Reuccio, Reuccio, il mare è tranquillo e ci sono tanti bei pesci. - Conducimi. I pesci di chi sono? - Sono vostri, se li volete. Venitemi dietro, per non farvi scorgere. E lo menò su lo scoglio. - Donna-pesce! O donna-pesce! Ho menato il Reuccio. La donna-pesce comparve a fior d'acqua tutta grondante. Il Reuccio ebbe paura di quella donna dalla coda di pesce e si mise a strillare. Ma il pescatore lo afferrò e glielo porse, e prese in cambio Bambolina. Egli s'era avveduto che Bambolina aveva strappato al Reuccio una ciocca di capelli, mentre questi si dibatteva per non andare in braccio del mostro. - Non gli manca nulla? - Non gli manca nulla. - Bada pescatore! Chi inganna è ingannato. E la donna-pesce si rituffò in mare insieme col Reuccio e disparve. Il pescatore si mise in tasca Bambolina. Per via la interrogava. - Bambolina, che cosa hai veduto in fondo al mare? Bambolina, zitta. - Bambolina, che cosa hai mangiato in fondo al mare? Bambolina, zitta. - Bambolina, non avercela col tuo babbo. La fame fa fare delle brutte cose. E Bambolina, zitta. Il pescatore si presentò al Re: - Ecco Bambolina. - Ah! Ti fai anche beffa di me! Impiccatelo! Il povero pescatore rimase. Invece di Bambolina bella e viva, aveva in mano proprio una bambola di legno che le somigliava perfettamente. La donna-pesce l'aveva ingannato. - Chi t'ha fatto questa bambola? Il Re la voltava e rivoltava fra le mani, meravigliato della rassomiglianza. Nel tastarla, tocca una molla, e la bambola di legno si mette a parlare: - Bambolina è in fondo al mare,- Il Reuccio? Dov'è il Reuccio? Cercate il Reuccio! Il Re pareva impazzito dal dolore. Il Reuccio non si trovava; nessuno l'aveva veduto. - Che n'hai fatto del Reuccio? Il pescatore tremante di paura, raccontò ogni cosa. La bambola di legno non si chetava: - Bambolina è in fondo al mare,Il Re si diè un colpo alla fronte: - Questo è un incantesimo! Non ci ha colpa nessuno. Radunò il Consiglio della Corona per consultare i Ministri. - Che vuol dire: Chi l'ha fatta e può disfarla? Nessuno riusciva a capirlo. Chi l'ha fatta è sua madre; ma come mai può disfarla? Ci perdevano la testa. - Lasciatemi andare - disse la madre che smaniava di rivedere Bambolina. Prese con sé le ciocche dei capelli della figlia e del Reuccio, e sola sola se n'andò in un punto di spiaggia deserto. Migliaia di pesciolini formicolavano nell'acqua. - Pesciolini di Dio, datemi retta: dove si trova la donna-pesce? I pesciolini si dispersero e sparirono quasi atterriti da quel nome. Dopo poco, ecco centinaia di pesci più grossi che formicolavano nell'acqua. - Pesci, pesci di Dio, datemi retta: dove si trova la donna-pesce? Anche questi si dispersero e sparirono, quasi atterriti da quel nome. Poco dopo, ecco un pesce grosso come un vitello. Apriva e chiudeva una bocca quanto quella di un forno, con doppie file di dentacci acuti e una lingua rossa rossa. - Pesce, pesce di Dio, dammi retta: dove si trova la donna-pesce? - Vieni con me e lo saprai. La povera mamma non esitò un istante in faccia al pericolo d'annegarsi; e si tuffò in mare, tenendo stretti in pugno i capelli di Bambolina e del Reuccio. Camminava sott'acqua come in terraferma; il pesce spaventoso avanti e lei dietro, fra torme di pesci di ogni sorta, che si scansavano per lasciarla passare. Cammina, cammina, scendi, scendi sempre più in fondo, non s'arrivava. E ad ogni lato, sotto, sopra, torme di pesci senza fine, di ogni forma e di ogni grandezza, che nessuno aveva pescato mai. Ella, che ne aveva veduti tanti e ne sapeva i nomi, di questi qui non ne aveva idea, e stupiva che ce ne potessero essere un sì gran numero. Scendi, scendi, scendi, finalmente ecco un bosco di piante strane che parevano vive e si movevano, e grotte in fila, tutte ornate di fiori che si aprivano e si chiudevano, e sembrava nuotassero anch'essi. - La donna-pesce abita lì. - Grazie, buon pesce. Che posso darti in compenso? - Mi basta il buon cuore. La povera donna picchia e chiama: - Donna-pesce! O donna-pesce! - Chi mi vuole? Chi sei? - Sono la madre di Bambolina. - Che sei venuta a fare? - Apri e te lo dirò. La donna-pesce aprì l'uscio e la fece entrare. La grotta era uno splendore, tutta di argento e d'oro e di perle e diamanti. - Tua figlia sta bene qui; lasciala stare. Senti? Fa il chiasso col Reuccio nella grotta accanto. - Fammela almeno vedere. - Non posso, non posso. - La bambola di legno ha detto: Chi l'ha fatta e può disfarla- E tu avresti cuore di disfarla? L'afflitta mamma fu imbarazzata. Pure disse franca: - Sì, sì! Le ciocche dei capelli, tenute strette nel pugno, le avevano suggerito di rispondere a quel modo. La donna-pesce si contorse tutta, e brontolando andò di là a prendere Bambolina. Figuratevi la povera mamma a quella vista! - Bambolina mia! Bambolina mia! Non finiva di baciarla; e se la divorava dai baci. - Basta, basta! Vediamo se sei buona a disfarla. La donna-pesce si contorceva tutta. La mamma strinse forte la ciocca dei capelli e si senti suggerire: - Tirale le gambe. Afferrò Bambolina e le tirò le gambe. - Ahi! Ahi! Ahi! La donna-pesce si contorceva, quasi colei le avesse invece tirata la coda. E le gambine di Bambolina si allungavano quanto le gambe di una bella ragazzina di otto anni. La mamma le tirò le braccia. - Ahi! Ahi! Ahi! La,donna-pesce si contorceva, quasi colei le avesse tirate le sue. E, le braccia di Bambolina, si allungarono quanto le braccia d'una bella ragazzina di otto anni. La mamma le,tirò il busto, e poi il collo. - Ahi! Ahi! Ahi! La donna-pesce, si contorce più di prima, quasi colei le avesse tirato il busto e il collo, e casca morta per terra. La donna prese Bambolina per una mano e il Reuccio per l'altra e uscì dalla grotta. Fuori c'erano milioni di pesci che stavano ad aspettarli, facendo guizzi in mezzo all'acqua, quasi ammattiti dalla gioia di saper morta la donna-pesce. E salirono su, accompagnati da questo strano corteggio. Quei pesci erano così allegri, che non vedevano neppure le reti tese dai pescatori e v'incappavano a migliaia. Uscendo fuori dal mare, la mamma, Bambolina e il Reuccio trovarono su la spiaggia una gran festa. Le ceste dei pescatori rigurgitavano. L'arena della riva era ingombra di pesci mezzi vivi; ne prendeva chi voleva. Gli stessi pescatori li davano in regalo; non sapevano che farsene. Alla notizia corsero il Re, la Corte, il popolo tutto, e tra essi il povero pescatore che s'era già pentito del suo mal fatto. Al vedere Bambolina, diventata così bella che pareva un sole, il Re esclamò: - È proprio una Reginotta! Infatti, alcuni anni dopo, Bambolina e il Reuccio si sposarono. E quel giorno il Re volle che, in ricordo del caso, in tutto il suo regno non si mangiasse altro che pesce. Chi l'allunga e chi l'accorcia, C'era una volta un barbiere che faceva la barba alla povera gente. Scorticava le facce con un vecchio rasoio e vi trinciava braciole di quando in quando. E se gli avventori si lamentavano, egli, che era di umore allegro, rispondeva: - Per un soldino, vi faccio la barba e una braciola; e brontolate? Una braciola costa di più. Gli avventori ridevano e andavano via contenti, col viso impiastricciato di ragnateli, per stagnare il sangue. Quando non aveva da fare, prendeva la chitarra e sedeva davanti la bottega, strimpellando e cantando: - Chi la vuol cruda, chi la vuol cottaE si fermava. Gli domandavano: - Che vorresti? - Niente, niente, lo so io! Un giorno, mentr'egli cantava, passò il Re. - Chi la vuol cotta, chi la vuol cruda;- Ebbene? Che vorresti? - domandò il Re. - Maestà, è inutile ve lo dica; non me la potreste dare neppur voi. - Voglio saperlo. - Se ve lo dico, Maestà, vi verrà la voglia come a me. - Dimmelo. Chi la vuol cotta, chi la vuol cruda;Il Re si mise a ridere. - Cantala un'altra volta. Il barbiere cominciò daccapo: Chi la vuol cruda, chi la vuol cotta,- E tu non vorresti la Reginotta? Preferisci la coda? Sarai servito. Arrestatelo, e conducetelo a palazzo. Le guardie lo afferrarono, lo legarono ben bene e lo condussero a palazzo. Il Re ordinò che tagliassero una coda a un cavallo e preparassero un paiolo da struggervi la pece. - La vuoi? Eccola qui. E con le proprie mani intinse la base della coda nella pece bollente e l'appiccicò al barbiere nel posto dove stanno le code. Il barbiere non disse né ahi né bahi, quasi la pece bollente non lo avesse scottato. Anzi, prima di nasconder la coda nei calzoni, si voltò verso il Re, la inarcò e l'agitò, come soglion fare i cavalli quando sono allegri, e si curvò fino a terra: - Grazie, Maestà! - No, non devi nasconderla - disse il Re. Gli fecero un buco nei calzoni, ne cavarono fuori la coda e lo lasciarono andare. La gente correva dietro al barbiere, ridendo, fischiando, urlando: - Oh, la coda! Oh, la coda! Il barbiere se n'andò difilato in bottega, senza neppure voltarsi, scodinzolando. Quando aveva finito di far la barba agli avventori, prendeva, al solito, la chitarra e si sedeva davanti la bottega, a strimpellare e a cantare: - Chi la vuol cotta, chi la vuol cruda;E si fermava. Gli domandavano: - Che aspetti? - Niente, niente; lo so io. Un giorno, mentre cantava, tornò a passare il Re, giusto appunto quando, egli diceva: E ora aspetto... - Ebbene? Che aspetti? - domandò il Re. Il barbiere continuò a strimpellare: trin, trin, trin, trin! - Che aspetti? Voglio saperlo. - Aspetto quel che verrà. Trin, trin! Trin, trin! - Impertinente! Dategli cento nerbate sotto la coda. Le guardie fecero per afferrare il barbiere; ma questi sparava calci di qua e di là, proprio come un cavallo. Le povere guardie ruzzolavano per terra, urlando: - Ahi! Ahi! E un bel calcio lo prese il Re, in una gamba: - Ahi! Ahi! Il Re, scornato, dovette tornarsene, zoppicando, a palazzo; e le guardie lo seguirono, zoppicando peggio di lui. - Maestà, che avete mai fatto? - gli disse un Ministro: - Ora che il barbiere ha la coda, nessuno ce la può con lui. Il Re pensò: - Se me n'appiccicassi due io? Diventerei più forte, e lo concerei per il dì delle feste. Fece tagliare due code ai migliori cavalli della sua scuderia, e da sé, perché la cosa non si risapesse, strusse la pece nel paiolo, ve le intinse alla base e cercò di appiccicarsele nel posto dove stanno le code. La pece bollente scottava. Sua Maestà cominciò a strillare e saltare per la stanza, mandando accidenti al barbiere. Le code non gli si erano appiccicate, e aveva due piaghe nella schiena! Quel giorno il barbiere si mise a cantare un'altra canzonetta: - E una, e due, e tre,La gente si domandava: - Chi ne vuol due e non ne ha una? - E una, e due, e tre,La gente scrollava il capo: - Il barbiere è ammattito. Il Re intanto schizzava foco e fiamme contro di lui; ma doveva frenarsi. Chi ce la poteva con quel demonio da che aveva la coda? E cercava un'occasione, per fargliele pagare tutte a una volta. Uno dei Ministri gli suggerì: - Maestà, costui non è del paese; è piovuto non si sa di dove; cacciatelo via. - Come si fa a cacciarlo? - Nessuno gli dia pane, acqua e foco, pena la vita: dovrà andarsene coi suoi piedi, se non vuol morire di fame, di sete e di freddo. - Ben pensata! E il Re fece il decreto: - Pena la vita, nessuno dia pane, acqua e foco al barbiere. Il barbiere chiuse la bottega, e con la chitarra a tracolla, andò a presentarsi al Re:. - Me ne vado fuori del regno, giacché Vostra Maestà vuole così. Solamente, chiedo una grazia. - Che grazia? - Per l'ultima volta, vorrei cantare una canzonetta al cospetto di Vostra Maestà e di tutta la corte.. - Ti sia concesso. Il barbiere accordò la chitarra e si mise a cantare: - Chi la vuol cotta, chi la vuol cruda;- Levati di torno, mascalzone! Il barbiere voltò le spalle a Sua Maestà, inarcò; agitò la coda, come fanno i cavalli quando sono allegri, si curvò fino a terra, e andò via. - Pioggia davanti, e vento di dietro! Il Re trasse un sospirone quando lo vide partito. E, per un