Luigi Capuana - Opera Omnia >> Scurpiddu |
ilcapuana testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia # A Michele La Spina Scrivendo questo racconto, che non è poi destinato soltanto ai ragazzi, avevo sotto gli occhi la fotografia del Faunetto da te abbandonato, non finito e polveroso, in un angolo del tuo studio in via Margutta; e spesso mi sembrava che la mirabile figurina, intenta ad accordare le cannucce della sua siringa, rivivesse nel mio Scurpiddu su per le colline dell'Arcura o sotto gli ulivi del Piano del Galluzzo. Forse, in tempi remotissimi, qualcuno di questi gai e giovani egipani fu visto errare colà dalla immaginazione dei siculi abitatori di caverne: e il suo rustico strumento, nei meriggi tanto propizi alle apparizioni delle deità, fu udito risonare per quella stessa vallata dove ora Scurpiddu faceva risonare lo zùfolo di canna in mezzo al branco dei tacchini pascolanti tra l'erba. Così mi è parso che un sereno riflesso della semplicità antica, da te genialmente riprodotta nella figurina del Faunetto, si diffondesse anche sul mio lavoro, di mano in mano che le pagine di Scurpiddu mi si ammucchiavano davanti. E per ciò crederei di non aver sciupato il mio tempo intorno a una creatura affatto ignara delle tormentatrici complicazioni psicologiche di cui tutti siamo vittime oggidì, se i lettori sentissero in questo racconto un'eco, sia pure affievolita, della mite poesia di Teocrito non spenta ancora nelle nostre campagne siciliane. Se poi la dedica del mio libro potesse indurti, caro La Spina, a finire il Faunetto a cui ora voglio bene più di prima, io ne sarei lietissimo come di una buona azione, e con me quanti hanno il culto delle belle e rare opere d'arte. LUIGI CAPUANA
Massaio Turi gli si era fermato davanti, domandandogli: - Dove vai? Che fai qui? Il ragazzo lo guardò sbigottito, grattandosi il capo. - Come ti chiami? Di chi sei figlio? - Mi chiamo Mommo. Sono figlio di compare Pino. - Che fai qui? - Niente. - E dove vai? - Non lo so. Vengo da Palagonía. - Che facevi colà? - Niente: domandavo l'elemosina. - Bel mestiere t'insegnava tuo padre! - È morto mio padre. - E tua madre? - Chi lo sa dov'è! Io guardavo i tacchini del notaio. - Quale notaio? - Del notaio; lo chiamano così. Mi ha mandato via. - E perchè ti ha mandato via? - Dice che ho perduta una tacchina. - Dice? L'hai perduta davvero. - È sparita. L'ho cercata tanto! - E poi ti sei messo a domandar l'elemosina! - Che potevo fare? Avevo fame. - E ora come sei qui? Dove vai? - Non lo so. A Palagonía gli altri ragazzi mi picchiavano. - Su, prendi la giacchetta e vieni con me. Il ragazzo obbedì. Lungo la strada, massaio Turi continuò a interrogarlo. - Quanti anni hai? - Nove anni. - Vuoi allogarti per guardare i miei tacchini? Sono molti, più di cinquanta. - E se poi ne perdo uno? - Starai attento. Ti do da mangiare e i vestiti. Come si chiamava tuo padre? - Compare Pino. È cascato da un albero di ulivo, l'altr'anno, prima di Natale, ed è morto. Io non c'ero. - Ah!... Compare Pino Scagghiu. Povero diavolo! Lo conoscevo. E non hai più nessuno? - Ho la mamma, ma non so dov'è. È andata via quando era vivo il babbo, che l'ha fatta cercare anche dai carabinieri. Chi lo sa dov'è? È andata via l'anno della mal'annata. - Non importa. Ti farò io da padre, e mia moglie da mamma, se tu sei buono. Hai mangiato oggi? - Mi ha dato una fetta di pane un capraio questa mattina, lassù. E indicava la collina. - E se non t'incontravo io, come facevi? - Restavo là dov'ero seduto: avevo paura. - Quanti erano i tacchini del notaio? - Quindici. - E le scarpe dove l'hai lasciate? Il ragazzo sorrise, quasi si sentisse canzonato. - Dove? - insiste massaio Turi. - Dal calzolaio. Chi dovea comprarmele le scarpe? E sorrise di nuovo, contento della risposta. - Bravo! Massaio Turi accompagnò l'approvazione con un leggero scappellotto che voleva essere una carezza. Quel ragazzo bruno, magro, con quegli occhi neri, intelligenti e pieni di tristezza, con quei capelli neri, arruffati, che gli camminava a lato serio e fiducioso, facendo piccole sgambate per tenersi a paro dei larghi passi delle lunghe gambe del compagno, e che di tratto in tratto alzava la testa e lo guardava con occhi meravigliati e riconoscenti, lo aveva subito commosso. In quella commozione entrava un po' il ricordo di un figliuolo perduto due anni addietro, a nove anni, bruno e magro come quel ragazzo. Una febbre maligna gliel'avea portato via in cinque giorni, e gli aveva lasciato una gran piaga nel cuore. In quel momento che scendevano, zitti, pel viottolo, gli sembrava che il figlio morto gli avesse mandato dal Paradiso quell'anima del Purgatorio, come egli chiamava il ragazzo nel pensier suo, e glielo raccomandasse. Per ciò pensava pure: - La massaia sarà contenta anche lei. Le dirò: Ce lo manda quell'angioletto! E a voce alta soggiunse: - Quella laggiù è la masseria. Si vedevano tra gli alberi i tetti grigiastri del casamento e qualche finestra. Una strada larga e tortuosa, fiancheggiata da muricciuoli, serpeggiava tra i campi verdeggianti. Si udiva il campanaccio dei buoi e delle vacche che tornavano dal beveratoio, e gli abbai dei cani. Il cielo era coperto di nuvole rossicce. Una gran pace si diffondeva attorno di mano in mano che più calava la sera. Massaio Turi e Mommo camminavano silenziosi, affrettando il passo dopo che dalla scorciatoia stretta tra due ciglioni erano sbucati nella larga strada che conduceva al beveratoio e di là, svoltando a destra, alla masseria. Avevano raggiunto i buoi e le vacche coi vitelli che andavano lentamente, seguiti dal bovaro con la sacca a tracolla e il bastone su la spalla. - Gesù e Maria, zi' Girolamo! - Gesù e Maria! - Come va la Stellata? - Meglio, grazie a Dio. - Nuova-legge? - Non zoppica più. - E le Nonne che fanno, zi' Girolamo? - Ma che Nonne! Lasciatemi stare! - Eppure la gente giura che voi siete della combriccola, e che la notte andate attorno con loro. - Io dormo la notte, massaio mio. - Lo so come dormite. Massaio Turi amava scherzare col vecchio bovaro a proposito delle Nonne, esseri fantastici a cui la superstizione popolare attribuisce la facoltà di entrare nelle case pel buco della serratura, conducendo con loro quelli della combriccola, come egli diceva. Lo zi' Girolamo parlava poco: dormiva in modo strano, seduto sul fondo di un corbello rovesciato, di estate all'aria aperta, in mezzo alle sue bestie legate a un cavicchio con una fune attaccata alle corna: d'inverno, sotto la tettoia della stalla, avvolto nel giubboncello di albagio e rannicchiato in un angolo. Così accreditava la voce diffusa tra i contadini ch'egli andasse attorno con le Nonne; se no, dicevano, avrebbe dormito come tutti gli altri cristiani, in un letto, in un giaciglio e non seduto sul fondo di un corbello. Mommo stava a sentire, sbarrando gli occhi, guardando con un senso di paura il vecchio che di tratto in tratto lo guardava anche lui. Mommo credeva alle Nonne, ne aveva udito parlare dalla sua mamma e da altri ragazzi. La sua mamma una volta aveva raccontato alle vicine che le Nonne le avevano levato un bambino dalla culla e glielo avevano deposto sul letto. E poi quel bambino era morto. - Cielo rosso, vento! - sentenziò lo zi' Girolamo dopo una lunga pausa, osservando le nuvole. Intanto giungevano vicino alla masseria. Due grossi cani erano mossi loro incontro, abbaiando e saltellando festosamente attorno al padrone. Visto il ragazzo, ringhiavano minacciosi. Massaio Turi li acchetò con la voce e col gesto, e prese per mano il ragazzo che indietreggiava dalla paura. - Impareranno a conoscerti, - gli disse. E rivolto allo zi' Girolamo soggiunse: - Ho trovato quest'anima del Purgatorio lassù. Sarà il nuzzaru. - Se vuoi mangiar pane, qui si sta bene, figliuolo mio, - fece lo zi' Girolamo. - È figlio di compare Pino Scagghiu, che morì cadendo da un albero di ulivo, l'anno scorso. - Requie materna! - borbottò lo zi' Girolamo. I buoi e le vacche coi vitelli si erano fermati su lo spianato, ognuno al suo posto davanti il proprio cavicchio; e lo zi' Girolamo, prendendo una delle funi, cominciò a