pezzo, del barbiere non si seppe nuova né buona né cattiva. Il Re aveva una figliuola e voleva maritarla. - Chi vuoi sposare, figliuola mia? Il Reuccio di Francia? Il Reuccio di Spagna? Il Reuccio di Portogallo? Ti hanno chiesto tutti e tre, e attendono la tua risposta. - Chi debbo sposar io, deve dirlo radichetta. - E chi mai è cotesta radichetta? - Eccola qui. La Reginotta cavò di tasca una radichetta scura, bitorzoluta. - Quando avrò vicino chi dovrà essere il mio sposo, la radichetta germoglierà. Me l'ha data una Fata. Dice: Se sposi un altro, guai a te! - Regalo d'una Fata, non può essere cosa cattiva - pensò il Re. E invitò i tre Reucci per vedere chi di loro avrebbe,avuto la virtù di far germogliare la radichetta. Arrivò primo il Reuccio di Francia. Presuntuoso, superbo, disse: - Vedrete, Reginotta; la faccio fiorire di botto. Cavatela fuori. La radichetta, scura e bitorzoluta essa era, scura e bitorzoluta rimase. Egli volle toccarla, strofinarla; gli pareva impossibile che il Reuccio di Francia non l'avesse fatta fiorire alla prima. Ma più la toccava, e più scura e bitorzoluta diventava. - L'avete fatto a posta, per onta! Maestà, me la pagherete! E andò via, senza salutare nessuno, minaccioso. Arrivò, secondo, il Reuccio di Spagna, cerimonioso, pieno di gentilezze: - Vi piacerebbe, Reginotta, se la bella sorte toccasse a me? - Mi piacerebbe. E cavò di tasca la radichetta. Scura e bitorzoluta essa era, scura e bitorzoluta rimase. Il Reuccio la toccava, la strofinava delicatamente, mortificato che un Reuccio di Spagna non fosse riuscito a farla fiorire. Ma più la toccava e strofinava, e più scura e bitorzoluta diventava. - L'avete fatto a posta, per onta! Maestà, me la pagherete! E andò via impettito e gonfio, senza salutare nessuno. Arrivò, ultimo, il Reuccio di Portogallo. Si era ringalluzzito, sentendo che gli altri due avevano fatto fiasco. E si presentò senza dir nulla, con un sorrisetto di soddisfazione sulle labbra, aspettando che la Reginotta cavasse fuori la radichetta. Gli pareva che già dovesse cavarla di tasca bell'e fiorita. Scura e bitorzoluta essa era, e scura e bitorzoluta rimase. - L'avete fatto a posta, per onta! Maestà, me la pagherete! E andò via, anche lui, senza salutare nessuno. I Re di Francia, di Spagna e di Portogallo fecero lega tra loro e intimarono la guerra al povero Re, che non c'entrava per niente. Alle prime battaglie, gliele sonarono bene. Stavano tre contro uno, che non era neppure molto forte. Il Re dovette scappare a cavallo per salvare la vita. - Ah, se fosse qui il barbiere! - esclamò. - Maestà, era al portone di palazzo; veniva per farsi soldato. Le guardie gli hanno impedito di entrare; è andato via. - Che disgrazia! E tutto questo per una radica maledetta! Dammela qua; voglio buttarla via. La Reginotta la cavò di tasca e gliela porse piangendo: - Maestà, voi buttate via la mia fortuna. - Butterei via anche te, in questo momento! Il Re era su tutte le furie. Aperse la finestra e scagliò fuori la radichetta con la maggior forza che poté. - Ora, di nuovo alla guerra! Fate marciare l'esercito. Sellate il mio cavallo subito subito. Questa volta vinceremo. Gli pareva che, buttando via la radichetta, si fosse già levato il malaugurio di dosso. Entrò tutt'a un tratto il Ministro: - Maestà! Maestà! La radichetta è fiorita! È cascata in testa a uno che passava per caso sotto la finestra. Appena la raccolse, gli fiori in mano. Questo è buon segno. - Chi sarà? Fatelo venire. Sarà un Re, certamente. Che Re! Era il barbiere, quello dalla coda, che veniva avanti facendo inchini, con la chitarra a tracolla e la radichetta fiorita in mano. E prima che il Re, sbalordito, possa dirgli una parola, egli si mette a suonare e a cantare: - Chi la vuol cotta, chi la vuol cruda;Se non son Reuccio, sono Principe, e posso imparentarmi col Re. E vi farò vedere che prodezze può far fare la coda. Al Re non parve vero. Lo mise a capo dell'esercito, e fu un taglia, taglia. Con la coda all'aria, e la chitarra afferrata a due mani pel manico - non volle altr'arma - il barbiere, cioè il Principe, fece prodezze da non dirsi. I tre Re scapparono a precipizio, lasciando mezz'esercito morto sul campo. E quando l'esercito vittorioso fece ritorno, a capo d'esso c'era il barbiere, cioè il Principe, con la coda all'aria e la chitarra al fianco, che andava sonando e cantando: - Chi la vuol cruda, chi la vuol cotta,Alla Reginotta però quell'uomo con la coda non andava; le faceva schifo e paura insieme, e non voleva per nulla sposarlo; ma non diceva il perché. Figuratevi la rabbia di Sua Maestà, che aveva tanto sofferto appunto per lei e per la sua radichetta. - E perché non vuoi sposarlo? È nobile, è giovane. - Perché ha la coda. - Non è nulla - disse il Principe. - Me la faccio tagliare. Non c'era verso né di tagliarla, né di strapparla; e il palazzo reale pareva un inferno, col Re che urlava contro la Reginotta, col Principe che strepitava e cantava da mattina a sera: - Chi la vuol cruda, chi la vuol cotta; ora mi spetta la Reginotta -; con la Reginotta che piangeva notte e giorno, e intisichiva dal dispiacere di quello sposo con la coda. Si presentò una vecchina; voleva parlare con la Reginotta. - Mi riconosci? - Non vi ho mai vista! - Mi riconosci? S'era trasfigurata. Pareva un sole. - La mia buona Fata! Quella della radichetta! E le si gettò ai piedi supplicandola: - Per pietà, buona Fata; salvatemi voi. Il Principe con la coda non lo voglio! Meglio morta. - Non t'angustiare. Ripareremo. Le disse quel che doveva fare e sparì. La Reginotta, tutta contenta, andò di là, dove erano il Re e lo sposo. - Maestà, prendete in mano la radichetta germogliata. Voi appiccicaste la coda e voi dovete farla sparire. Infatti di mano in mano che il Re strappava le foglie della radichetta, la coda del principe si accorciava, si accorciava. Strappata l'ultima fogliolina, la coda sparì interamente; non se ne vedeva neppure il segno. La Reginotta e il Principe si sposarono, e vissero fino alla vecchiezza, con gran numero di figli attorno. Stretta la foglia sia, larga la via, C'era una volta un figurinaio che andava attorno per le vie vendendo figurine di gesso: - Chi vuol figurine, chi vuole! Su la tavola che portava in testa sopra un cércine, vecchi panciuti, gatti e conigli crollavano il capo e parevano vivi. - Chi vuol figurine, chi vuole! Un giorno aveva fatto buoni affari; gli rimaneva soltanto un gattino. Non lo aveva voluto nessuno, quantunque niente diverso dagli altri venduti. Il povero figurinaio si sgolava inutilmente: - Oh, il bel gattino! Chi vuole questo gattino, chi vuole! Si trovava in quel momento sotto le finestre del palazzo reale: - Figurinaio, venite su. Non gli era mai capitata la fortuna di vendere qualcuna di quelle sue cosucce alla casa del Re. Dalla contentezza non stava nei panni, e montava gli scalini a quattro a quattro. Arrivato all'ultimo pianerottolo, inciampa e casca quant'era lungo. Il gattino andò in pezzi. La Reginotta, ch'era corsa all'uscio, cominciò a strillare: - Voglio il gattino! Voglio il gattino! - Reginotta, non è niente; ne farò un altro. - No ! No! Voglio questo qui! - Se avessi un po' di colla, lo incollerei. Non aveva ancora finito di parlare, che i pezzetti si movevano, si ricercavano tra loro e s'incollavano da sé; e già il gattino crollava la testa e pareva contento di quella prodezza. Il figurinaio era più sbalordito degli altri. Quasi quasi avrebbe voluto riportarselo via; quel gattino portentoso forse sarebbe stato la sua fortuna. Ma col Re non si scherzava; bisognava venderlo per forza. - Quanto ne vuoi? - domandò il Re. - Faccia Vostra Maestà; il gattino non ha prezzo. Il Re gli diede una moneta d'oro. Il figurinaio s'attendeva di più, e intascò la moneta di malumore. - Non sei contento? Eccotene un'altra. - Gliene dia tre, Maestà. Il Re, per non far dispiacere alla figliuola, diede al figurinaio altre due monete d'oro. - Dio t'aiuti! La Reginotta portò il gattino in camera, e si divertiva tutto il giorno a fargli scrollare la testa. - Gattino, mi vuoi bene? E il gattino rispondeva di sì. - Gattino, vuoi la gattina? E il gattino rispondeva di sì. - Gattino, ci sposiamo? E il gattino rispondeva di sì. Accadde che in quel tempo la Reginotta fu richiesta da un Reuccio. Il Re se ne rallegrò; era un buon partito. Ma ecco, a mezzanotte, si sentì un grido lamentoso: - Meo! Meo! Meo - La Reginotta si svegliò: - Che. hai, gattino? - Meo! Meo! Meo! - Hai forse fame, gattino? - Meo! Meo! Meo! Non si chetava. Si svegliò anche il Re. - Cacciate via questo gatto; non mi lascia dormire. - È il gattino di gesso. Sua Maestà rimase. - Il gattino di gesso? E andò a vedere. - Meo! Meo! Meo! - Maestà, il gattino vuol qualche cosa; io non so capire il suo linguaggio. - Vuoi della trippa? Vuoi del polmone? - Meo! Meo! Meo! Neppure il Re capiva. All'ultimo, stizzito, afferrò un bastone per farlo in pezzi: - Te lo do io il meo, meo! La Reginotta gli trattenne il braccio. - Chiamiamo il figurinaio. Lui che l'ha fatto, forse lo intende. Fino all'alba però il gattino continuò a lamentarsi: - Meo! Meo! Meo! Il figurinaio non fu potuto trovare; era andato in un'altra città. La notte seguente, a mezzanotte appunto, il gattino ricomincia. Il Re uscì fuori dei gangheri; corse in camera della Reginotta, afferrò il gattino, aperse la finestra e lo buttò nella via. La Reginotta si mise a piangere: - Povero gattino mio! Di lì a pochi minuti, dietro l'impòsta si sente: - Meo! Meo! Meo! E un zampino picchiava ai vetri e grattava con le ugne. La Reginotta aperse e trovò il gattino di gesso sul davanzale; crollava la testa e pareva dicesse: Grazie! grazie! - Sta' zitto, gattino; se no, il Re ti fa in pezzi. - Meo! Meo! - Gattino, mi vuoi bene? E il gattino rispondeva di sì. - Gattino, vuoi la gattina? E il gattino rispondeva di sì. - Gattino, ci sposiamo? - Meo! Meo! Meo! E per quella notte non gridò più. - Dunque vuol sposarmi lui! - disse la Reginotta. - Qui ci deve essere un incanto. Gattini di gesso e che gridino non se n'è mai visti finora. Quando fu giorno, andò dal padre: - Maestà, il mio matrimonio col Reuccio non può andare. Mi vuole il gattino, e il gattino mi avrà. Il Re la credette impazzita. La Reginotta, senza scomporsi, gli spiegò la cosa: - Maestà, qui c'è un incanto. Chiamarono un Mago. - È proprio così. Quel gattino è un Reuccio. Se l'incanto non vien disfatto, la Reginotta è perduta. Figuriamoci la costernazione del Re e di tutta la corte! - Come disfarlo?! - Bisogna recuperare le tre monete d'oro date da vostra Maestà al figurinaio. Dove andare a pescarle? Colui doveva averle già spese. Chi sa per che mani passavano in quel momento. E poi, come riconoscerle fra le altre monete d'oro fatte con l'istesso conio? - Le riconoscerà il gattino. Il Re fece un bando: - Chi possiede monete d'oro, deve trovarsi in tal giorno nel tal posto con le monete in tasca; pena la vita. Quel giorno, nel posto indicato, si vide più di un centinaio di persone che si guardavano in faccia sospettose, tenendo le mani in tasca. Venne la Reginotta col gattino in braccio e cominciò a passeggiare in mezzo a loro. Il gattino scrollava il capo, ma non dava nessun indizio; avrebbe dovuto gridare: Meo! Nessuno di quella gente possedeva dunque le monete cercate. La Reginotta disse: - Maestà, vo' andare attorno pel mondo. Mi vesto da uomo e fingo di essere un figurinaio. Il cuore mi dice che troverò le monete. Se non faccio così, sono perduta. Il Re acconsentì. La Reginotta si fece cucire un vestito da uomo, si tagliò i capelli, prese il gattino, e di notte, per non essere riconosciuta, partì. - Oh, il bel gattino! Chi mi compra il gattino che miagola! - Quanto ne chiedete? - Una moneta d'oro. - Non vale due soldi. Andava di città in città, di paesetto in paesetto, di villaggio in villaggio: - Oh, il bel gattino! Oh, il bel gattino che miagola! Parecchie persone avrebbero voluto comprarlo, ma sentendo quel prezzo d'una moneta d'oro, tutte rispondevano a un modo: - Non vale due soldi. Cammina, cammina, una volta fu sorpresa dalla notte in una campagna. Vide una casetta di contadini e picchiò: - Buona gente, datemi alloggio. - Chi siete? - Un figurinaio. Le apersero e la fecero entrare. Erano due vecchi, marito e moglie. - Non ricoveriamo nessuno. Perché siete un figurinaio, facciamo una eccezione per voi. Il nostro figliuolo fa lo stesso mestiere. È tant'anni che non lo vediamo; non sappiamo se è vivo o morto. Questo è il suo letto; dormite lì. Ci parrà che voi siate quel caro figliuolo. A mezzanotte appunto, ecco il gattino: - Meo! Meo! Meo! - Buona gente, voi avete una moneta d'oro. - Ah! Tu sei un ladro! Il vecchio afferrò la ronca e voleva ammazzarla. - Non sono un ladro! Per quella moneta ve ne do dieci! Sentite. E raccontò la sua storia. I due vecchi ebbero pietà di lei. Infatti avevano davvero una moneta d'oro; gliel'avea mandata il loro figliuolo. Presero in cambio le dieci monete e le diedero quella. Il gattino crollava il capo e gridava: Meo! Meo! Pareva che gongolasse di allegrezza. Si sparse la voce che c'era un figurina!o, il quale dava dieci monete d'oro contro una. La gente le andava incontro con le monete in mano per fare quel buon guadagno. Ma il gattino stava zitto. Cammina, cammina, la Reginotta arrivò un giorno davanti un'osteria. Parecchi avventori giocavano a un tavolino. Si fermò per prendere un boccone e si mise a guardare. Tutt'aun tratto, ecco il gattino: - Meo! Meo! Meol - Buona gente, voi avete una moneta d'oro. Se me la date, ve ne do dieci e d'oro anch'esse. - Fa' vedere, La Reginotta cavò fuori le monete. Quei mascalzoni le si gittarono addosso, gliele fanno cascare per terra, si azzuffano, le ghermiscono e fuggono via. Tutt'a un tratto, ecco il gattino: - Meo! Meo! Meo! - Gattino, che vuoi dire? - Meo! Meo! Meo! Guardò attorno, per terra. Sotto un piede del tavolino c'era una moneta d'oro, proprio quella che lei cercava. Nella zuffa era sfuggita di mano ai suo possessore e nessuno l'aveva vista. La Reginotta la raccolse, la involtò insieme con l'altra, e riprese il viaggio. Cammina, cammina, cammina, giunse in un luogo solitario, fra rupi alte fino alle nuvole. Non si scorgeva anima viva. Vide una grotta con una porta; si fece coraggio e picchiò: - Buona gente, aprite; ho smarrita la strada. Non rispondeva nessuno. - Buona gente, aprite; ho smarrita la strada. Comparvero due visacci barbuti: - Mal per te! Chi sei? Che vieni a fare in queste parti? - Sono un figurinaio. Vendo questo gattino. - Quanto ne chiedi? - Una moneta d'oro. - Noi lo prendiamo per nulla. E volevano strapparglielo. La povera Reginotta era capitata in un covo di ladri. Sentendo il diverbio, n'erano usciti fuori una dozzina, minacciosi, con i pugnali in mano. La Reginotta si vide perduta: - Non mi fate male; ve lo do! - Tu resterai con noi; farai da servo. Con quella gentaccia non c'era da rispondere. Per non separarsi dai gattino, la Reginotta disse: - Farò da servo. La sera i ladri andavano via e lasciavano la Reginotta chiusa col catenaccio dentro la grotta. - Ah, gattino mio! Che mala sorte c'è toccata! - Il gattino non diceva nulla. Sul far, dell'alba, i ladri tornavano carichi di preda; argento, oro, pietre preziose. E,il capo faceva le parti. - A te questo! A te quello! A te questa moneta, perché ci hai preparato un buon desinare! Ma non era la moneta che la Reginotta cercava. Infatti il gattino stava zitto. - Ah, gattino mio! Che mala sorte c'è toccata! Intanto alla Reginotta erano cresciuti i capelli, e non sapeva più come nasconderli. Il capo dei ladri se n'accorse: - Chi sei? Tu sei una donna! La povera Reginotta si senti morire; e piangendo, disse: - Sono la figlia del Re. - Allora ti prendo per moglie. Sono Re anch'io; Re dei ladri! Ci sposeremo domani. Giusto la notte che viene andiamo a rubare in casa del Re. Ruberemo la corona e il manto reale. La sera i ladri andarono via e lasciarono la Reginotta chiusa col catenaccio dentro la grotta. - Ah, gattino mio! Che mala sorte c'è toccata! E i suoi occhi eran due fiumi di lagrime. Il gattino, zitto. Sul far dell'alba, i ladri tornarono carichi di preda; argento, oro, pietre preziose, e la corona e il manto reale. A te questo! A te quello! A te questa moneta, perché ci hai preparato un buon desinare! - Tutt'a un tratto, ecco il gattino: - Meo! Meo! Meo! I ladri si spaventarono. La Reginotta non gli aveva mai detto che il gattino di gesso miagolava. - Tradimento! Tradimento! E sfoderarono i pugnali. Si sentì un botto. Il gattino di gesso era crepato, facendo schizzare i pezzi da tutte le parti, e ne era uscito fuori un bel giovane, armato di tutto punto, che cominciò a menar colpi di spada a dritta e a manca. In pochi minuti, tutti i ladri giacevano morti per terra, fra pozze di sangue. La Reginotta rimaneva in un canto, atterrita. Non osava accostarsi anche perché vedeva che il Reuccio aveva tuttavia gli orecchi, i baffi e la coda di gatto; provava paura. E la paura si accrebbe quando invece di sentirlo parlare, lo udì miagolare: - Meo! Meo! - Reuccio, che volete dirmi? - Meo! Meo! Dunque rimaneva sempre gatto, quantunque con la figura d'uomo? Dallo sbalordimento, la Reginotta gli disse: - Ah, gattino mio, che disgrazia! Doveva dirgli questo perché l'incanto cessasse. Gli cascarono gli orecchi, i baffi e la coda, e il Reuccio parlò: - Grazie, Reginotta. Quanto ho sofferto! Caddi in mano d'una vecchia Stregona; voleva essere sposata; e perché rifiutai mi gittò quell'incanto. Questi ladri sono i suoi figli; ora viene a cercarli. La concio io! - Andiamo via; sarà meglio. - Se non è morta colei, non possiamo uscire di qui. Infatti non trovavano la porta. Gira di qua, gira di là per quella sfilata di grotte, non un buco nei muri per cui potesse passare un topolino. In alto, è vero, c'erano grandi buche che davano luce; ma come arrampicarsi fin lassù? Bisognava avere le ali. Il giorno seguente, da una di quelle buche, ecco un gufo che vola e rivola attorno, stridendo forte. - Gufaccio, che cerchi qui? - Datemi uno di quei morti. Che ve ne fate? - Prendilo pure. Il gufo afferrò un cadavere con gli artigli, e lo portò via. - Era forse la Strega! - disse il Reuccio. - Se torna, la concio io! Poco dopo, ecco una cagna, magra e pelosa, che si avanza dal fondo di una grotta a passi lenti, uggiolando: - Cagnaccia, che cerchi qui? - Datemi uno di quei morti. Che ve ne fate? - Ah! Sei tu, Stregona! E il Reuccio le assestò un colpo, ma non la colse. La cagna sparì. - Era lei! Se torna, la conto io! Poco dopo, ecco un sorcio con una coda lunga e spelata. - Sorciaccio, che cerchi qui? - Datemi uno di quei morti. Che ve ne fate? - Prendilo pure. Il sorcio afferrò coi denti la punta del vestito di uno di quei cadaveri e cominciò a trascinarlo. Il Reuccio lo agguanta per la coda con una mano, e cava la spada con l'altra. Assesta il colpo, ma coglie la coda che gli rimane in pugno, divincolandosi. Sorcio e cadavere, spariti. - Non vuol dire! Bruciamo questa coda! Presero molta legna e accesero un bel fuoco; nel meglio della vampata, vi buttarono la coda. Di fuori, si sentivano gli urli della Strega: - Ahi! Non mi fate bruciare! Vi apro la porta! Ahi! Ahi! La coda guizzava, si dibatteva fra le fiamme. Il Reuccio, per paura che scappasse, la tenne ferma con la punta della spada, finché non si udì più nessun grido o lamento della Strega. Il fuoco si spense, e la porta si aperse. L'incanto era disfatto. Reuccio e Reginotta tornarono insieme al palazzo del Re e furono accolti con grandi feste. Mandarono subito a prendere il tesoro dei ladri e lo distribuirono alla povera gente. Il giorno delle loro nozze fu baldoria in tutto il regno. Stretta la via, larga la foglia; C'era una volta un mugnaio che aveva due belle figliuole. A una avea dato nome Rota, all'altra Tramoggia. La gente che andava a macinare, vedendo le due ragazze, domandava: - Compare, quando maritate queste figliuole? - Quando ci sarà chi le vuole. - E che dote gli date? - Dote niente. Rota la regalo, Tramoggia la do per nulla. - Furbo siete, mugnaio! All'alba, se non c'erano ancora avventori, il mugnaio imboccava una grossa conchiglia marina, e si metteva prima a sonare e poi a gridare: - Púuh! Púuh! Púuh!Una mattina arrivò primo un garzone del Re con una mula carica di grano. Terminato di macinare, il garzone non se n'andava: - Che attendi? - Il Re vuole il contentino. - Portagli questa qui. E gli diè Rota, la figliuola maggiore. Il Re gliela rimandò: - Contentino che mangia pane Sua Maestà non ne vuole. - Portagli questo qui. Gli diè un corno di bue. Il Re si sentì offeso, e se la legò al dito. Un altro giornoil mugnaio s'era messo di nuovo a sonare e a gridare: - Púuh! Púuh" Púuh!Arrivò primo il solito garzone del Re con due mule cariche di grano. Terminato di macinare, il garzone non se n'andava. - Che attendi? - Il Re vuole il contentino. - Portagli questa qui. E gli diè Tramoggia, la figliuola minore. Il Re gliela rimandò: - Contentino che mangia pane Sua Maestà non ne vuole. - Portagli questo qui. Gli diè un altro corno di bue. Il Re, alla nuova offesa, pigliò i cocci e mandò ad arrestare il mugnaio. - Che intendi con questi corni per contentino? - Intendo i corni dell'abbondanza. Se Vostra Maestà non li vuole, son pronto a riprenderli. - Riprendili pure. Il Re, non trovando da ridire, fece rilasciare il mugnaio. Per la via gli domandavano: - Di chi sono cotesti corni, mugnaio? - Sono miei. Uno lo regalo, l'altro lo do per nulla. E se ne tornò al mulino coi corni sotto il braccio. La gente che andava a macinare, vedendo le ragazze, domandava: - Compare, quando le maritate queste figliuole? - Quando ci sarà chi le vuole. - E che dote gli date? - Quei due corni; uno a Rota, l'altro a Tramoggia. - Furbo siete, mugnaio! I corni vanno a paio. - Di corni come questi, con uno ce n'è d'avanzo. Chi non lo crede, suo danno. Il Re aveva ripensato la risposta del mugnaio: « Intendo i corni dell'abbondanza »; e s'era pentito di averglieli lasciati riprendere. Mandò il garzone: - Sua Maestà rivuole i contentini. - Gli ho dati in dote alle figliuole. Chi vuol possedere uno di quei corni, dee prima sposare una di esse. Il garzone riferì la risposta. Il Re ci ripensò su: - Se fosse davvero il corno dell'abbondanza? Rimandò il garzone: - Avanti di sposare, Sua Maestà vuole accertarsi che il vostro corno è davvero quello dell'abbondanza. Il mugnaio rispose: - Chi non lo crede, suo danno. Il Re si persuase che il mugnaio diceva il vero. Anche per un Re, che può avere quattrini quanti ne vuole, il corno dell'abbondanza non sarebbe stato cattivo. Sposare però una figliuola di mugnaio, tutta infarinata, Sua Maestà non se la sentiva. Giorno e notte intanto ripensava a quel corno. Dormendo, lo sognava. Gli pareva di vederne uscire ogni ben di Dio. Bastava dire: Corno, dammi questo! Corno, dammi quello! Il corno si trovava pronto a ogni richiesta. Era una bellezza. - Se accadesse come nel sogno! Il Re ormai aveva fitto il chiodo lì; e radunò il Consiglio della Corona. - Voglio sposare una delle figlie del mugnaio! - Maestà, sangue di Re richiede sangue di Re! - Quando avrò in mano il corno dell'abbondanza, so io come fare. I Ministri chinarono il capo. E uno di loro dovette andare dal mugnaio in nome di Sua Maestà: - Mugnaio, Sua Maestà vuole una delle tue figliuole. - Rota la regalo, Tramoggia la do per nulla. E quei corni sono la dote. - Sua Maestà sceglie Rota. Si sposarono. La stessa sera delle nozze il Re disse a Rota: - Vieni a vedere la tua camera. Le fece scendere scale dietro scale, una più buia dell'altra, e quando furono all'uscio di un sotterraneo, dove non penetrava un fil di luce, ve la spinse dentro e messe tanto di catenaccio. - Ah, Maestà, che