legarla alle corna dell'animale che le era più vicino. - Ora vi mando la minestra, - disse massaio Turi. - Santa notte, massaio. Davanti alla porta della casa, la massaia aspettava il suo uomo con la candela a olio già accesa. Dal camino della cucina salivano nugoli di fumo che si assottigliavano e si disperdevano per l'aria sul fondo incupito del cielo. All'apparire di lei con la sporta di giunco piena di becchime, le galline le si affollarono attorno chiocciando e starnazzando. Erano uscite nel vasto cortile insieme coi tacchini: ma questi restavano in disparte, quasi non si degnassero di mescolarsi con quei miseri polli che non potevano fare la ruota come loro, e forse anche perchè sapevano che quel becchime non era per loro. - Socchiudi il cancello e conta. Sai contare? - Sì, - rispose Mommo. - Tieni: questa canna ti servirà per guidarli. Li condurrai lassù, dov'è quel prato: sanno la via, vedrai. Domani verrà con te il massaio a insegnarti altri posti. Questa è la colazione: ti farò una bella sacca poi; per oggi metti il pane in una tasca e il companatico nell'altra, se avrai sete, guarda, sotto quel fico, tra le macchie di rovi, là, a dritta, c'è la fontana. E i tacchini, bada! tienli sempre raccolti, per non perderli di vista. Conta dunque. Spinti avanti dalla massaia, i tacchini cominciarono a sfilare a uno a uno, a traverso il cancello socchiuso, con gran stupore di Mommo. Erano sessantaquattro. - Il Signore ti benedica! Io do il becchime alle galline. I tacchini si avviarono. Mommo sollecitava con la canna quelli che si fermavano a leccare tra l'erba ai lati della strada. Arrivati sul prato, si sbrancarono a pascolare; e Mommo, che avrebbe voluto mangiare tranquillamente la sua colazione, doveva rincorrere i maschi che si allontanavano troppo; non voleva perderli di occhio. Le femmine pipiavano dimesse. Poi quando i maschi, ben pasciuti, cominciarono ad aprire le ali e a far la ruota. allungando il bernoccolo rosso pendente sul becco, egli trasse fuori dalle tasche il pane e il formaggio e cominciò a mangiare in piedi, appoggiato alla canna, dando occhiate intorno. Vedeva arrampicati su pei fianchi della vallata di rimpetto, i buoi e le vacche e lo zi' Girolamo seduto su un masso, immobile, quasi dormiente. - Chi sa se è vero, - pensava Mommo, - che egli va con le Nonne? Laggiù, nella terrazza della casa, la massaia sciorinava i panni lavati, aiutata dalla vecchia serva. Il massaio, davanti a la stalla, faceva rimettere i ferri alle mule dal maniscalco venuto apposta la mattina. Le galline, sparse sul mucchio del concime, razzolavano al sole. Di lassù le persone sembravano piccine piccine. Mommo pensava alle scarpe che il massaio gli avrebbe comprato la domenica prossima, e alle camicie e al vestito promessogli dalla massaia. Era contento di avere un bugigattolo presso il pollaio, col pagliericcio e la coperta di lana. Quel bugigattolo gli pareva già cosa sua. Egli teneva in tasca la chiave dell'uscio. Colà poteva riporre quel che voleva, senza che nessuno venisse a toccargli niente. Era contento anche del coltellino col manico di ferro regalatogli dalla massaia per affettare il pane. Tagliava bene quel coltellino. Con esso si sarebbe fatto uno zùfolo di canna, come quello che aveva quando guardava i tacchini del notaio. Lo aveva venduto per un soldo a un ragazzo di Palagonía. Ora ne avrebbe costruito uno migliore. Per non stare disoccupato, mentre i tacchini, sazi di pascolare, riposavano accoccolati tra le erbe, s'era messo a inseguire farfalle, a chiappare grilli: e quando ne aveva pieno il pugno, li buttava ai tacchini che si azzuffavano per beccarseli. I tacchini rimessisi a pascolare, andavano verso la fontana, lentamente, disposti in larghe file di otto o dieci ognuna, frugando tra l'erbe, ingoiando insetti. Così potè ricontarli bene erano sessantaquattro, tre ventine e quattro, com'egli diceva. La fontana sotto il fico che quasi la nascondeva coi suoi rami e circondata da rovi, era piccola, limpidissima, una specie di conca riparata da una grotticella scavata nel tufo, con le pareti coperte di capelvenere. Per bere bisognava chinarsi e tuffarvi le labbra. Un merlo scappò via squittendo dalle macchie di rovi, appena Mommo vi battè su con la canna. - C'è un nido, - egli pensò. E volle accertarsene. Si graffiò le mani per rimuovere i tralci spinosi, ma scoprì il nido con le uova. - Prenderò poi la covata, - disse sorridendo. E accortosi che i tacchini erano sbucati su la strada li rincorse e li rimenò indietro nel prato. I quattordici tacchini del notaio egli li aveva battezzati tutti con nomi diversi. Uno, il più grasso, lo aveva chiamato Notaio; un altro, Cionco, perchè gli mancavano due branche a una zampa e ciampicava; il terzo, Fra Giuseppe, dal colore delle penne somigliante a quello della tonaca del frate cappuccino che veniva in campagna, per la cerca del grano e delle ulive. A una delle tacchine aveva messo nome Signa Rosa (sora Rosa), come si chiamava la serva del notaio, e perchè era grigia come lei. Poi, c'erano la Rossa, la Monacella, la z'a Miseria, magra e malaticcia, e Senza-coda, ridotta tale dai figli del notaio che si erano divertiti a strappargliela. Quanti mai nomi ci volevano qui! Tre ventine e quattro! Intanto uno dei tacchini poteva benissimo chiamarlo pure Notaio; era grosso e pettoruto proprio come il notaio. A quell'altro avrebbe rimesso il nome di Fra Giuseppe. Rosse c'erano più di sei tra le tacchine. Come fare? Quella più grassa, però, l'avrebbe nominata Massaia. Al resto penserebbe poi. E, sul tardi, nell'avviare il branco verso la masseria, già adoprava quei nomi. - Sciò, Notaio! Va diritto, Fra Giuseppe! Lesta, Massaia! Con la canna dietro il collo e le braccia accavalcate ad essa, visto che i tacchini andavano difilato, Mommo si era messo a zufolare. La massaia, che lo aveva scorto dalla terrazza, lo aspettava davanti al cancello del cortile per ricontare i tacchini. Di tratto in tratto, afferrava una tacchina, la tastava per accertarsi che la mattina dopo avrebbe fatto l'uovo, e le impediva di entrare con gli altri. - Queste le faremo salire sui corbelli con la paglia appesi al muro. Domani prenderai le uova. E le tacchine, già avvezze, appena ella spalancò l'uscio socchiuso, si avviarono verso l'uscio del pollaio, e con una volatina saltarono sui corbelli e si accovacciarono. Allora la massaia fece entrare gli altri tacchini, che andarono ad appollaiarsi sulle travi di agave conficcate agli angoli, uno accanto all'altro. - Paiono tanti canonici al coro! - disse Mommo ridendo. - Domattina, spazzerai il cortile. Quella è la granata. La spazzatura la butterai sul mucchio del concime, là. - Sissignora. Mommo intanto guardava un fascio di canne addossate a un angolo. - Posso prenderne una? - domandò. - Prendila. Scelse la più grossa, la spezzò a metà. E buttò via la parte superiore. - Mi faccio uno zùfolo. - Prima va' dal massaio, - rispose la padrona. - Quant'è che non ti pettini? Mommo alzò le spalle. Massaio Turi, seduto sullo scalino del portone del frantoio teneva sul braccio un grembiule di traliccio della serva e in mano una gran forbice. - Vieni qua, tu che sembri un gufo con quei capellacci! Se lo mise tra le ginocchia, gli avvolse attorno alle spalle e al petto il largo grembiule, e gli cacciò le forbici tra i capelli. Mommo, a ogni forbiciata, aggrinzava gli occhi, ritirava il collo tra le spalle, scoteva la testa per evitare il solletico dei peli che gli cascavano su la faccia. - Cheto! - lo sgridava il massaio. Mommo però non poteva star fermo, sentendo su la cute il freddo della lama delle forbici che gli rasavano i capelli fino alla radice. - Cheto! E il massaio con una mano gli teneva la testa, e con l'altra menava attorno le forbici, quasi tosasse una pecora. - Così non hai bisogno di pettine! - esclamò all'ultimo, soffiandogli su la faccia per mandar via i peli cadùtivi. Mommo si passò le mani sul cucuzzolo mondo, e si trasse indietro senza dir nulla, guardando compassionevolmente i mucchietti di capelli sparsi per terra. Tutt'a un tratto, preso da strana allegria, fece due