tradimento! Il Re tornò su, prese il corno per la punta e ordinò: - Perle e diamanti! E tosto uscì dall'altra parte un mucchio di diamanti e di perle. La mattina venne il mugnaio per vedere la sua figliuola: - Torna più tardi, tua figlia dorme. Tornò più tardi: - Torna domani, tua figlia è a pranzo. Venne il giorno seguente: - Tua figlia è morta e seppellita. Fu Regina un giorno solo! Il povero mugnaio andò via piangendo. Il Re pensò: - Se possedessi l'altro corno dell'abbondanza, sarebbe meglio. E mandò dal mugnaio: - Sua Maestà vuole sposare l'altra sorella. - Rota fu regalata, Tramoggia la do per nulla. Quel corno è la sua dote. Il Re e Tramoggia si sposarono. La stessa sera delle nozze egli le disse: - Vieni a vedere la tua camera. Le fece scendere scale dietro scale, una più buia dell'altra, e quando furono all'uscio di un sotterraneo, dove non penetrava un fil di luce, ve la spinse dentro e messe tanto di catenaccio. - Ah, Maestà, che tradimento! Il Re tornò su, prese l'altro corno per la punta e ordinò: - Oro e argento! E tosto uscì dall'altra parte un mucchio d'argento e d'oro. La mattina venne il mugnaio per vedere la sua figliuola: - Tua figlia è morta e seppellita. Fu Regina una notte sola. Il povero mugnaio andò via piangendo. Un giorno, vedendo che non c'era avventori, imboccò, al solito, la grossa conchiglia e si mise prima a sonare poi a gridare: - Púuh! Púuh! Púuh!Arrivò primo il garzone del Re, con una mula carica di grano. Terminato di macinare, il garzone non se n'andava: - Che attendi? - Il Re vuole il contentino. - Portagli questo. E gli diè uno stivale vecchio, rattoppato. Il Re pensò: - Anche questo stivale dee avere qualche virtù. Ma prima di provare, voglio anche l'altro. E appena intese dal balcone del palazzo reale il suono della conchiglia Púuh! Púuh! e la voce del mugnaio che gridava al solito: Vieni, vieni! spedì il garzone con una mula carica di grano. Terminato di macinare, il garzone non se n'andava: - Che attendi? - Il Re vuole il contentino. - Portagli questo. E gli diè uno stivale vecchio rattoppato, compagno all'altro. Il Re, tutto contento, si chiuse in camera coi due corni di bue e i due stivali. Voleva far la prova se mai questi erano prodigiosi al pari di quelli. E cominciò dai corni. Li prese per le punte con le due mani e ordinò: - Perle e diamanti! Argento e oro! Ma i corni versavano e gli stivali ricevevano. E appena gli stivali furono colmi fino al collo, parvero impazziti. Il Re non sapeva come ripararsi dai calci che gli assestavano alla schiena, di piatto e di punta. E ogni calcio,lasciava il segno! Apre l'uscio es i mette a correre, urlando; lui avanti e gli stivali dietro, assestandogli calci alla schiena di piatto e di punta. E ogni calcio lasciava il segno! Corri di qua, corri di là, non c'era verso di sfuggirli. Ministri, cortigiani, guardie tentavano invano di afferrarli; ne toccavano anche loro. All'ultimo, nel ruzzolare una scala, il Re inciampò e cadde bocconi quant'era lungo. Gli stivali gli si posarono addosso e stettero fermi; ma lo schiacciavano col loro peso. - Chiamate il mugnaio! - urlava il Re. Corse una guardia, a cavallo, per fare più presto. - Non posso venire. La rota non va, la tramoggia è guastata. Se avessi qui le mie figliuole Rota e Tramoggia, verrei subito. Il Re, che con quel peso addosso si sentiva soffocare, disse ai Ministri: - Scendete nei sotterranei, mettete fuori Rota e Tramoggia! Le ho rinchiuse lì io, e ne pago la pena. Fate presto! Non aveva ancora terminato di parlare, che gli stivali caddero per terra, uno di qua e uno di là, affatto vuoti. Il Re si alzò tutto pesto e addolorato, lamentandosi: - Ahi! Ahi! I Ministri tornarono su frettolosi: - Maestà, - dicono - il Re ci ha rinchiuse qui, e il Re ci dee far uscire. Non aveva faccia d'andare a presentarsi alle due sorelle; ma vedendo che gli stivali si agitavano, quasi minacciando nuovi calci, s'avviò lentamente, reggendosi con le mani la schiena pesta e addolorata, lamentandosi: - Ahi! Ahi! Il sotterraneo dov'era Rota, di affumicato e grumoso era diventato bianchissimo; muri e pavimento tutti coperti di farina. - Entrate, Maestà; vi attendevo da un pezzo. Tutt'a un tratto, Rota lo prende per la mano e si mette a girare torno torno come una vera rota di mulino, sballottando il Re che urlava invano: Ahi! Ahi! E si sentiva mancare il fiato. Gira, gira, gira, all'ultimo lo sbatacchia fuori a gambe all'aria e si mette a sedere: - Andate a chiamare mio padre. Il sotterraneo dov'era Tramoggia, di affumicato e grumoso era diventato giallo come l'oro; muri e pavimento tutti coperti di grano. - Entrate, Maestà; vi attendevo da un pezzo. Il Re, malconcio, esitava; ma Tramoggia si fa avanti, lo prende per la mano e comincia ad agitarsi, come una vera tramoggia di mulino, dando scossoni al Re che urlava invano: Ahi! Ahi! All'ultimo, lo sbatacchia fuori a gambe in aria e si mette a sedere: - Andate a chiamare mio padre. Il mugnaio venne lemme lemme, dinoccolato: - Che comanda, Vostra Maestà? - Porta via Rota, Tramoggia, corni, stivali, ogni cosa! - Se Vostra Maestà vuol vivere in pace, le dirò quel che dee fare. - Che debbo fare? - Per un anno, un mese e un giorno, io sarò Re e lei mugnaio. In questo frattempo, le mie figliuole diventeranno Regine davvero. Vostra Maestà, per gastigo, rimarrà a bocca asciutta; né moglie né dote. Che poteva fare il Re con quel mugnaio indiavolato? Piegò la testa. Gli diede il manto e la corona reale, e indossò i panni di lui tutti sparsi di farina. La gente avea ritegno di andare a macinare al mulino del Re. Invano egli si sfiatava a sonare la gran conchiglia marina e a gridare: - Púuh! Púuh! Púu!La rota infradiciva inerte nell'acqua; la tramoggia se la rodevano le tignole, e il Re sbadigliava davanti la porta con le mani in mano, aspettando gli avventori che non venivano mai. Per vivere pescava granchi e ranocchi nel fosso. E se passava qualcuno, lo interrogava: - Che nuove mi date, compare? - Rota si è maritata col Reuccio di Spagna. - Tanto meglio, compare! Ed eran passati sei mesi. Il Re sbadigiiava davanti la porta del mulino con le mani in mano, aspettando gli avventori che non venivano mai. Per vivere, pescava granchi e ranocchi nel fosso. Era diventato magro allampanato. Se passava qualcuno, lo interrogava: - Che nuove mi date, compare? - Tramoggia si è maritata col Reuccio di Portogallo. - Tanto meglio, compare! Ed eran passati altri sei mesi. Finalmente restavano pochi giorni perché il suo gastigo terminasse. Il mugnaio Re venne al mulino accompagnato dai Ministri e da tutta la corte. - La rota è infradicita; la tramoggia è rosa dalle tignole; fatele rifare. Se no, siamo daccapo. E bisognò farle rifare. All'ultimo giorno, il mugnaio Re venne al mulino accompagnato dal Ministri e da tutta la corte. Ma il povero Re che per un anno, un mese e un giorno non avea mangiato altro che granchi e ranocchi, era ridotto in fin di vita. - Ben mi sta! - disse, rivolto al mugnaio. - E giacché ti trovi Re, Re rimani. Detto questo, morì. La gente fu contenta. In un anno, un mese e un giorno, il mugnaio non gli aveva macinati peggio dell'altro. Evviva Re mugnaio! C'era una volta un sarto, che campava la vita mettendo toppe e rivoltando vestiti usati. Nella sua botteguccia ci si vedeva appena; per ciò lavorava sempre davanti la porta, con gli occhiali sul naso; e, tirando l'ago, canterellava: Il mal tempo dee passare,Aveva una figliuola bella quanto il sole, ma senza braccia, ed era la sua disperazione. Le vicine lo aiutavano: oggi una, domani un'altra, si prestavano a vestire la ragazza, a pettinarla, a lavarle la faccia; egli doveva imboccarla. A ogni boccone, brontolava: - Chi non ha braccia, non dovrebbe aver bocca! La ragazza, invece di arrabbiarsi per questo continuo brontolìo, si metteva a ridere e rispondeva: - Dovevate farmi le braccia e non la bocca. La colpa è vostra. - Hai ragione. E il vecchio riprendeva a lavorare, canticchiando: Il mal tempo dee passare,Invece il cattivo tempo peggiorò: gli venne meno la vista, gli occhiali non lo aiutarono più; e gli avventori vedendo quei puntacci da orbo, che facevano parere più brutte fin le toppe, non ne vollero più sapere di lui e del suo lavoro. - Figliuola mia, come faremo? - Faremo la volontà di Dio. Il bel tempo dee venire.Per abitudine, ogni mattina il sarto, aperta la botteguccia, si metteva a sedere davanti la porta con le mani in mano, aspettando gli avventori che non comparivano, e al suo solito canterellava. Un giorno passa una signora, che vicino a lui si china e raccatta da terra un ago lucente: - Quest'ago è vostro, buon uomo. - Grazie. Che debbo farne? A cucire non ci vedo più. La ragazza, sentendo parlare, s'era affacciata alla porta. - Prendetelo voi, bella figliuola. - Non ho braccia, signora mia. - Ve l'appunto sul busto; è un buon ago. Il vecchio disse: - Biscotto a chi non ha denti. Così va il mondo! - Allegro, compare! Il mal tempo se n'è andato,La signora, ridendo, scantonò e sparì. Poco dopo, ecco un avventore con in mano una giacca vecchia, tutta strappi e buchi: - Rattoppatemi questa qui. Vi pago avanti; ecco uno scudo. Verrò a riprenderla domani. Il sarto, vedendosi in mano quello scudo, che arrivava a proposito, non ebbe animo di rispondergli: - A cucire non ci vedo più. - Rimase lì col naso all'aria, stupito della buona fortuna. Andò subito a fare un po' di spesa, e poi si mise a cuocere la minestra, rimuginando le parole dello sconosciuto: Verrò a riprenderla domani. - Figliuola mia, e come faremo domani? - Da qui a domani c'è ventiquattr'ore. Finito di desinare, la ragazza guarda per caso la giacca e dà un grido di sorpresa: la giacca era già bell'e rattoppata, e così bene, che pareva quasi nuova. In una manica c'era appuntato un ago. - È l'ago della signora! Infatti l'ago non era più al posto dove la signora lo aveva messo. - Zitta, figliuola; quest'ago è la nostra fortuna. Il padrone della giacca venne a riprenderla, e rimase contentissimo del lavoro. Chiunque vedeva quella raccomodatura, restava meravigliato. E gli avventori tornarono ad affluire alla botteguccla del sarto. Sul banco c'era sempre una montagna di vestiti vecchi, così stracciati che neppure il cenciaiolo li avrebbe voluti. Il sarto se ne stava tutta la giornata seduto davanti la porta con le mani in mano canterellando: - Il mal tempo se n'è andato,- Sarto, e il lavoro chi lo fa? - Lo faccio io. - Stando con le mani in mano? - Stando con le mani in mano. Verso sera gli avventori tornavano e trovavano tutto bell'e allestito. Le raccomodature erano fatte così bene, che quei vestiti vecchi parevano quasi nuovi. - Sarto, e il lavoro chi l'ha fatto? - L'ho fatto io. - Stando con le mani in mano? - Stando con le mani in mano. Un giorno il Reuccio, passando a cavallo insieme con uno scudiero davanti la bottega del sarto, vide la ragazza che stava a sedere accanto al padre, e rimase incantato di quella bellezza. - Ha un aspetto da Regina! - Ma è senza braccia, Reuccio! - Peccato! Ci ripensò tutta la notte, e il giorno appresso vo!le rivederla. Passò a cavallo, insieme con lo scudiero, e rimase più incantato del giorno avanti. - Ha un aspetto da Regina. Peccato non abbia le braccia! Ci ripensò tutta la notte, e il giorno appresso vo!le rivederla. Giunto davanti la bottega, sentendo canterellare il sarto, fermò il cavallo: - Che canterellate, buon uomo? - Il mal tempo se n'è andato,Il Reuccio intanto teneva fissi gli occhi su la ragazza. Il sarto, che non sapeva chi egli fosse, lo sgridò: - Eh, amico! Che guardate? - Guardo vostra figlia, che è più bella del sole. - Se fosse più bella del sole, rimarreste accecato. - Ahi! Ahi! Il Reuccio portò le mani agli occhi; a quelle parole del sarto gli occhi gli s'erano seccati. Lo scudiero condusse per mano il Reuccio cieco a palazzo, e raccontò quello ch'era accaduto. Il Re e la Regina montarono in furore contro il sarto: - Vecchio stregone! Arrestatelo e conducetelo qui. Lo legarono peggio d'un ladro e lo condussero innanzi al Re. - Maestà, io non ci ho colpaI - Vecchio stregone! O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arrostire vivo vivo! Il povero sarto, dallo spavento, era già mezzo morto. - Maestà, io non ci ho colpa! - Ti do tre giorni di tempo. E lo fece chiudere in una prigione dello stesso palazzo reale. Ogni. mattinal il Re andava a trovarlo, e dallo sportellino dell'uscio gli diceva: - O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arrostire vivo vivo. È passato un giorno. - O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arrostire vivo vivo. Son passati due giorni. Il povero sarto non rispondeva; si struggeva in lagrime, pensando alla figliuola senza braccia, di cui non sapeva niente da più giorni, e che sarebbe rimasta sola al mondo in balìa della cattiva sorte: - Figliuola mia sventurata! E il Re, dallo sportellino dell'uscio: - O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arrostire vivo vivo. Sono passati tre giorni. - Maestà, non ci ho colpa! Grazia, Maestà! Almeno, prima di morire, fatemi rivedere la figliuola! La grazia gli fu concessa. Il Re e la Regina, che avevano sentito magnificare dal Reuccio la grande bellezza di costei, vollero vederla quand'ella venne a palazzo reale. Appena entrata nel salone, dov'essi si trovavano insieme col Reuccio cieco, questi, battendo le mani dall'allegrezza, si mise a gridare: - La vedo! La vedo! Accanto a lei c'è una signora. Il Re e la Regina credettero che il Reuccio fosse ammattito. Dov'era quella signora? - È lì, accanto a lei, e la tiene per la mano. - Per la mano? Se non ha braccia! - Io la vedo con le braccia; ma non vedo voialtri. Il Re e la Regina, per accertarsi se il Reuccio la vedeva davvero, facevano muovere la ragazza, in punta di piedi, pel salone; e il Reuccio la seguiva con gli occhi inariditi: - È lì... Ora si affaccia alla finestra... Ora fa così col capo... Ora si siede per terra; e la signora che l'accompagna fa pure quel che fa lei. Il Re e la Regina, stupiti, non sapevano che pensare di quel miracolo. - Chi è, bella ragazza, la signora invisibile che vi accompagna? - Maestà, non lo so; son venuta sola a palazzo... Ahi! Ahi! La ragazza sentiva acuti dolori nel punto dove avrebbero dovuto essere attaccate le braccia. - Ahi! Ahi! Ed ecco venirle fuori prima la punta delle dita, poi le mani, poi i polsi, poi gli avambracci, poi le braccia intere, bellissime e bianche come l'alabastro. Il Reuccio, urtando il Re e la Regina, si precipita verso la ragazza, le prende ansiosamente le mani e comincia a strofinarsele su gli occhi: - Manine fatate, sanatemi voi! Ma strofinava inutilmente. - Manine fatate, sanatemi voi! Ma strofinava inutilmente. - Zitti - fece il Reuccio. - La signora parla. Il Re e la Regina, dopo tutto quello che avevano visto, erano proprio atterriti di quella signora invisibile. - Che dice? - Manina, manina,Era chiaro: se il Reuccio voleva ricuperare la vista, doveva sposare quella ragazza. La Regina si sdegnò: - Sposare la figlia d'un sarto! Ma il Re, che voleva molto bene al figliuolo, non se lo fece dire due volte. - Siano mani di Reginotta; parola di Re! E gli occhi del Reuccio, toccati dalle mani della ragazza, tornarono a un tratto quali erano una volta, anzi più vivaci e più splendenti. Naturalmente il sarto fu cavato di prigione, e si cominciarono subito i preparativi delle nozze del Reuccio. La ragazza, vestita con gli abiti da Reginotta, pareva davvero un sole. La Regina non sapeva darsene pace, e le faceva ogni giorno mille dispetti. La mattina stessa delle nozze, per avvilirla al cospetto di tutta la corte, le disse: - Reginotta, ho uno strappo nel manto reale; nessuno può rammendarlo meglio di voi. La ragazza, senza scomporsi, andò di là, prese l'ago datole dalla signora e, inginocchiatasi, cominciò umilmente il rammendo del manto della Regina. La Regina, vedendola così rassegnata, diventò una vipera: - Non sapete dare nemmeno un punto! E le strappò di mano il manto reale. - Infatti, - rispose la ragazza - non ho mai dato un punto in vita mia. L'ago intanto era rimasto attaccato alla stoffa, e durante la cerimonia degli sponsali la Regina si sentiva cucire, cucire tutti i panni addosso, senza sapersi spiegare che diamine di lavoro fosse quello. Era così ravviluppata, che non poteva muovere le gambe. E l'ago cuciva, cuciva, cuciva; e quando non ebbe più niente da cucire nei panni, cominciò a cucire questi alle carni della Regina. Figuratevi i suoi strilli! Tentava di strapparsi le vestii ma la cucitura era così forte, che ci voleva ben altro per disfarla. E l'ago cuciva, cuciva, cuciva; e la Regina strillava come una pazza, sentendosi trapassare le carni da quella punta aguzza che non ristava un momento. Braccia, spalle, gambe, l'ago cuciva ogni cosa, cuciva, cuciva, cuciva; e gli strilli della Regina salivano al cielo! Alla fine, non potendone più, si buttò al piedi della Reginotta: - Reginotta, perdono! Salvatemi voi! La Reginotta, che aveva già capito di esser protetta da una Fata, pregò: - Fata benigna, salvatela voi! Appena detto questo, l'ago cessò di cucire, e tutte le cuciture si disfecero da sé. Reuccio e Reginotta vissero felici e contenti, C'era una volta un contadino che aveva una figliuola. Egli andava a giornata; la figliuola filava stoppa o tesseva tela per conto delle vicine: così campavano la vita. Avvenne una gran siccità: nei campi non nacque un filo di erba; e non ci fu più da lavorare per nessuno dei due. Avevano un gruzzoletto, messo prudentemente da parte nel buon tempo, e per parecchi mesi poterono tirare innanzi, vivendo quasi a pane e acqua. Il padre sospirava pensando all'avvenire; ma la ragazza, gioviale anche nella miseria, canticchiava da mattina a sera, come quand'era al telaio e con la rocca al fianco e lo stomaco pieno. Il padre la rabbrontolava: - Con che cuore tu canti? Ci rimane da mangiare appena per altri due giorni! - Quando sarò morta, non canterò più. Mentre parlavano, comparve su la soglia una donna scarna, allampanata, che pareva il ritratto della fame. - Fate la carità, buona gente! - Siamo più miseri di voi - rispose il padre. - Rivolgetevi altrove. La ragazza invece prese la pagnottella, che doveva essere il suo desinare di quel giorno, e la porse alla vecchia: Mangiatela voi per me. - Grazie, figliuola. Intascata la pagnottella, la vecchina cavò di sotto lo scialle unto e stracciato una padellina nuova di rame: - Tieni, figliuola; non ho altro; forse ti servirà. E andò via. La ragazza si rimise a canterellare, picchiando con le nocche delle dita su la padellina che dava un bel suono; poi, per chiasso, la posò sul focolare spento e, ridendo, disse al padre: - Che volete? Una costoletta? Una frittata? E non aveva ancora finito di parlare, che una fiammata si accese, e la padellina cominciò a friggere, spandendo attorno un odore che avrebbe risuscitato un morto. - Oh, che miracolo, figliuola mia! Siamo ricchi! Nella padellina fumavano due costolette da bastare anche per quattro persone; e quando furono cotte, il fuoco si spense da sé. Metà ne mangiarono padre e figlia, metà ne spartirono tra le vicine più povere di loro. L'odore si sentiva per tutta la via. D'allora in poi, a ogni mezzogiorno, la ragazza metteva la padellina sul focolare spento e domandava al padre: - Che volete? Una costoletta? Una frittata? - Una frittata. E poco dopo la frittata era bell'e cotta da poter bastare fino per otto persone. Parte ne mangiavano padre e figlia, parte ne dividevano tra le vicine più povere di loro. L'odore si sentiva per tutta la via. La cosa fece senso. Le stesse vicine che ricevevano la carità, cominciarono a ciarlare: - Come mai padre e figlia, con quella miseria, senza guadagno alcuno, se la scialavano a quel modo? Le ciarle giunsero fino all'orecchio del Re. Giusto in quei giorni la Regina s'era ammalata con un'inappetenza che non le permetteva di prendere nessun cibo, e i medici non sapevano come rimediarvi. La Regina avrebbe voluto qualcosa da ristorarla col solo odore, e il cuoco si stillava il cervello per contentarla. Ma davanti alle pietanze più squisite, la Regina torceva il capo nauseata: - Portatele via; mi si rivolta lo stomaco. Il Re, che aveva sentito parlare del buon odore delle pietanze di quei contadini, disse ai medici: - Proviamo a far preparare il pranzo della Regina da costoro. Forse, per la stranezza, lo gradirà. E mandò a chiamare la ragazza. - Vuoi essere la cuoca della Regina? - Come piace a Vostra Maestà. - Vieni ad abitare nel palazzo reale. - A un patto, Maestà. In cucina, con me, dovrà starci soltanto mio padre. - Soltanto tuo padre. Giunta l'ora del desinare, la ragazza si presentô alla Regina: - Maestà, che volete? Una costoletta? Una frittata? - Una costoletta. La ragazza mandò via di cucina tutte le persone ch'erano a servizio del Re, dal cuoco allo sguattero, si chiuse a chiave di dentro insieme col padre, e mise la padellina sul focolare spento: - Padellina, una costoletta! La Regina all'odore della costoletta fumante nel piatto, si sentì ristorare: - Benedette le tue mani, ragazza mia! Mangiò con grand'appetito, come da più settimane non faceva, e in segno della sua gratitudine regalò alla ragazza una collana di brillanti. - Maestà, questa è collana da Regina, non da contadina mia pari. - Sei Regina anche te, Regina di tutte le cuoche. E gliela mise al collo con le proprie mani. Ogni giorno, a ogni desinare era un nuovo regalo; ora una spilla con un magnifico smeraldo, ora buccole di perle grosse come ova, ora un braccialetto finamente cesellato e tempestato di rubini. - Maestà, è ornamento da Regina, non da contadina mia pari. - Sei Regina anche te, Regina di tutte le cuoche. In corte non si ragionava che di quei mirabili desinari; e i medici erano stupiti che il grave male della Regina fosse già guarito col semplice rimedio o d'una costoletta o d'una frittata, giacché la padellina non dava altro. Un giorno il Reuccio entrò in camera della Regina che ella aveva appena terminato di mangiare l'ultimo boccone. - Che buon odore, Maestà. - Odor di costoletta, Reuccio. Un altro giorno: - Che buon odore, Maestà! - Odor di frittata, Reuccio. - Sempre le stesse cose, Maestà? - Sempre; ma ogni volta hanno un sapore diverso. - E come fa la vostra cuoca? - Se lo sa lei. Il Reuccio entrò in grande curiosità, e volle andare in cucina per vederla lavorare. - In cucina dobbiamo starci soltanto mio padre e io. - Io sono il Reuccio! - Reuccio o non Rcuccio, ho la parola di Sua Maestà; in cucina dobbiamo starci soltanto mio padre e io. Il Reuccio, indispettito, afferrò la padellina ch'era lì tutta affumicata e gliela strofinò nella faccia, annerendogliela come quella d'una mora. Ma da quel giorno in poi, la padellina non frisse più; e il nero del fumo rimase su la faccia della ragazza, quasi fosse stato il color naturale della pelle; né acqua né sapone riuscirono mai a mandarlo via. La Regina, non potendo più mangiare la solita costoletta o la solita frittata, tornò a peggiorare e si ridusse in fin di vita. Il Re, che l'amava più dei propri occhi, montò in furore, e per poco non fece tagliar la testa al Reuccio. Alle preghiere della Regina, si contentò di scacciarlo dal regno coi soli vestiti che si trovava indosso. La ragazza, non avendo più nulla da fare nel palazzo reale, tornò a casa col padre, e tutti e due ripresero la vita consueta: egli andava a giornata, ella filava stoppa o tesseva tela per conto delle vicine; ma non cantava più, né si faceva più vedere su la porta, di casa per via della faccia impiastricciata di nero. Aveva vergogna, temeva d'esser schernita, e spesso esclamava: - Maledetta la padellina e chi me la diè! - Non dire così, non dire così! - sentì rispondersi