capriole, poggiando le mani a terra e levando agilmente le gambe in aria. Gli sembrava di essere diventato un altro, tosato a quel modo. Massaro Turi gli aveva dato la conchiglia marina col bocchino di stagno, per avvisare i vicini che era l'ora della messa. E Mommo, dalla terrazza, si divertiva a sonare, gonfiando le gote, spesso facendo cecca perchè non era pratico. I contadini accorrevano dai dintorni, le donne con le mantelline di panno nero piegate sul braccio; gli uomini, chi con un canestro di frutta, chi con qualche fazzolettata di cicoria da offrire alla massaia; qualcuno col fucile, la carniera e i cani dietro, che abbaiavano allegri. Don Pietro era già arrivato, puntuale sul suo bell'asino che pareva un muletto, con l'ombrello rosso aperto per difendersi dal sole, gli occhiali verdi e i guanti di filo color caffè. E visto Mommo, che era venuto dietro al massaio accorso per aiutarlo a scendere da sella, aveva subito esclamato: - Faccia nuova! Come di chiami? - Mommo. - E che fai qui? - Il Nuzzaru, - egli rispose con aria orgogliosa. - Questo ragazzo è mezzo turco, caro Don Pietro. Non sa neppure il paternostro, - soggiunse, sorridendo, massaio Turi. - Poveretto! Non gliel'hanno insegnato, forse. O lo ha dimenticato? - Lo so, me l'ha insegnato la massaia; e anche l'avemmaria. - Ora il Soldato gli insegnerà la lettura. Il Soldato di cui parlava il massaio era uno dei garzoni della masseria tornato della milizia l'anno avanti. Avendo imparato a leggere e a scrivere, aveva la smania di fare da maestro agli altri. - Bravo! Bravo! Ma, prima di tutto, il timor di Dio, - disse Don Pietro accarezzando la testa del ragazzo. - Poi imparerai anche a servirmi la santa messa. - Io faccio il nuzzaru, non il sagrestano, - rispose Mommo serio serio. Gli era parso che Don Pietro pensasse di condurlo via con sè; e all'idea di dover abbandonare i tacchini e la masseria si era scurito in viso. I contadini, che ormai lo conoscevano, al vederlo vestito da festa, cominciarono a canzonarlo e a dargli scappellotti. - Buon pro, il vestito nuovo! Sembri uno zitu. Sposi la z'a Tegònia? La z'a Tegònia era la serva, vecchia e sdentata, della massaia. - O badate ai fatti vostri! - egli rispondeva stizzito, scansandosi dagli scappellotti. - Vieni, inginocchiati accanto a me, - gli disse la massaia prendendolo per una mano e facendolo entrare nella chiesuola. Gli volevano tutti bene. Attento, servizievole, allegro, con certe sue buffonate divertiva gli uomini la sera, dopo mangiata la minestra e prima che il massaio intonasse il rosario. Il Soldato come lo chiamavano senz'altro, gli aveva già appiccicato il soprannome di Scurpiddu, perchè era magro e sfilato come uno steccolino. Mommo, le prime volte aveva protestato: - Mi chiamo Mommo io! E non voleva rispondere a chi gli diceva Scurpiddu. Poi si era rassegnato. - Tanto, non ti dicono ladro. Non è forse vero che sei uno steccolo? Ingrassa e non te lo potranno dire più. Il massaio lo aveva persuaso così. E parecchi mesi dopo, quando si udiva da lontano il suono dello zùfolo di lui, mentre guardava sull'altura i tacchini pascolanti, anche la massaia esclamava: - Senti come suona bene Scurpiddu! Ora egli conosceva tutti i fondi della masseria palmo per palmo, e menava i tacchini fin sul ciglione dell'Arcura, d'onde si godeva la vista della Piana di Catania e dell'Etna da un lato, delle colline di Catalfaro e della Nicchiara dall'altro; e si vedeva Mineo arrampicato sul monte, con le torri del vecchio castello e i campanili delle chiese ritagliati sul cielo; e dall'altra parte, laggiù, quasi rannicchiato sotto la roccia rossastra, Palagonía, dov'egli distingueva la casa del notaio; e, lontano, come un sassolino bianco buttato tra l'erba verde, la casa di campagna dov'egli era stato a guardare i tacchini e dove avea patito tante volte la fame e il freddo, perchè spesso si scordavano di lui e non gli mandavano il pane dal paese; e doveva dormire su la nuda paglia, con uno straccio di vecchia bisaccia per coperta, allo scuro. Quanto aveva pianto colà, solo solo, quando il mezzadro del notaio lo picchiava senza ragione, o per cosine da nulla! E tra i singhiozzi chiamava: Mamma mia! Mammuccia dell'anima mia!. Ora non la chiamava più; avrebbe però voluto sapere dov'era, se mai era ancora viva! se n'era dunque scordata di lui? Chi sa dove le lucevano gli occhi! E vedeva quegli occhi azzurri e il viso pallido e scarno di lei, com'erano l'anno della mal'annata, quando era andata via con tanti altri che non trovavano più di che vivere. Il povero suo padre, tornato a casa, gli aveva domandato: Dov'è tua mamma? E lui non sapeva che rispondergli: Ha presa la mantellina ed è andata via! E si era messo a piangere, mentre il padre si disperava esclamando: Scellerata! Scellerata! quasi sbattendo la testa ai muri: Doveva morire di fame con noi, scellerata!. Si rammentava benissimo che appunto quell'anno il padre l'aveva allogato per guardare i tacchini del notaio a Palagonía. E così pensando, su quell'altura dell'Arcura, nel silenzio meridiano, mentre i tacchini stavano sdraiati su l'erba digerendo il pasto, si sentiva di nuovo solo solo, quantunque ora avesse il massaio e la massaia che gli facevano da padre e da mamma. E pensava anche che sarebbe cresciuto; che poi non avrebbe più fatto il nuzzaru, ma il garzone, come il Soldato che governava le mule e la giumenta su la quale egli andava a cavallo a capo fila, con le mule legate per le cavezze, una dietro all'altra, la più giovane in coda. Giusto in quel momento lo vedeva scendere per la strada dei Saraceni, con le mule cariche di legna. Cantava. Così avrebbe fatto lui. E siccome il Soldato gli aveva detto: - Quando non hai niente da fare, ripassati la lezione -- egli cavò di tasca il sillabario e cominciò a compitare B-a-ba, ad alta voce, C-a-Ca, levando, di tratto in tratto gli occhi dal libercolo per seguire con lo sguardo il Soldato con le mule che, oltrepassato il beveratoio, svoltava a destra, verso la masseria. Poi si distrasse, vedendo arrivare al beveratoio i buoi e le vacche con lo zi' Girolamo che tirava sassi ai vitellini per richiamarli verso le mamme. - Chi sa se è vero che egli va colle Nonne, la notte? Tornava a domandarselo ogni volta che rivedeva il vecchio bovaro. Un sera anzi, portandogli la minestra, perchè il vecchio andava raramente alla masseria, trovatolo già addormentato sul corbello, e non sentendolo rispondere alla chiamata, ebbe paura. - Che sia già andato con le Nonne? - pensò - e per questo non risponde? E die uno strillo: - Zi' Girolamo! Il vecchio si riscosse. Allora Scurpiddu prese animo, e gli domandò: - È dunque vero che andate con le Nonne? - Sì, sì; e sta notte verrò a darti dei pizzicotti. - Lo dirò alla massaia! - minacciò Scurpiddu piagnucolando. - Sciocco! Parlo per chiasso. Giusto la sera avanti, nel frantoio mentre gli uomini mangiavano la minestra, parte seduti attorno alla màcina, parte ai lati del torchio, il Soldato aveva spiegato come fanno coloro che vanno attorno con le Nonne. Il massaio diceva ch'era una corbelleria. Ma il Soldato insisteva. Lo zi' Girolamo, ormai lo sapevano tutti, era il capo della congrega. Diventavano sottili sottili come l'aria, entravano nelle case pei buchi della serratura, picchiavano la gente, storcevano le gambe ai bambini per vendicarsi delle mamme, impiastricciavano i capelli a un disgraziato, e quei capelli non potevano venire districati più: chi se li tagliava, moriva sul colpo. - Corbellerie! - ripeteva il massaio. Ma il povero Scurpiddu si sentiva venire la pelle d'oca e stava ad ascoltare il Soldato con tanto di occhi sbalorditi, a bocca aperta. - Una notte, - continuava a raccontare il Soldato, - io tornavo dal paese con le mule. C'era un lume di luna che pareva fosse giorno. Passando davanti al posto dove agghiacciano i buoi, vidi là con quest'occhi -- e posso farne giuramento -- sul corbello dove dorme lo zi' Girolamo, il suo giubbone di albagio col cappuccio ritto e il bastone tra le maniche incrociate, da parere che lo zi' Girolamo stesse a dormire, al suo sòlito: ma subito mi accorsi che le gambe non c'erano. E mi feci segno della santa croce e passai via. - Corbellerie! - ripetè il massaio. - Diciamo piuttosto il santo rosario. E quella sera il povero Scurpiddu tremava dalla paura nel suo bugigattolo, sotto la coperta di lana, pensando allo zi' Girolamo e a quel giubbone col bastone tra le maniche incrociate, segno che lo zi' Girolamo era andato via con le Nonne, come aveva giurato il Soldato. Per ciò, tornando alla masseria col piatto vuoto, affrettò a dire alla massaia: - Lo zi' Girolamo vuol venire a darmi i pizzicotti con le Nonne! E allungava le labbra e strizzava gli occhi lacrimosi. - Stupido! E tu credi a queste chiacchiere? Dì un'avemmaria prima di addormentarti, e la Madonna ti farà dormire bene. Infatti quella volta recitò non una ma cinque avemmaria e l'ultima non si accorse di finirla: era profondamente addormentato. Gli si comandava di fare una cosa, e invece di rispondere di sì, spiccava un salto mortale, una capriola o imitava il gallo, chicchirichì! O abbaiava come un cagnolo, o nitriva come un cavallo, o tubava come un piccione, o chiocciava come una gallina che fa l'uovo, e scappava per eseguire l'ordine ricevuto. Certe sere, nel frantoio, mentre gli uomini si preparavano per la cena, egli andava a nascondersi in un serbatoio di ulive, e si metteva a miagolare. Da prima tutti credevano che miagolasse proprio un gatto; ma poi guardavano attorno, e non scorgendo il ragazzo, esclamavano. - È Scurpiddu! E il Soldato andava a snidarlo, a furia di scapaccioni, per chiasso. Altre volte si udivano fuori gli abbai di due-tre cani. Qualcuno degli uomini si affacciava dal portone per vedere chi arrivava a quell'ora, e non vedendo cani e nessuno, richiudeva il portone ridendo: - È quel boia di Scurpiddu! E Scurpiddu compariva poco dopo, lieto della burla fatta. Un giorno, tornando a casa coi tacchini, aveva portato sotto un braccio tre lunghi steli di cipolle fioriti. - Che ne vuoi fare? - gli aveva domandato la massaia. - Niente. Mi servono. E quella sera, mentre gli uomini mangiavano la minestra, egli era sgusciato fuori zitto zitto. Si udiva un muggito lungo, lamentoso, dalla parte dell'agghiaccio dei buoi. - Che sarà? - esclamò il massaio. - Va vedere. Il Soldato uscì fuori, s'inoltrò sulla strada che menava all'agghiaccio, e da lontano chiamò: - Zi' Girolamo! - Ohi! - quegli rispose. - Che vuol dire questo muggito? - Che ne so io? Viene di costì. Infatti il muggito lungo, lamentoso, partiva dai fichi d'India dietro il frantoio, dal lato opposto dell'agghiaccio. Il Soldato si accostò con cautela ai fichi d'India, e al lume di luna scorse Scurpiddu che soffiava dentro uno stelo di cipolla come in una tromba e ne traeva quel suono che imitava così bene il muggito d'un bove, da ingannare. - Ah, sei tu! E se Scurpiddu non scappava, avrebbe ricevuto quattro bei scappellotti. Il Soldato tornò maravigliato, alla masseria: - È quel discolo di Scurpiddu! La cosa parve così strana, che il massaio volle vedergliela ripetere là, davanti a tutti. E accadde che lo zi' Girolamo, intricato anche lui, si mosse dal suo corbello e cominciò a chiamare: - Ohi! Ohi! Che è stato? Il Soldato, riconosciuta la voce, si affacciò su la soglia e gli gridò: - Venite! C'è un bove smarrito. E lo zi' Girolamo era tornato indietro scornato, minacciando Scurpiddu con la mano, dopo che si accorse della burla. Le sere di pioggia, nel novembre, attorno al fuoco acceso per asciugarsi i vestiti, gli uomini lo invitavano: - Scurpiddu, fa' la rissa del cane col gatto. Non se lo faceva dire due volte. E non imitava soltanto i ringhi, gli abbai, i miagolamenti e gli sbuffi dei due animali, ma le loro mosse, e così abilmente che pareva di vederli. - Bravo, Scurpiddu! E battevano le mani. - Soltanto la lettura stenti ad apprendere! - gli rimproverava il Soldato. Infatti faceva fatica, quantunque ci mettesse molta buona volontà. Ma forse la colpa era un po' del maestro che non ne sapeva molto neppur lui, e non era destro nell'insegnare quel pochino che sapeva. E poi Scurpiddu, era ragazzo, si distraeva facilmente. Quando aveva sillabato un quarto d'ora da solo, cominciava a sbadigliare. Certe sillabe non c'era verso gli entrassero nel cervello, o vi entravano a rovescio. E più egli stava attento, per non sbagliare quando arrivava a quel punto, e peggio sbagliava. Nella masseria c'era il Soldato che gli gridava subito: - Bestia! Ma lassù, su la collina dell'Arcura o sotto gli ulivi del Piano del Galluzzo, egli rimaneva sempre incerto se avesse sbagliato o no; chiudeva subito il sillabario, e si metteva a sonare con lo zùfolo la ninna-nanna del Natale, dolce e malinconica melodia. E durava a suonare per ore ed ore, interrompendosi soltanto per dar la voce a qualche tacchino che si allontanava troppo dagli altri. - Dove vai, Notaraccio! E con una sassata lo faceva tornare addietro. - Sciò, Fra Giuseppe! Sciò! E brandendo la canna, lo rincorreva. Aveva trovato altri nomi per le sue bestiole: Massaio, Soldato, zi' Girolamo, za' Tegonia, Don Pietro, Correntina, Scanza-fatica. A un tacchino giovane avea appiccato fin il proprio nomignolo di Scurpiddu, ed era il tacchino che gli dava più da fare, sempre avanti a tutti, sempre sbandato e sempre in rissa con gli altri. Da principio, quando alla masseria ignoravano quel battesimo, sentendolo esclamare: - Scurpiddu infamaccio! - non capivano perchè si sgridasse da sè. - L'hai con te stesso, Scurpiddu? - gli domandava il Soldato. Si distraeva pure con fare la guerra, come egli diceva, ai tacchini. Il prepotente era Scurpiddu che l'aveva con Notaio e Soldato, chi sa perchè. Stirava le ali fino a terra, apriva a ventaglio la coda e pettoruto, col bernoccolo e i bargiglioni gonfi, rossi e violacei, si scagliava addosso all'avversario. Allora Scurpiddu li incitava con la voce e coi gesti, li aizzava, gridando: - Guerra! Guerra! Spesso erano quattro a una volta che entravano in lizza. Scurpiddu faceva far largo agli altri e batteva le mani, saltava di qua e di là: - Guerra! Guerra! E pareva che i combattenti lo capissero. Si accanivano, inferocivano. Notaio afferrava col becco il bernoccolo di Scurpiddu e glielo tirava, glielo tirava, quasi volesse strapparglielo. Scurpiddu tramortiva un po', ma riprendeva subito la lotta; e quando aveva afferrato il bernoccolo di Notaio non voleva rilasciarlo più, fino a che l'avversario non si dava per vinto. Mommo interveniva; picchiava con la canna addosso ai combattenti, dava pugni e calci per dividerli, se no si ammazzavano; e poi si metteva a suonare una marcia strana, inventata da lui, e che, secondo la sua intenzione, celebrava la vittoria. - Peccato, - egli pensava, - che lassù non ci era nessuno a godere quello spettacolo! C'erano soltanto le tàccole che passavano a stormi, gracchiando, e i falchetti che squittivano, librandosi su le ali prima di piombare come un sasso su qualche animaletto, scoperto dall'alto tra l'erba. La vallata sembrava presa da torpore sotto la vampa del sole. Si udiva, lontano, il campanaccio dei buoi dello zi' Girolamo, ma non si vedeva anima viva per le colline attorno. Laggiù laggiù, un branco di capre si arrampicava tra le rocce, brucando. E Scurpiddu tornava a cavar fuori dalla tasca il sillabario e ricominciava a compitare. Spesso si fermava, meravigliato che quei segni potessero parlare. Come facevano per dire: Pa-ne, Pon-te, Can-na? Eppure dicevano così! Ora ci prendeva gusto a quella specie di giuoco, svoltava pagina, si arrestava davanti alle difficoltà, si ingegnava di vincerle, e guardava all'ultimo le pagine con righe tutte unite che gli parevano un imbroglio inestricabile e che il Soldato però leggeva facilmente. Un giorno o l'altro le avrebbe lette anche lui. E tentava. E se riusciva a compitar bene qualche parola, la segnava per domandare poi al Soldato: - È vero che qui dice così? - Bravo, Scurpiddu! Ora che il massaio gli aveva regalato una tàccola piccina, appena coperta di piume, Scurpiddu aveva un altro motivo di distrazione. La portava con sè nella sacca a tracolla e la imbeccava e l'addestrava a venirgli dietro come un cagnolino. - Paola! Paola! E la tàccola