un giorno. A quella voce fioca, fioca, che veniva dal fondo della stanza, la ragazza si voltò, ma non vide nessuno; e, più arrabbiata, ripeté: - Maledetta la padellina e chi me la diè! - Non dire così, non dire così! - Chi siete che parlate? Mi fate paura. La voce fioca fioca rispose per l'ultima volta lentissimamente: - Non dire così! La sera tornato il padre dal lavoro, ella gli raccontò tutto: - Ho paura di restar sola; fatemi compagnia. Per quel giorno il padre non andò a lavorare; e poiché la ragazza, dalla paura di quella voce fioca fioca, non aveva il coraggio di ripetere la sua maledizione, il padre, che voleva accertarsi se mai non fosse stato effetto della fantasia alterata della figliuola, esclamò lui: - Maledetta la padellina e chi ce la diè! - Ahi! In risposta aveva ricevuto uno schiaffo. Disse il padre: - Andiamo via di questa casa, anzi di questa città. Chi sa che guai ci accadranno, se restiamo ancora qui! Fanno per aprire la porta e non possono smuovere il paletto della toppa; fanno per aprire la finestra e chiamare aiuto, e il lucchetto della finestra è più duro del paletto. - Ah, poverini a noi! Come faremo? Quel giorno, per caso, avevano da mangiare. Il giorno dopo però cominciarono a provar la fame. Erano come murati in casa e non potevano nemmeno gridare al soccorso! - Ah, poverini a noi! Morremo di fame. La padellina stava appesa a un chiodo, pulita e luccicante qual era rimasta dal momento che il Reuccio l'aveva strofinata su la faccia della ragazza. La ragazza la guardava in cagnesco, con gli occhi pieni di lagrime, e si sentiva gorgogliare in gola: Maledetta la padellina e chi me la diè! La vide smuoversi e la sentì risonare come quando la prima volta ella vi aveva picchiato su con le nocche delle dita. La staccò dal chiodo, la posò sul focolare spento, e disse al padre: - Che volete? Una costoletta? Una frittata? - Non avea finito di parlare, che una fiammata si accese, e la padellina cominciò a friggere, spandendo attorno un odore che avrebbe risuscitato un morto. Padre e figlia, a una voce, esclamarono: - Benedetta la padellina e chi ce la diè! Corsero alla porta, ma il paletto non si poteva smuovere; corsero alla finestra, ma il lucchetto era più duro del paletto. Intanto il buon odore delle pietanze si sentiva dalla via. Il Re, saputa la cosa, mandò subito per la ragazza. - Aprite, vi vuole Sua Maestà. - Non possiamo aprire; aprite voi. Il Re manda i magnani per forzare la serratura o sfondare la porta; i magnani tentano, ritentano, ma inutilmente. Manda allora i muratori per fare un gran buco nel muro; ma i picconi dei muratori si spuntano, il muro par fatto di bronzo. La Regina agonizzava. Il Re avrebbe dato la metà del regno pur di vederla risanare con le costolette e le frittate della padellina miracolosa. Che fare con quella serratura, con quella porta e con quel muro che resistevano a tutto? Un giorno finalmente la Regina chiude gli occhi e rimane immobile: la credono morta, e si leva un gran pianto per tutto il palazzo reale. Il Re, dalla disperazione e dal dolore, si strappava i capelli. A un tratto la Regina riapre gli occhi e dice: - Ho fatto un sogno. Mi pareva d'essere stata portata dietro la porta di quella casa, e che il solo odore delle pietanze m'avesse risanata. Maestà, voglio provare se il sogno è veritiero. I servitori presero il letto come una barella e portarono la Regina dietro la porta che non poteva aprirsi. - Regina delle cuoche, fammi sentire almeno l'odore delle tue pietanze, Regina! Non rispose nessuno, e non si sentì odore di sorta. - Regina delle cuoche, fammi sentire almeno l'odore delle tue pietanze, Regina! Non rispose nessuno, e non si sentì alcun odore. Il Re, quasi piangendo, gridò: - Regina delle cuoche, se fai sentire l'odore delle tue pietanze, sarai Regina per davvero. - Maestà - disse Un Ministro - che cosa vi è scappato di bocca! Parola di Re non va indietro. - E non andrà! Partano cento corrieri e vadano in cerca del Reuccio. - E se il Reuccio non vorrà sposarla? - L'adotterò per figliuola, e sarà Reginotta. Si sentì subito un odore delizioso che si sparse per tutta la via. La Regina annusava e rinasceva da morte a vita. Annusavano il Re, i Ministri, il séguito di corte, la folla pigiata nella via attorno al letto della Regina, e tutti si sentivano riempire lo stomaco, quasi avessero desinato lautamente. Per parecchie settimane, nessuno pensò a fare spesa e ad accendere un fornello. Aspettavano che la Regina fosse portata col letto dietro la porta di quella casa, e appena l'odore delle pietanze cominciava a spandersi, si vedevano mille e mille nasi per aria annusare avidamente, e da lì a poco scoppiavano dei grand'Ah! di soddisfazione, come dopo un desinare copioso. I corrieri reali eran partiti subito alla ricerca del Reuccio, ma le settimane passavano, nessuno di essi tornava, e l'odore intanto veniva meno di giorno in giorno con gran terrore del Re e della Regina che non era ancora ristabilita in salute. La gente, preso gusto a quel genere di desinare così buono e che non costava niente, malediva quegli stupidi corrieri incapaci di trovare il Reuccio. Una mattina, inaspettatamente, ecco uno dei corrieri e poi un altro e poi un altro, scalmanati, sfiniti. - Avete trovato il Reuccio? -cNon l'abbiamo trovato. Due giorni dopo, ecco l'ultimo più scalmanato e più sfinito degli altri. - Hai trovato il Reuccio? - No, ma ho trovato chi sa dov'è. È un pastore che guarda le pecore laggiù laggiù. Disse: Indovinami prima quest'indovinello e poi saprai dov'è il Reuccio. Non l'ho indovinato e non me l'ha detto. Che indovinello? - Non ero nato per fare il pastore,- Bestia! È lui! - gridò il Ministro che di smugnere e di tosare se n'intendeva assai. - Conducimi dov'egli si trova. E partì insieme col corriere. Infatti era proprio lui. Ne aveva viste e patite tante, fino a essersi ridotto a fare il guardiano di pecore, che non gli pareva vero tornare Reuccio, anche a patto di sposare la Regina delle cuoche. Appena arrivato, andò a picchiare alla porta che non si poteva aprire. - Sono il Reuccio. Invece della porta si aperse la finestra, e comparve la ragazza con la faccia nera e la padellina in mano; la padellina era affumicata. - Questa è la mia dote. Chi mi vuole per moglieraIl Reuccio esitava; gli sapeva male doversi impiastricciare di fumo al cospetto di tanta gente radunatasi alla notizia dell'arrivo di lui. Poi si strinse nelle spalle, prese la padellina e, chiusi gli occhi, se la strofinò su la faccia, tingendosi peggio di un moro. E mentre la sua anneriva, quella della ragazza ridiventava bianca come la cera. - Ora potete entrare. Infatti la porta si spalancò da sé, e il Reuccio trovò su la soglia la ragazza vestita come una Regina, con la collana, lo spillone, gli orecchini e i braccialetti regalatile quando faceva la cuoca; sembrava una Regina nata, tanto era bella e dignitosa. Il popolo applaudiva: - Viva la Reginotta! Viva il Reuccio! E nello stesso tempo rideva, vedendo costui tutto impiastricciato a quel modo; ma rise per poco. La ragazza prese il grembiule, lo passò su la faccia del Reuccio, e in men che non si dice gliela ripulì. Prima che si sposassero, la Regina era già bell'e guarita. Le feste delle nozze durarono un mese intero. - E della padellina che ne faremo? - disse il Reuccio. - Facciasi un bando: Chi ha una padellina, venga a sfregarla con questa; friggerà da sé egualmente. Figuriamoci che cuccagna! Pareva tutti i giorni un festino. La gente si dava bel tempo, e all'ora del desinare mettevano le padelline sui fornelli spenti: - Padellina, una costoletta! Padellina, una frittata! E tutte le padelline friggevano; la gente mangiava a ufo. Frittate e costolette avevano ogni volta un sapore diverso. Ma, purtroppo, chi non lavora non è mai contento. Cominciarono a brontolare. - Sempre costolette! Sempre frittate! La Fata che aveva regalato la padellina portentosa alla ragazza, in premio della carità da lei fatta; si sdegnò di quell'ingratitudine, e un bel giorno, anzi un brutto giorno, prese di nuovo le sembianze di vecchietta e si presentò alla Reginotta. - Sono quella della padellina. Brontolano: Sempre costolette! Sempre frittate! Ecco qui un'altra padellina, che frigge diversamente. Strofinino le loro con questa e vedranno che miracolo. Corsero tutti, strofinarono, e si trovarono canzonati. Le padelline friggevano, sì, ma le pietanze erano più amare del veleno, e non si potevano mangiare. E per colpa di costoro non c'è più al mondo padelline che friggano da sé. C'era una volta un gessaio che aveva parecchi asini magri e sbilenchi, sui quali caricava i sacchi del gesso da portare a questo e a quello; uno poi, il peggio di tutti, spelato, con un moncherino di coda, pieno di guidaleschi, pareva si reggesse su le gambe proprio per miracolo. Accadde che il Re doveva spedire una staffetta a un Re suo vicino, e voleva la risposta dalla mattina alla sera. I corrieri reali dissero: - Maestà, è impossibile. Non c'è cavallo al mondo che possa fare tanto cammino in una giornata, neppure il vento. Il Re mandò attorno un banditore: - Chi reca la risposta dalla mattina alla sera avrà tant'oro, quanto può portarne il cavallo con cui ha fatto la corsa. Si presentò soltanto il gessaio a cavalcioni dell'asino spelato, pieno di guidaleschi e con la coda mozza. - Maestà, vado io. - Con quest'asino? - Con quest'asino. - E se non porti la risposta dalla mattina alla sera? - Mi farete tagliare la testa. Il Re gli consegnò la lettera, e il gessaio partì. Davanti il palazzo reale e per la via un gran folla si pigiava per vedere lo strano spettacolo. L'asino andava a passi di formica, balenando su le gambe scarne, e con le orecchie ciondoloni. E la gente rideva. - Gessaio, arriverai fra un anno? - Gessaio, ti pesava la testa sul collo? Il gessaio li lasciava dire, e lasciò che l'asino andasse di quel passo fino alla porta della città, senza né gridargli un arri! né dargli un colpo di pungolo. - Gessaio, arriverai fra un anno? - Gessaio, ti pesava la testa sul collo? Passato l'arco della porta dove non c'era gente: - Avanti, focoso! Avanti, focoso! L'asino rizza le orecchie, agita il moncherino della coda, e via come un lampo. Verso il tramonto, il Re s'era affacciato a un balcone per vedere arrivare il gessaio: - Se non arriva questa sera, gli faccio tagliare la testa. Davanti il palazzo reale e per la via s'era radunata la stessa folla della mattina, curiosa di vedere come il gessaio se la sarebbe cavata. A un tratto: Largo! Largo! Ed ecco il gessaio a cavalcioni dell'asino che, a testa bassa, con le orecchie ciondoloni, balenava su le gambe scarne, e pareva sul punto di tirare l'ultimo fiato. - Maestà, ecco la risposta. Non c'era che dire; la lettera portava tanto di sigillo del Re ed era scritta tutta di suo pugno. - Per l'oro, vieni domani. - Come piace a Vostra Maestà. E la gente: - Bravo, gessaio! Evviva l'asino dai guidaleschi! Ora dovresti fargli la coda d'oro, gessaio. La mattina dopo egli si presentò con l'asino a palazzo. - Maestà, son venuto pel mio carico d'oro. - Te ne do il doppio; dammi anche l'asino. - Maestà, la bestia fa comodo a me; non la vendo. - Va bene - disse il Re impermalito. - Gli sia dato quel che gli spetta. Il Ministro credeva che sarebbero bastate due, tre verghette d'oro; pesavano un buon poco. - Ce ne vuole delle altre. Mettono sul basto un'altra verga, poi un'altra, poi un'altra; qualunque animale sarebbe rimasto schiacciato da quel gran peso. L'asino, invece, pareva avesse addosso fuscellini non verghe d'oro; più gliene caricavano e più arzillo diventava. Il Ministro corse dal Re: - Maestà, non basteranno tutte le verghe d'oro che voi possedete. Il Re volle vedere, quel portento coi propri occhi. L'asino aveva su la schiena una montagnola e non pareva che fosse il fatto suo. - Maestà, ce ne vuole ancora. Aggiungono