gli salterellava appresso, gracchiando. La metteva sul dorso di Notaio o di Don Pietro ed essi dovevano portarla attorno mentre pascolavano. Paola spesso saltava giù, annoiata di star ferma. Ma egli la prendeva per le ali e la rimetteva al posto. - Qui devi stare in carrozza. La tàccola aveva finito con avvezzarsi, e stava, signora in carrozza, passando da un tacchino all'altro, ora che aveva messo le ali. Scurpiddu l'addestrava anche a volargli addosso ad ogni richiamo. Paola faceva due o tre giri in alto e poi andava a posarglisi su la spalla o sul braccio. Scurpiddu l'accarezzava, le lisciava le penne lucide e nere, le dava a imbeccare un grillo, un baco, e tornava alla masseria con Paola appollaiata su la testa, sonando allegramente con lo zùfolo la ninna-nanna di Natale, interrompendosi per chiamare: - Paola! Paola! - lieto che Paola gli rispondesse con un gracchio quasi per dirgli: Sono qui. - E sùbito gli tirava col becco i capelli che gli scappavano fuori del berretto su la fronte. La sera, egli la metteva a dormire in un paniere appeso al muro del suo bugigattolo; le avea formato con un po' di fieno una specie di nido. E mentre egli si ficcava sotto la coperta di lana, le diceva: - Paola, buona notte! Paola rispondeva con un roco chioccolio e s'addormentava. Si rammentava con dolcezza dei giorni in cui ella lo pettinava al sole su lo scalino della porta di casa, tenendogli la testa fra le ginocchia, dopo avergli lavato la faccia. Ora, se sua madre fosse in paese, egli andrebbe a trovarla ogni quindicina, come il Soldato che ogni quindici giorni tornava dai suoi di casa; e poi nelle feste di Natale e di Pasqua. Egli invece non andava in paese nemmeno per la festa della Patrona. Quella sera restava quasi solo alla masseria, e su l'aia aspettava di assistere allo spettacolo dei razzi del fuoco d'artificio, che salivano per l'aria rapidi e luminosi e si spegnevano; si udiva, ora sì, ora no, lo scoppio delle bombe. La domenica dell'ottavàrio però vedeva lassù, lassù, la luminaria della processione, e distingueva, dai molti lumi, la bara di santa Agrippina portata dai devoti per lo stradone fuori le mura, di sera. I lumi della processione serpeggiavano nel buio, e a poco a poco sparivano. Lo zi' Girolamo dall'agghiaccio gridava: - Viva santa Agrippina! Ma lui non diceva niente; rammentava soltanto che sua madre, una volta lo aveva condotto per mano dietro la processione; e rivedeva i confrati, la banda impennacchiata che suonava, i preti con le torce, e la folla che recitava il rosario, tra il polverio sollevato lungo lo stradone dal calpestìo di tanta gente. Rivedeva anche i venditori ambulanti di nocciole abbrustolite, di torrone, di fette di giuggiolena col miele, che portavano attorno tra la folla il loro banco con su la tenda di tela e i lumi, e si fermavano di tratto in tratto, gridando a squarciagola: - Torrone di mandorle! Torrone! Gli veniva, l'acquolina in bocca ricordando. - La massaia mi regalerà un pezzo di torrone! - pensava. Ma non sarebbe stato il torrone della sua mamma! Al padre, che sapeva già morto, pensava di rado. Se un uccellino fosse venuto a dirgli dov'era la sua mamma, egli sarebbe andato a trovarla, lasciando là tacchini, tàccola, masseria, ogni cosa; e poi sarebbe tornato. L'avrebbe condotta via con sè. - Che faceva tanto lontano, senza il figliuolo! Come poteva vivere? Raramente gli passava pel capo che potesse essere morta anche lei, di stenti, l'anno stesso della mal'annata, quand'era morta tanta gente! Glielo avrebbero detto: - Tua madre è morta. E si sarebbe messo il cuore in pace. Una mattina, per la strada dell'Arcura, si era incontrato con lo zi' Girolamo che conduceva i buoi e le vacche a pascolare su le alture. Non gl'incuteva più paura il bovaro con le sue Nonne. Era un brav'uomo; badava soltanto a quegli animali, povero vecchio! I tacchini si erano mescolati coi buoi, che procedevano lentamente strappando boccate di erba ai lati della strada; e Scurpiddu disse allo zi' Girolamo: - Oggi saremo insieme lassù. - Tu da una parte, io da l'altra... Ehi, Montedoro - soggiunse lo zi' Girolamo, toccando il bue su la schiena con la punta del bastone. Il bue si mosse a saltelloni, e la carne gli ballava sotto i fianchi. - E tua madre? - domandò improvvisamente il bovaro a Scurpiddu. - Chi ne sa niente? - Vedrai che tornerà: tornerà! - Come lo sapete? - Solo i morti non tornano più. Io prendo da questa parte. E il bovaro non aggiunse altro. Scurpiddu lo vide allontanarsi per la viottola, a sinistra, e stette un pezzetto a guardarlo stupito. E rimuginò lungamente le parole di lui: - Vedrai che tornerà; tornerà! - Chi gliel'avea detto? Le Nonne? Socchiudeva gli occhi, immobile: e non si curava di aizzare Massaio e Don Pietro che si azzuffavano. La tàccola saltava, con brevi volatine, da un tacchino all'altro, gracchiando, ricercando col becco i pollini tra le penne a questo e a quello, familiarizzata con essi. Poi si allontanava, aliava, andava a posarsi su un albero, scendeva a beccare tra l'erba insieme ai tacchini, e tornava a volare, girando attorno al padrone, quasi per farsi scorgere, un po' maravigliata che quel giorno egli non la invitasse a posarglisi su la spalla come al solito. All'ultimo, dopo un lungo giro, andò a posarglisi su la testa, beccandogli il berretto. Scurpiddu allora la prese, e pòstala su l'indice di una mano, con l'altra la lisciava, le dava buffettini sul becco per irritarla. - Hai sentito, Paola? Lo zi' Girolamo dice che la mia mamma tornerà. Paola rispose con un gracchio, e a lui parve confermasse: - Tornerà. Il canto di un merlo tra i mandorli di Rossignolo gli rammentò la nidiata di merli scoperta un anno addietro tra i rovi della fontana. Erano scappati via prima ch'egli si fosse rammentato di andare a prenderli. Fece una spallucciata. Non glien'importava. Ora aveva Paola. I merli non avrebbe potuto addestrarli in libertà come la tàccola. E tornava a ripensare il sogno della notte avanti. Gli era parso di veder arrivare sua madre, avviluppata nella mantellina di panno nero. Così era uscita di casa quando era andata via pallida e scarna, con gli occhi rossi dal pianto. Ritornando, ora non piangeva più; gli accennava con la testa di andarle incontro: e visto che egli non si era mosso: (perchè non si era mosso? Non se ne rammentava!) Aveva voltato le spalle ed era sparita. E a un tratto gli parve di continuare a sognare, vedendo spuntare dalla viottola, che saliva dall'altra parte della collina dell'Arcura, prima la testa, poi il busto, poi tutta la persona di una donna con la mantellina addosso, che si avvicinava guardandolo con curiosità. Pareva sfinita dal cammino, malata, coi capelli grigi e gli occhi infossati, squallidi; ansava e si fermava a ogni due passi per riprendere fiato. - Si scorcia di qua? Devo andare a Mineo. Parlava a stento, con voce interrotta da colpi di tosse. - Non lo so: domandatelo a quel cristiano. Scurpiddu additava lo zi' Girolamo che, appoggiato al bastone con tutte e due le mani, ritto in mezzo ai buoi che pascolavano, pareva dormicchiasse in piedi. Scurpiddu seguì con gli occhi la povera donna; e siccome colei non sapeva in che modo scendere dal ciglione per andare fino a quel cristiano, egli la richiamò. - Scendete di qui: laggiù c'è il viottolo. Lo zi' Girolamo dapprima aveva indicato con la mano la via da prendere, poi si era messo a interrogare la donna. Che dicevano? La poveretta doveva raccontare cose tristi, giacchè lo zi' Girolamo crollava il capo, compassionandola, giungeva le mani, alzava gli occhi al cielo per dire: - Sia fatta la volontà di Dio - e tornava a crollare il capo. Improvvisamente la donna si rivolse verso il ragazzo e si diè a correre pel viottolo, lasciandosi cascare la mantellina su le spalle, gridando: - Mommo!...Mommo! La voce della poveretta era così arrochita che neppure a quel grido Mommo la riconobbe. E quando si vide abbracciato e baciato, e le lagrime di lei gli bagnarono la faccia, egli la guardò stupito e le domandò: - Chi siete voi? - Non mi riconosce! - esclamò, desolata, la meschina. - Sono la tua mamma! Figliuolo mio! Mommo mio! Sono la tua mamma! Scurpiddu era così sbalordito, che non sapeva dirle niente. Stentava a persuadersi che quel viso così macilento, che quei capelli grigi, che quegli occhi così smorti fossero quelli di sua madre. Soltanto quando vide lo zi' Girolamo, che si era avvicinato e aveva anche lui gli occhi pieni di lagrime, si scosse per domandargli - Chi ve l'aveva detto? E buttò le braccia al collo della mamma. Ma non rinveniva dallo stupore, e sembrava avesse su la faccia un'espressione di rancore pel lungo abbandono; per ciò la poveretta credè opportuno di giustificarsi: - Ho pensato sempre a te! Ho fatto scrivere al sindaco: non mi ha mai risposto. Stavo lontano lontano, sotto le montagne delle Madonìe. Di là non veniva nessuno in queste parti. Sono poi stata sei mesi all'ospedale. Credevo di morire senza vederti!...Ora la Bella Madre Santissima mi ha fatto la grazia! Questo è miracolo di Gesù Cristo! Trovarti qui!... - Mio padre è morto... - balbettò Scurpiddu. - Lo so, lo so! Ed è stata la mia mala sorte. Ti racconterò poi. Come sei cresciuto! Ti trovi bene qui? Come sei cresciuto! Neppur io ti riconoscevo...Altrettanto Paradiso ai tuoi benefattori, quant'è la carità che ti hanno fatto! - Andate alla masseria, - intervenne lo zi' Girolamo. - Avete bisogno di qualche ristoro. - No, no, niente! Quando dovrà tornare coi tacchini...Prima il servizio; starò qui con lui. - Sei contento ora Scurpiddu? Lo chiamiamo così, - riprese lo zi' Girolamo. E Scurpiddu non seppe rispondere altrimenti che mettendo in grembo alla mamma la tàccola che era venuta a posarglisi su la spalla. Sorrideva, quasi non credesse ancora ai suoi occhi che intanto gli straluccicavano più del solito. - Ora non ve n'andrete più, mamma! - No, figliuolo mio! Non me n'andrò più. Lo disse però con voce così piena di tristezza, che lo zi' Girolamo, capito quel che la poveretta voleva dire, la consolò esclamando: - Gesù Cristo vi darà la salute! Quella sera, all'arrivo, davanti al pollaio dove la massaia lo attendeva, secondo il solito, per fare la rassegna dei tacchini, Scurpiddu parve impazzito dalla gioia. - La mia mamma! La mia mamma! - gridava. E faceva salti e capriole. La massaia le aveva detto così, dopo aver udito le tristi avventure di quella donna. - Ho voluto venire a morir qui! Almeno mio figlio mi chiuderà gli occhi! - ella ripeteva. - Fatevi coraggio! - aveva soggiunto massaio Turi. - È vero; chi deve patire non muore! Massaio Turi, per consolarla, si mise a fare l'elogio di Scurpiddu. - Bravo ragazzo! Attento, ubbidiente: allegro poi! Ora apprende anche a lèggere. Basta che una volta gli si dica: - Devi fare così! - Non se ne dimentica più. Gli vogliono tutti bene qui. Non gli ho dovuto mai dare uno scappellotto, nè sgridarlo. È una meraviglia, per la sua età. - Povero figliuoletto! E raccontò pure come lo aveva trovato quella sera, stracciato e morto di fame, proprio un'anima del purgatorio! - Povero figliuoletto! - Sentite come fa trillare lo zùfolo oggi? È lui che suona, lassù. Ella guardò inutilmente verso il punto indicato. Tutta la costa era inondata di sole, come la terrazza dove stavano a discorrere lei e quei due benefattori: non li chiamava altrimenti. Ma ella, avvolta nella mantellina di panno, già ricominciava a sentire, nonostante il sole, il ribrezzo della febbre che l'assaliva. - Andate a buttarvi sul letto. La massaia vi farà un decotto di erbe, che è una santa cosa. Così la povera donna era rimasta anche lei nella masseria; e, quando poteva, dava una mano nelle faccende. Spazzava le stanze, mondava il frumento da portare al mulino, ripuliva le erbe per la minestra della cena, aiutava la massaia a governare le galline, a raccogliere le uova dal pollaio: rammendava i panni e le camicie del figlio; per non mangiarsi il pane a tradimento, diceva, e, non essere di troppo aggravio. E pareva un fantasma che si aggirasse per la masseria, con negli occhi la gran tristezza della sua prossima fine. Pure la sera rideva insieme con tutti gli altri allorchè Scurpiddu rifaceva la rissa del cane col gatto, o il canto del gallo, o il verso della gallina che fa l'uovo; e quando il Soldato, dandogli un bastone in mano, gli faceva ripetere gli esercizi militari: - Presentat'arm'! - Per fila destra! - Per fila sinistra! - Caricat'arm! -- Fuoco! - Bumh! Bumh! - aggiungeva Scurpiddu. E poi i saluti della sentinella. - Passa il caporale! E il Soldato passava lui davanti a Scurpiddu, che non sbagliava mai il saluto. - Passa il capitano! E tornava indietro, pettoruto, quasi fosse un capitano davvero. - Passa il generale! E il Soldato fingeva di passare a cavallo, un po' ciondoloni, come il suo vecchio generale, quand'egli era ancora nell'esercito a Milano, a Bologna, a Torino; era stato in tanti posti quel Soldato! - Rompete le file! E Scurpiddu buttava all'aria il bastone, facendo il grido del porcellino o saltellando o abbaiando: e i cani della masseria gli rispondevano di fuori abbaiando tutti a una volta. Quando però andava a chiudersi nel suo bugigattolo dove Paola lo attendeva sveglia nel paniere col fieno, quasi volesse accertarsi di non dormir sola, Scurpiddu da qualche sera in qua stentava ad addormentarsi. Pensava allo zi' Girolamo che gli aveva detto: - Tua madre tornerà! - Ed era tornata!. Chi gliel'aveva detto a lui? Le Nonne? Fantasticava intorno al modo di accertarsi se era vero che il bovaro lasciasse sul corbello il suo giubboncino col cappuccio ritto e col bastone tra le maniche incrociate, come aveva raccontato di averlo visto una volta il Soldato, al lume di luna, verso la mezzanotte Pensava di uscir fuori zitto zitto e andare a verificare coi suoi occhi. Non lo avrebbe chiamato, se no il povero zi' Girolamo sarebbe morto, perchè coloro che vanno colle Nonne se sono svegliati all'improvviso, aveva detto un'altra sera il Soldato, cascano freddi sul colpo. Era lassù, a mezza costa dell'Arcura, dove la pastura pei tacchini abbondava, e si divertiva con Paola, facendosi inseguire abbassandosi in tempo quando Paola stava per posarglisi su la spalla, e allontanandosi presto dopo che quella era andata via col volo. Pareva che anche Paola prendesse gusto al gioco, perchè due volte che Scurpiddu non era stato lesto ad abbassarsi, essa non si era fermata, anzi era volata lontano verso i mandorli di Rossignolo. E fu per questo che Scurpiddu si accorse di quei due che con la mano gli facevano cenno di avvicinarsi, mezzi nascosti fra i tronchi dei mandorli. Aveva avuto paura vedendo luccicare le canne dei fucili che coloro tenevano in mano col calcio a terra. E siccome Scurpiddu intimorito, non si risolveva, quei due si mossero verso di lui. Allora egli vide che essi, oltre il fucile avevano le pistole ai fianchi infilate a traverso la cintura di cuoio. E in mezzo, una giberna, come quella dei carabinieri che giusto il giorno avanti erano passati di là e gli avevano domandato: - Hai visto nessuno? - Nessuno. - Coi fucili come noi? - Nessuno. Ed erano andati via, prendendo la strada del Monte, tra i fichi d'India. Più tardi, li aveva visti lassù, in cima al Monte, coi fucili che luccicavano e le striscie di cuoio bianco sul petto. Guardavano, con la mano su gli occhi per la via del sole. Erano passati, un mese addietro, due volte, ma allora non gli avevano domandato niente. Chi cercavano? Ladri, forse. E subito pensò che i ladri cercati dovevano essere quei due; perciò aveva paura. - Va' a dirgli: Ci sono due amici che vogliono qualche pagnotta e un fiasco di quello bono. Pel resto, si prenderanno un tacchino; e vi salutano tanto. Così devi dirgli. Va'? - E i tacchini a chi li lascio? - rispose Scurpiddu piagnucolando. - Li guarderemo noi, non aver paura. Digli: Ci sono due amici... E colui che parlava - l'altro stava zitto - replicò le parole del messaggio, soggiungendo: - E digli: Devo portare tutto io e non altri. E non tardar troppo, va'! Scurpiddu si avviò subito, giacchè quell'amico comandava con modi bruschi; e di tratto in tratto si voltava indietro per vedere se tutti e due erano ancora colà. Poi si era messo a correre, e alla masseria era arrivato