un'altra verga, e poi un'altra, e poi un'altra; ma l'asino, più gliene caricavano, e più arzillo diventava. - È anche troppo! - disse il Re stizzito. - Va' via! - Il bando prometteva: Avrà tant'oro, quanto può portarne il cavallo con cui ha fatto la corsa. - Diceva: cavallo, non asino. Se ti do tutto questo, è proprio per grazia· Va' via! - Allora non ne voglio niente. Asino mio, rendi l'oro. L'asino diè uno scossone, e tutte le verghe caddero di qua e di là per terra. Il gessaio montò a cavalcioni su la sua bestia: - Avanti, focoso! E l'asino via di corsa, con le orecchie fitte, agitando il moncherino della coda. Li per lì, il Re rimase sbalordito dell'arroganza del gessaio. Rinvenuto dallo sbalordimento, montò in furore: - Né verghe d'oro, né asino! E mandò le guardie alle fornaci del gesso, perché menassero l'animale alle stalle reali. Le guardie, armate fino ai denti, partono subito e trovano il gessaio che caricava i sacchi del gesso sui suoi somari magri e sbilenchi. - Sua Maestà vuole l'asino dai guidaleschi. - Il Re è padrone anche della mia vita. L'asino è lì; menatelo via. Fanno per accostarsi, e l'asino si rivolta, spara calci alle gambe e alla schiena delle guardie, dà morsi che levano brani di carne. Il Re, alla vista delle guardie conciate a quel modo, perdé il lume degli occhi: - Andate a dire al gessaio, se fra un'ora l'asino dai guidaleschi non è nelle stalli reali, ci va della sua vita. Il gessaio rispose: - Il Re è padrone; fra un'ora, il mio asino mangerà la biada nelle stalle reali. E glielo menò lui medesimo. - Maestà, ci rivedremo da qui a un anno. - Che intendi dire? - Niente. Ci rivedremo da qui a un anno. E, con le mani. in tasca, s'allontanò tranquillamente. Il Re volle provare da sé la valentìa dell'animale. Ordinò lo conducessero nei giardini reali, bardato bene, con sella e briglia, e vi montò a cavallo: - Avanti, focoso! L'asino partì come una saetta, e, in men che non si dice, percorse tre volte tutti i viali. Quei guidaleschi però facevano schifo al Re. Quantunque ora mangiasse quanta biada voleva, l'asino non ingrassava punto, e le sue piaghe rimanevano aperte come prima. Il Re chiamò un maniscalco: - C'è un rimedio ai guidaleschi? - Maestà, in otto giorni ve li do belli e sanati. Infatti, otto giorni dopo, l'asino non si riconosceva più. Era grasso e tondo, col pelo lustro, e dei suoi tanti guidaleschi non si scorgeva nemmeno il segno. Il Re pensò di fare una passeggiata a cavallo, e ordinò gli si sellasse quell'asino; la corte, tutti a cavallo, doveva precederlo con gran pompa. Una folla immensa s'accalcava davanti il palazzo reale per godersi lo spettacolo. Ed ecco la sfilata, e dietro a tutti il Re montato su l'asino. Appena uscito fuori del portone, l'asino non vuole andare né avanti, né indietro. - Avanti, focoso! Avanti, focoso! Che avanti focoso! Era come dire al muro. Impuntatosi, col collo teso, l'asino pareva incantato. Invano il Re si sgolava: - Avanti, focoso! Avanti, focoso! E accompagnava le parole con colpi di sprone. Niente. All'ultimo, l'asino si mette a ragliare e a far le boccacce, fra le risate di tutto il popolo, con gran dispetto del Re. A un suo cenno, i servi chi dà all'asino pedate alla pancia, chi legnate sul groppone, chi punture in tutte le parti; ma l'asino, duro; raglia, fa boccacce. E per non restare lì esposto alle risate della gente, il Re dovette scendere da sella e rientrare in palazzo. La bella cavalcata andò a monte. Figuriamoci la rabbia del Re! Intanto la fama di quell'asino dai guidaleschi e che correva più del vento, s'era sparsa pel mondo; e un giorno il Re ricevette una lettera del Re suo amico e vicino, che gli chiedeva in grazia di mandarglielo a vedere per pochi giorni. Imbarazzato, glielo spedì, facendogli sapere che l'animale aveva perduto, non si sapeva come né perché, la sua virtù, ed era invece diventato un somaraccio intrattabile. Quel Re non gli credette, si stimò canzonato ed offeso; e, per vendicarsi, levò su l'esercito e gl'intimò la guerra. L'altro, levato anche lui l'esercito, gli corse incontro. Appiccò battaglia, con gran sangue, ma fu sbaragliato; a stento poté ricoverarsi sano e salvo dentro le mura della capitale. Nel salire le scale di palazzo, sente l'asino che raglia. - Che ha quel somaraccio? - Raglia da tre giorni, da mattina a sera. Con la guerra, chi poteva badare a governarlo bene? Ed è ridiventato magro e spelato e tutto coperto di guidaleschi qual era una volta. E raglia, raglia, raglia, quasi chiami il suo antico padrone. Il Re si sovvenne delle parole del gessaio: - Maestà, ci rivedremo da qui a un anno. - Era giusto un anno da quel giorno. E il disastro della guerra gli era appunto cascato addosso per cagione del somaraccio! Mandò a chiamare il gessaio. - Perché dicesti: Maestà, a rivederci da qui a un anno? - Me l'aveva detto l'asino. - Parla quell'asino? - Parla; lo intendo io solo. - Va' a sentire che ti dice. Il gessaio scese in istalla, e l'asino subito: - Aah! Aah! Aah! Aah! Aah! - Maestà, dice... E si fermò. Di' pure! ambasciatore non porta pena. - Dice: Se il Re mi dà la Reginotta, gli faccio vincere la guerra. - Proprio così? - Proprio così. Il Re rimase perplesso. La Reginotta in isposa a un asino coi guidaleschi e la coda mozza? Poteva mai essere? Quell'asino però non era un asino simile agli altri. - Qui c'è un mistero! - disse il Re. E radunò il Consiglio della Corona. I consiglieri, udita la cosa, si guardarono in viso; non sapevano che consigliare. Soltanto uno ebbe il coraggio di rispondere: - Maestà, io direi sì. Vinciamo, se sarà vero; poi il tempo dà consiglio. Il gessaio riferì all'asino la risposta del Re; e l'asino: - Aah! Aah! Aah! - Maestà, dice: Prima sposare, poi andare alla guerra. Messo dalla necessità con le spalle al muro, giacché il nemico era quasi alle porte, il Re acconsentì. E l'asino fu sposato alla Reginotta, che gettava dagli occhi due fiumi di lagrime, poverina, e voleva piuttosto morire che essere moglie di quel somaraccio schifoso. - Ora vedrete, Maestà - dice il gessaio. - Chiamate a raccolta i soldati e fate aprire le porte. Monta su l'asino con la spada sfoderata, e: - Avanti, focoso! Al solo raglio, i nemici furono presi di tale paura che non ci vedevano dagli occhi; fuggivano, lasciandosi scannare come pecore; e l'asino, salta di qua, balza di là, a furia di calci ne ammazzò più di migliaia. - Avanti, focoso!. Soldati, avanti! Insomma fu un massacro, e ci lasciò la vita anche il Re che aveva intimato la guerra. - E l'asino, gessaio? - Maestà, il povero asino è morto in battaglia. - Tanto meglio! - esclamò la Reginotta, che non le pareva vero. - Fatelo scorticare, e portatemene la pelle. All'ordine del Re, partono gli scorticatori e trovano l'asino in mezzo ai morti, con le gambe all'aria, Cominciarono dallo scorticare le gambe davanti, ed ecco che sotto la pelle compariscono due piedi umani, che muovevano le dita quasi volessero sgranchirli. Scappano atterriti: - Maestà, dentro la pelle di quell'asino c'è un uomo vivo. Non abbiamo il coraggio di scorticarlo. Accorse, il Re, seguito dal Ministri e da tutti i cortigiani; e visto quei piedi di uomo, invece degli scorticatori, fece chiamare i chirurghi di corte perché operassero più delicatamente con l'arte loro. Ma i ferri dei chirurghi non riuscivano a staccare la pelle. - Maestà, - disse il gessaio - qui ci vuole la mano della Reginotta; e se non fa subito, guai a voi! Il Re che ora, trattandosi di quell'asino, non dubitava più di nulla, senza por tempo in mezzo, mandò a chiamare la Reginotta. - Figliuola mia, scorticalo tu; se no, guai a noi! Aveva ribrezzo e paura; ma sentendo quel: Guai a noi!, la povera Reginotta afferrò con le dita tremanti il lembo di pelle staccato, e nel tenderlo si accorse che si staccava da sé. Allora tirò forte, e fu come se avesse strappato una coperta. Dell'asino non rimaneva più niente, e un bel giovane, riccamente vestito, si rizzava in piedi con tanto di occhi sbalorditi, quasi si destasse da un sonno profondo. - Chi sei? Quegli apre la bocca per parlare; ma invece di parole gli scappa un sonoro: Aah! Aah! Aah! un bel raglio accompagnato da gesti, e dietro, fuori dell'abito, gli s'agitava un moncherino di coda, quello dell'asino morto. Lo condussero a palazzo. Tutti ammiravano il corpo ben conformato e il bellissimo aspetto di quel giovane. Peccato che, in cambio di parlare, ragliasse! - Che si può fare, gessaio? Maestà, il bando prometteva: Avrà tant'oro quanto può portarne il cavallo con cui ha fatto la corsa. E io finora non ho avuto niente. - Che c'entri tu con costui? - Il suo destino vuole così. Una Maga lo incantò, mutandolo in asino, per vendicarsi dei parenti di lui che le avevano fatto un'offesa. Venne da me e mi disse: Vuoi comprare quest'asino? Dovresti darmi la moneta d'oro che ti trovi in tasca. Non te ne pentirai; a suo tempo, ti frutterà più del mille per cento. E mi spiegò ogni cosa. Se io non ho il mio oro, non posso rivelare in che modo il Reuccio può riaquistar la parola. E sappiate che costui è proprio di sangue reale. Il Re condusse il gessaio nella stanza del tesoro. Serviti con le tue mani; prendine quanto ne vuoi. Il gessaio si caricò peggio d'un somaro, portò l'oro a casa sua e ritornò a palazzo. - Maestà, ora tocca a voi. Dovete, a forza di braccia, strappargli quel moncherino. Il Re si rimbocca le maniche, afferra con le due mani il moncherino, e tira, e tira, e tira; ma non c'era verso. Sudava, sbuffava, non ne poteva più. - Forza, Maestà! Tira, tira, tira; non c'era verso. - Forza, Maestà! La Reginotta, i Ministri, tutti i cortigiani che stavano attorno, vedendo gli sforzi del Re, si sforzavano anche loro quasi avessero tutti in mano un moncherino di coda; e gridavano: - Forza, Maestà! Il Reuccio, volendo gridare insieme con gli altri: Forza, Maestà! si mise invece a ragliare: - Aah! Aah! Aah! Il moncherino si strappa, e il Re, con esso in mano, batte la schiena per terra. - Grazie, Maestà! Il Reuccio parlava; l'incanto era finito. E Finisce pure la fiaba. C'era una volta due vecchietti, marito e moglie, che vivevano poveramente. Non potevano più lavorare, e pensavano con terrore ai giorno in cui avrebbero finito di mangiare quel poco messo da parte in tant'anni di fatiche e di stenti. Si eran voluti sempre bene, eran sempre vissuti in pace, contenti di quel che guadagnavano, senza invidiare gli altri, senza desiderare niente che sorpassasse la loro modesta condizione. E così erano arrivati alla vecchiaia. Ora però, fra le privazioni e gli acciacchi, ripensavano con dolore al bel tempo della loro giovinezza. Facendo il confronto tra quelli che erano stati e quelli che erano, al presente, quasi non si riconoscevano più. Curvi, canuti, tutti grinze, senza denti, coi piedi strascicanti, si mettevano al sole davanti la porta di casa, e stavano lì lunghe ore a guardare i bambini che facevano il chiasso. - Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? E crollavano la testa. D'inverno andavano a letto di buon'ora; almeno nel letto stavano caldi. E anche lì, quando non potevano dormire, ricominciavano: - Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? Era di dicembre; nevicava, faceva un gran freddo. Neppure nel letto essi riuscivano a scaldarsi. Sentirono dei picchi alla porta e un lamento: - Datemi alloggio per questa notte! Non mi fare morire in mezzo alla via! - Apriamo? - disse la moglie. - Apriamo. Entrò una vecchina come loro, tutta coperta di neve, inzuppata d'acqua e inzaccherata. - Chi siete? Dove andate? - Sono la Fortuna; vado pel mondo. - Siete la Fortuna? Con quei cenci? Con quelle ciabatte? - Per non farmi riconoscere. I due vecchietti si rallegrarono in cuor loro. La Fortuna prima di andar via gli avrebbe lasciato un bel regalo. E le fecero posto nel letto, in mezzo, perché stesse meglio. La mattina, prima dell'alba, la