ansante, in sudore. Chiamato in disparte il massaio, gli aveva fatto l'imbasciata, senza dimenticare una sillaba. Massaio Turi aggrottò le sopracciglia, increspò le labbra, stette un istante a riflettere, e rispose: - Va bene; aspetta qui. E dopo pochi minuti, ricomparve tenendo pel collo un fiasco di terracotta coi mànichi, e una salvietta con le pagnotte richieste. - Dirai a quegli amici: Dice il massaio: se vi occorre un tacchino, prendetelo. E dice: che da queste parti non c'è aria bona, perchè tira vento quasi ogni giorno. E dice che vi saluta tanto, e che il Signore vi aiuti. Tu poi non fiaterai di questo con nessuno; hai capito? - Sissignore. - E spicciati. Andava di corsa. Intanto pensava perchè il massaio mandava a dire a quegli amici: - Qui tira vento ogni giorno? -- Non era vero. Che vento? Uh! Ma del tacchino voleva fingere di essersene scordato. Quale avrebbero preso? Notaio? Don Pietro? Scurpiddu? Questo poi no. Gli piangeva il cuore all'idea che potessero portargli via il suo prediletto. Quando arrivò lassù, non trovo gli amici. I tacchini si erano un po' sbandati. Posò per terra il fiasco e le pagnotte, e li rincorse. Scurpiddu era là che faceva la ruota, ponzando, col bernoccolo rosso allungato sul becco! Respirò. Tutt'a un tratto si vide davanti uno di quei due, senza fucile nè pistole, quasi fosse uscito di sotto terra. E prima di prendere il fiasco e la salvietta col pane, colui si fregò in una tasca del panciotto. - Tieni, questi sono per te. Gli mise in mano dieci soldi. - Dice il massaio... . E Scurpiddu ripetè quel che massaio Turi gli aveva dato incarico di dire. Quando ripetè: Qui tira vento quasi ogni giorno, l'amico fece una smorfiaccia che voleva essere una risata. - Gli dirai: Grazie anche di questo. Il tacchino lo mangeremo alla sua salute. E tu... Mise l'indice su le labbra; voleva dire: Silenzio! - Sissignore. Dunque il tacchino se lo erano già preso! E cercò con gli occhi tra il branco. Mancava Notaio! Alzò le spalle, quasi avessero portato via proprio il notaio di Palagonía che lo aveva scacciato dal servizio per una tacchina perduta. Non gli poteva perdonare la fame e il freddo patiti, e l'elemosina che aveva dovuto chiedere e i maltrattamenti dei ragazzi di colà; tutto per cagione di quel birbante! E Paola? Dov'era? Cominciò a chiamarla con la voce e col fischio, guardando attorno. Non si vedeva, ne si sentiva gracchiare. - Paola! Paola! Stava a grattarsi il capo con tutte e due le mani, impensierito, quando lo zi' Girolamo gli gridò da lontano: - È quiii! È quiii! Volava da un bue all'altro, beccandoli sul dorso; e i buoi la scacciavano con la coda o con le corna. Scurpiddu corse fino alla punta del ciglione e chiamò: - Paola! Paola! La tàccola accorse ad ali spiegate, gracchiando allegramente; gli fece un bel giro attorno, in alto, e poi tornò dai bovi. - È in collera, povera bestia, perchè l'ho lasciata sola. Scurpiddu e la tàccola s'intendevano così bene, ch'egli non fu meravigliato di quell'atto. - Ora viene, senza che io la richiami, - pensava. E infatti poco dopo la tàccola volò diritto verso di lui e gli si posò su la spalla. - Non ti lascierò più sola, mai più! L'accarezzava con una mano, e Paola gli beccava delicatamente l'orecchio. Lo ammoniva davvero di non lasciarla più sola? La mamma, vedendolo turbare di mano in mano che i tacchini passavano uno a uno pel cancello socchiuso, gli domandò: - Che hai? - Sessantatre! - finì di contare la massaia. - Ne manca uno. Doveva dirglielo o non doveva dirglielo, dopo che il massaio gli aveva raccomandato di non fiatar della cosa con nessuno? Esitò un momento, poi rispose. - Lo sa massaio Turi. - Che cosa sa massaio Turi? - Del tacchino che manca. - Perchè manca? Che ne hai fatto? - Io? Niente. Lui lo sa. E dètte in un pianto dirotto. Alla sua mamma però, appena furono soli, raccontò tutto. - Zitto! Non parlarne con nessuno! - gli raccomandò anche lei. - Chi sono quegli amici? - voleva sapere Scurpiddu. - Gente che può far del male: a te no, perchè sei ragazzo. Ma Scurpiddu si tranquillò soltanto più tardi quando massaio Turi venne a dirgli: - Domani condurrai i tacchini tra le ginestre, dietro il casotto delle api. E bada di non accostarti troppo al casotto, nè ti venga la tentazione di stuzzicarle. Ti farebbero gonfiare come un otre a furia di punture! Hai inteso? Quantunque fosse stato contento che gli amici avessero preso Notaio, pure sotto la coperta, al buio, non poteva chiudere occhio pensando al povero tacchino. A quell'ora gli avevano già segato il collo, lo avevano spennato, anzi se lo erano già bello e mangiato fino all'ultimo pezzettino. - Mah! - soggiungeva, - Questo è il destino dei tacchini! Un giorno o l'altro, Massaio, Don Pietro, Soldato e anche Scurpiddu saranno venduti per essere ammazzati e mangiati. Prima o dopo, non vuol dire nulla. E così il sonno gli era svanito. Egli tornava a pensare allo zi' Girolamo e alle sue Nonne. Bisognava aspettare che la luce crescesse per avventurarsi alla scoperta ideata; al buio, no, avrebbe avuto troppo paura. Fra dieci, dodici notti, ci si vedrebbe come di giorno nell'agghiaccio. E quasi egli fosse sul punto di scendere dal lettuccio e uscire all'aria aperta, si raggrinziva, faceva il movimento di posare un piede dopo l'altro, cautamente, e tratteneva il fiato e stringeva le labbra tra i denti, spalancando gli occhi nell'oscurità del bugigattolo, proprio come doveva tra dieci o dodici notti, quando ci sarebbe la luna piena. Ora vedeva soltanto dei bagliori, delle fiammelle per lo sforzo di guardare nel buio, e chiuse gli occhi. Gli venivano in mente le api che facevano il miele nel casotto sotto gli ulivi, tra le pianticine di timo e di nepitella. Lo facevano apposta perchè il massaio poi lo prendesse, col facciale di fil di rame e i guantoni per difendersi dalle punture? Chi le aveva addestrate a fare così? Anche i buoi aravano il terreno e il massaio mieteva poi il grano per conto suo; ai buoi però dava la paglia. Alle api, niente. E dalla mattina alla sera esse andavano di qua e di là, a succhiare il miele dalle erbe e dai fiori e metterlo dentro i favi: e oltre al miele, fabbricavano pure la cera. Dopo spremuto il miele, la massaia metteva i favi nella caldaia e rimestava, rimestava, fino a che non si erano sciolti. L'altra volta, egli si era divertito a tuffar le mani prima nella cera ancor liquida e poi subito nell'acqua fredda, e ne aveva cavato la forma delle mani, mani gialle gialle che parevano mani di morto. Come le mani della sua povera mamma malata, che andava di male in peggio con le febbri e la tosse! Ora egli sapeva tutto: la sua mamma aveva preso un altro marito laggiù, lontano, in quel paese di cui egli non rammentava il nome, sotto le montagne piene di neve: marito cattivo, che l'aveva bastonata, che le aveva fatto soffrire la fame peggio che non al tempo della mal'annata. La massaia le diceva: - Comare Nina, a primavera sarete guarita! La Madonna vi farà la grazia! Perchè la mamma rispondeva sempre scrollando la testa? Quando egli la sentiva tossire, e pareva dovesse spezzarsele una vena del petto, soffriva quanto lei; gli veniva meno il respiro. Avrebbe voluto essere più grande, per smettere di fare il nuzzaru e allogarsi a garzone e prendere il salario. Avrebbe affittato una casetta per la sua mamma in Mineo, e ogni quindici giorni, alla vicenda, sarebbe andato a passare una giornata in libertà con lei, senza far niente; e a Pasqua, a Natale sarebbe andato a far le feste con lei; e pel Carnovale pure, e per la festa di Santa Agrippina pure. Avrebbe fatto i viaggi pel grano del padrone e pel mosto, con le mule parate di nappe, di nastri a più colori e di sonagli alle cavezze, come ora il Soldato che voleva bene alle mule quasi fossero sue, e non doveva toccargliele nessuno. Le strigliava lui, le conduceva al beveratorio lui, metteva loro i basti lui e stringeva le cigne appuntando un ginocchio su i fianchi delle bestie che con lui stavano tranquille e non tiravano calci, mentre con gli altri facevano le cattive, specie la Learda che aveva anche il vizio di mordere: al Soldato intanto