vecchina era in piedi: - Non mi chiedete niente? Marito e moglie si consultarono, imbarazzati. - Che chiedere? Ricchezze? Non se le sarebbero potute godere. Onori? Non sapevano che farne. Salute? Per vecchi, non stavano male. Che chiedere? - La fanciullezza! - disse la moglie. - Avremmo tutto con essa! - disse il marito. - Nient'altro? - domandò la Fortuna. - Nient'altro! - Ecco qui. E porse una boccettina con poche stille d'acqua limpida dentro: - Bevete e vedrete. I due vecchietti volevano aprir la porta per farla uscire; si voltarono; ma la Fortuna era già lontana cento miglia. - Buon viaggio! - E buon ritorno! Marito e moglie si fregarono le mani dalla contentezza. - Ora beviamo. - Sono proprio due stille. Guarda, una per me, una per te. - Berrò io la prima. - No, berrò io. Cominciarono a leticare. - Non hai fiducia in me, marito mio? - E tu? - Io ti ho sempre voluto bene; ho fatto tanti sacrifizi per te. L'hai dimenticato dunque tutt'a un tratto? - Ed io? L'hai dimenticato? Sono il marito, devo bere il primo. - Sono donna, perciò tocca a me! - Dividiamo le gocce. - Dividiamole. Sarà meglio. Le divisero e bevvero; ma continuarono a leticare. - Io non provo niente, forse perché non me n'hai dato abbastanza! - Neppure io provo niente. Forse quella vecchia ci ha canzonati. - Ho sonno; andiamo a letto. - Andiamo a letto. E, imbronciti, si coricarono. - Fatti più in là! Sto proprio su l'orlo. - Io sto per cascare. La moglie diè uno spintone, il marito un altro; il letto traballava. Avevano una forza insolita. Ah! L'acqua operava. Allora si chetarono, aspettando. La mattina, allo svegliarsi, si trovarono diventati ragazzi. Ma non si riconoscevano. - Tu chi sei? E che ci fai qui? - Io sono a casa mia. E tu chi sei? - Che t'importa? Facciamo il chiasso. - Facciamo il chiasso. E si misero a ruzzare sul letto, con salti e capriole. Più tardi, aprirono la porta e si trovarono nella via. - Tu per dove vai? - Per qua. Io per quest'altra parte. Si voltarono le spalle, senza neppur salutarsi, e se n'andarono ognuno pei fatti suoi. Il ragazzo incontrò un signore. - Vuoi prender servizio, ragazzo? - Che devo fare? - Strigliare i cavalli e portarli a bere alla fontana. Una mattina egli vide passare davanti la scuderia la ragazza, con cui aveva fatto il chiasso sul letto tra salti e capriole. - Oh! Tu? - Sono a servizio. - Sei contenta della padrona?. - Chè! Mi sgrida, mi picchia per un nonnulla. - Anche lo stalliere mi sgrida e mi picchia per un nonnulla. Vado a cavallo però, quando vo ad abbeverare le bestie. - Io vo in carrozza con la signora, quando porto il bambino. - Se fossi grande, non mi picchierebbero! - Neppur me, se fossi grande! La padrona chiamava dalla finestra, lo stalliere chiamava dalla stalla. - Fannullona! - Fannullone! E scapaccioni e strilli su in casa; e scapaccioni e strilli giù in istalla. Pochi giorni dopo, egli vide passare davanti la scuderia la ragazza che piangeva: - Che hai? - La signora mi ha mandata via. - Vado via anch'io. Andiamo insieme? - Dove? - Dove ci portano le gambe, Cammina, cammina, cammina, si spersero in mezzo a un bosco. Si faceva buio, e non riuscivano a trovare la strada. Cominciarono a strillare: - Ah, mamma mia! Come faremo? - Perché piangete, ragazzi? - Nonnina, dateci aiuto! Abbiamo smarrita la strada. - Non mi riconoscete? - Non vi abbiamo mai vista. - Sono la Fortuna. Che volete? Chiedete e vi sarà dato. I ragazzi si consultarono, imbarazzati. - Che chiedere? Ricchezze? Gliele ruberebbe il primo che capitava; non si potevano difendere. Se potesse farci diventar grandi, e darci un po' di denaro, tanto da non dover star a servizio in casa altrui! - Nient'altro? - Nient'altro. - Prendete; mangiate queste due focacce, e poi schiacciate queste due noci. Vedrete. E sparì. Mangiarono le focacce e si addormentarono. La mattina, svegliandosi, si avvidero di esser cresciuti di una ventina d'anni almeno; ma non si riconoscevano. - Chi siete? Che fate qui? - Sono una boscaiola. Faccio legna. E voi? - Sono un boscaiolo; faccio carbone. - Ho una noce: è la fortuna. - Ne ho un'altra anch'io. Le schiacciarono e ne sgusciarono fuori tante monete d'oro, nuove di zecca. - Questa è la mia dote. - E questa è la mia. Si sposarono, e lavoravano da mattina a sera. Lei faceva legna e lui faceva carbone. Ma era una vita dura. Pure mettevano sempre qualcosa da parte. - Ci servirà per quando saremo vecchi. Spesso si lamentavano: - Che vitaccia! E contavano i quattrini già messi da parte. Erano molti, non però ancora abbastanza da potere passar bene la vecchiezza. - Quando saremo vecchi, ci riposeremo. - C'è ancora tempo, marito mio. Una notte udirono rumore attorno alla capanna, e voci cupe che dicevano: - Tu qua; tu là; io dalla porta, tu dal tetto! - Oh, Dio! Sono i ladri. Marito e moglie si sentirono gelare. Uno scassinava la porta, uno sfondava il tetto: - Non vi muovete o siete morti! Dove sono i quattrini? Erano più morti che vivi soltanto per lo spavento di quelle facce barbute che gli appuntavano i pugnali alla gola: - Dove sono i quattrini? - Eccoli lì. I ladri fecero repulisti e andarono via. La mattina dopo marito e moglie non avevano forza di lavorare e piangevano in mezzo al bosco: - Poveri a noi! Come faremo? - Che avete, buona gente? Perché piangete? - Ah, nonnina! La notte scorsa siamo stati spogliati dai ladri! - Non mi riconoscete? Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. Marito e moglie si consultarono, imbarazzati: - Che chiedere? Il meglio sarebbe stato una tranquilla vecchiezza, con tanto da non stentare fino alla morte. - Nient'altro? - Nient'altro. - Ecco qui. Mangiate queste due pere e vedrete. In questa borsa poi ci sarà sempre del denaro. Più ne spenderete e più ne troverete. Prima che le dicessero grazie, era sparita. Marito e moglie mangiarono ognuno la sua pera e si addormentarono. Allo svegliarsi, strascicavano i piedi. E si ricordavano di ogni cosa passata. - Che sciocchi! Abbiamo rifatto la stessa vita! Non metteva conto. Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? Erano tornati ad abitare la loro casa d'una volta. Si mettevano al sole davanti la porta e stavano lì lunghe ore a guardare i bambini che facevano chiasso. - Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? - Che sciocchi! Abbiamo rifatto la stessa vita. Non metteva conto. Già, farne un'altra sarebbe stato lo stesso. Fanciulli, giovani, vecchi! O poveri o ricchi, s'invecchia tutti; e tutti dobbiamo morire! Spendevano e spandevano; mangiavano bene, si prendevano ogni sorta di divertimenti, e non avevano nessun pensiero dell'avvenire; la loro borsa era sempre piena; più quattrini ne cavavano e più ce n'era. Sarebbero stati felici, se non li avesse angustiati il pensiero fisso della morte. Ogni giorno che passava, era un passo verso la sepoltura. Non se ne davano pace. Una mattina stavano seduti, al solito, davanti la porta per godersi il sole. - Chi sa, marito mio, se rivedremo il sole domani! - Eh, chi lo sa, moglie mia! Videro accostarsi una vecchina: - Fate la carità! - Siete più vecchia di noi; quant'anni avete? - Gli anni miei non si contano. Non può contarli nessuno. La guardavano sbalorditi. - E camperete molt'altri anni ancora? - Finché ci sarà mondo. - Chi siete? - Non mi riconoscete? Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. Prima di mill'anni, non ripasserò da queste parti. Marito e moglie si consultarono, imbarazzati: - Che chiedere? Gioventù, ricchezze, tutto passava, tutto andava via. Se non si potesse morir mai! L'unica felicità sarebbe questa. - Se non chiedete altro; vi sarà concessa. - Non chiediamo altro. - Ecco qui. E porse una boccettina con poche gocce di un liquore rosso dentro, che pareva sangue. - Bevete, e vedrete. Prima che potessero dirle grazie, era sparita. - Berrò io il primo. - No, berrò io. - Sono il marito; devo bere il primo. - Sono donna, perciò tocca a me. - Facciamo come l'altra volta; dividiamo le gocce. - Dividiamole; sarà meglio. Le divisero e bevvero. Si sentirono diventare quasi di acciaio. - Oh, che felicità, moglie mia! Non morremo mai! - Oh, che felicità, marito mio! Non morremo mai! Passarono più di cento anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, curvi, canuti, tutti grinze, senza denti, coi piedi strascicanti, e ogni giorno stavano lunghe ore davanti la porta, al sole, a guardare i bambini che facevano il chiasso: - Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? Ma non erano però così contenti come avevano creduto di dover essere. Tutto cangiava attorno a loro, tutto moriva attorno a loro. Non si potevano affezionare a nulla e a nessuno, che già se lo vedevano portar via dalla morte. Passarono più di mille anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, impresciuttiti; ma ora, sedendo davanti la porta al sole, non badavano più ai bambini che facevano il chiasso; non ripetevano più: Ricordi, marito mio? Ricordi, moglie mia? Sbadigliavano: - Oh, Dio, che noia! - Sempre la stessa storia! Non ne potevano più. Avevano visto tante e tante cose, tanta gente, tanti avvenimenti: guerre, fami, pestilenze, feste d'ogni sorta, cose belle, cose tristi, tante, tante, tante! Ma, infine, gira e rigira un continuo nascere, un continuo morire; gira e rigira, sempre quella! Non ne potevano più; si sentivano sazii di esser vissuti tanto, stanchi di vivere ancora. - Che facciamo, moglie mia! Io vorrei morire. - Anch'io. Chiamiamo la morte. Se non la chiamiamo, non viene. E la chiamarono ad alta voce: - O Morte! O Morte! Accorse, scheletrita, con la falce in mano. - Che volete da me? - Vogliamo morire. - Non posso toccarvi; la Fortuna non vuole. Si sentirono stringere il cuore. Passarono altri cento anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, impresciuttiti; ma ora non si vedevano più neppure avanti la porta per godersi il sole: erano sazii anche di esso che appariva tutte le mattine dalla stessa parte e andava a coricarsi tutte le sere nella stessa parte. Il sole però non si annoiava mai, non si stancava mai! - Noi no, è vero, moglie mia? - Sì, è vero, marito mio! - E la Fortuna non si vede più! - Dovrà ripassare. Ripasserà. L'attesero altri cent'anni. Finalmente rivenne e non al solito da vecchina, ma sotto l'aspetto di bellissima donna, con lunga veste cosparsa di oro, di perle, di diamanti. Non la riconobbero. - Chi siete? - Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. - Ah Fortuna, Fortuna! Non vogliamo nulla; vogliamo morire! - Va bene; uno oggi e subito subito, l'altro fra cent'anni. - Perché non insieme? - Non si può; uno oggi, subito subito, l'altro fra cent'anni. - Marito mio, per amor tuo, scelgo di morire io fra cent'anni. - Moglie mia, per amor tuo, cedo il posto quest'oggi. - Non siete più a tempo! A rivederci fra altri cento anni. E per cento anni, marito e moglie leticarono continuamente: - La colpa è tua. A quest'ora saremmo bell'e morti e dormiremmo in pace sottoterra! - La colpa è tua! Ah! Perché non abbiamo lasciato andare le cose pel verso loro. Contavano i giorni, le ore, i minuti, e leticavano fin sul conto di essi, tanto smaniavano di veder arrivare la Fortuna. - Eccomi. Chiedete e vi sarà dato. - Ah, Fortuna, Fortuna! Non vogliamo niente: vogliamo morire; non ne possiamo più! - Vado a chiamare la Morte. I vecchietti, contentissimi, imbandirono una bella tavola, e indossarono gli abiti di festa. La gente, meravigliata, domandava: - Che vi accade, vecchietti? - Oggi le cose tornano ad andare pel verso loro. È il verso giusto, tenetelo a mente! E caddero bocconi, freddi stecchiti. La Morte era arrivata senza ch'essi se ne accorgessero. Fiaba oscura, nespola dura EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Capuana: Tutte le fiabe", Grandi Tascabili Economici n. 172, Newton Compton Editori s.r.l., Roma, 1992 |
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