leccava le mani quasi intendesse di baciargliele. E sognò viaggi con le mule tutta la nottata. Le cattive bestie andavano proprio pei viottoli più scoscesi, sul ciglio delle rocce, col pericolo di trascinarlo nel precipizio insieme con loro; e la sua mamma urlava, piangente, dalla parte opposta: - Mommo! Mommo! - così forte che il grido sognato lo svegliò. Stava per spuntare il sole, e Paola gracchiava dal suo nido, scotendo le ali, vedendo la luce che penetrava dalle fessure dell'uscio, e udendo lo schiamazzo delle galline e il glù-glù-glù dei tacchini nell'atrio del pollaio, là fuori. Non gli era accaduto mai di non trovarsi in piedi all'alba davanti il cancello. E rammentando il sogno, pensava: - Per ora ho i tacchini! Infatti gli ubbidivano assai meglio che non le mule al Soldato. Li disponeva in fila, li faceva marciare al suono dello zùfolo; una fila di maschi avanti, poi le femmine in più file, e un'altra fila di maschi dietro. Gli era venuto in testa di addestrare Scurpiddu a fare il capobanda, diceva, cioè a marciare solo in capo a tutti, come guida, e c'era riuscito. Bastava che egli gridasse: Marcia! e agitasse in alto la canna, perchè Scurpiddu prendesse il suo posto di Capobanda, come il Capobanda di Palagonía davanti ai suoi suonatori, con quel pancione rotondo che pareva una gran cassa. Per ciò ora non lo chiamava più Scurpiddu ma Capobanda. E se voleva far suonare come una banda i tacchini, ci voleva poco. Imitava lui il loro grido glù-glù-glù, ed i maschi subito gli rispondevano in coro, e le femmine li accompagnavano col loro dimesso pigolìo. Paola li seguiva con brevi volatine da una albero all'altro, gracchiando. - Ecco la banda di Scurpiddu! - esclamava il Soldato, sentendo da lontano quel coro di glù-glù-glù, nel quale si distingueva appena la voce del nuzzaru, che sapeva imitare il grido dei tacchini a meraviglia. Ma cinque o sei ore dopo, l'allegria di Scurpiddu, appena arrivato davanti al cancello del pollaio, glorioso e trionfante dietro la sua banda che gluglugliava, si mutò subito in pianto. - Ne manca uno! - disse la massaia. E ricontò i maschi per vedere se mancava un tacchino o una tacchina. Mancava una tacchina. - Si sarà smarrita tra le ginestre, perchè piangi, sciocco? Scurpiddu rifece a corsa la strada, singhiozzando, guardando di qua e di là, sotto gli ulivi, scotendo le macchie con la canna per snidare la tacchina, caso mai si fosse accovacciata tra i cespugli, vedendosi sola. Dov'era andata a nascondersi? Frugò a una a una le macchie di timo e di nipitella attorno al casotto delle api; a una a una le piante di ginestra dove i tacchini erano stati a pascolare. Niente! Non si erano sbandati neppure un momento quel giorno. Il posto era pieno di grilli e di bruchi; i tacchini non avevano dovuto stentare per riempirsi il gozzo; e infatti si erano stesi al sole, pigramente, dopo aver pascolato un pezzetto. Egli non li aveva mai perduti di occhio... Eppure la tacchina mancava! Dalla masseria, il Soldato gli gridava di tratto in tratto vedendolo tardare: - Ohi...Ohi...L'hai trovata? - Nooo!- rispondeva Scurpiddu, mettendo le mani ai lati della bocca perchè la voce suonasse più forte. - Lascia andare! Lascia andare! La troverai domani. E la voce del Soldato, nella calma della sera già inoltrata, rimbombava per le colline ed echeggiava nelle rocce dirimpetto alla masseria. Scurpiddu tornava indietro, seguitando a sbattere con la canna ogni macchia, ogni cespuglio. - Sciò! Sciò! Maledetta nuzza! Sciò! Sciò! Dalle macchie, dai cespugli era scappato via qualche topo campagnuolo, qualche uccellino spaurito. Due o tre volte, al chiarore incerto della sera, egli aveva scambiato un cespuglio, o un grosso sasso, per la maledetta tacchina, e gli era corso addosso con la canna. Niente! E avvicinandosi alla masseria, si grattava il capo, riprendeva a singhiozzare, atterrito all'idea che il massaio dovesse mandarlo via, come aveva fatto il notaio. Avrebbe mandato via anche la mamma insieme con lui! Invece la massaia lo confortò: - Sciocco! perchè piangi? - Ora il massaio mi manda via! - singhiozzava Scurpiddu. - Che farnetichi, sciocco? Va' piuttosto a mangiare la minestra che si fredda. - La tacchina non si è smarrita; è stata presa. Sospettava della moglie del mezzadro di Poggio Don Croce là accosto, che aveva bisogno di una chioccia, e giorni addietro era venuta a chiedergliela: - Avreste, per caso, una tacchina chioccia, massaia? Giusto, mancava una delle rosse che accennava a divenir chioccia. Scurpiddu non intese a sordo. E il giorno dopo, mentre le sue bestiole, ben pasciute, si erano accoccolate al sole quasi sonnecchianti, aveva fatto una corsa fino alla mezzadria di Poggio Don Croce. Davanti a la porta della casa, una ragazzina, figlia del mezzadro, buttava dei fichi d'India a un maialetto, e pareva si divertisse a vederglieli mangiare grufolando; glieli buttava a uno a uno. - Dammi la tacchina! - le disse brusco brusco. - Quale tacchina? - rispose la ragazza rizzando la testa spettinata, e cacciando indietro le ciocche dei capelli che le scendevano su gli occhi. - Quella che vi siete presa ieri. - Sei pazzo? - Sì, se l'è presa la tua mamma che la voleva per chioccia; l'ha detto la massaia. Dammi la tacchina! - Va a farti benedire! Sei pazzo? - Dammi la tacchina! - replicò Scurpiddu con aria minacciosa. - Mamma! - chiamò la ragazza. E alla chiamata, comparve su la soglia la mezzadra. - Dice che gli abbiamo preso una tacchina, per chioccia. La mezzadra cominciò a sbraitare: - Se l'è sognato la tua massaia? Verrò a dirglielo sul muso. Per chi ci scambia? E tu bada che i tacchini non passino il limite, e non facciano danno alla vigna, se no accoppo te e le tue bestie; te lo avverto, giacchè sei qui. - Lasciatemi vedere: l'avete in casa; - insisteva Scurpiddu, niente intimidito dalle parole e dai gesti della mezzadra. Aveva fatto tre passi avanti, ma quella donna gli diè uno spintone che lo fece ruzzolare per terra. Scurpiddu si rizzò infuriato e prese una zolla per lanciargliela. Lesta, la mezzadra gli corse addosso e gli rattenne il braccio: - Vàttene! Vàttene! Se no, ti concio per le feste! Lo prese per le spalle, gli fece fare un giro e lo respinse. - Ora vado io dalla tua massaia. Mi sentirà! Vedendola prendere la viottola, Scurpiddu tornò mogio mogio tra i tacchini; e di là seguì con gli occhi la mezzadra che andava di furia, brontolando. Poco dopo s'udivano le strida del diverbio tra la massaia e lei davanti la masseria. Scurpiddu credeva di aver fatto una bella cosa, andando a chiedere la tacchina; e per dispetto di quella strega che voleva picchiarlo, accortosi che Don Pietro e Capobanda erano entrati nella vigna, non li rincorse per farli tornare addietro. Cavò dalla tasca lo zùfolo e si mise a suonare allegramente, Tiù! Tiù! Esclamando di tratto in tratto. - Bravo, Don Pietro! Bravo, Capobanda! - vedendo che i tacchini strappavano le foglie e le cime più verdi alle viti. Tiù! Tiù! Anche Paola svolazzava per la vigna a beccare qualche racìmolo, e andava e veniva, quasi lo interrogasse coi gracchi: Faccio bene? Poi, vedendo che Don Pietro e Capobanda, si inoltravano troppo, Scurpiddu tirò loro due sassolini. richiamandoli con la voce. E quando ebbe tutto il branco davanti a sè: Marcia! Era allegro. Gli pareva di non aver più responsabilità dello smarrimento della tacchina, poichè se l'erano presa quei di Poggio Don Croce, Il massaio penserebbe lui a farsela rendere: anche coi carabinieri, aggiungeva. Li aveva visti poco prima scendere per la strada del Monte. Cercavano gli amici. Ma non li avevano trovati. Ecco, li rivedeva laggiù, sotto Poggio d'Ortensio, uno a fianco all'altro, con le braccia che andavano e venivano come due pendoli e i fucili a tracolla dietro le spalle. Poveretti! Facevano tanta via, quasi ogni giorno, e non si fermavano mai. Intanto disponeva in fila i tacchini. - Avanti, Capobanda! Marcia! Paola, che ormai amava molto di farsi portare in carrozza, era andata a posarsi sul dorso di Capobanda, e gli beccava delicatamente la pelle grinzosa e bitorzoluta della testa. Il tacchino la lasciava fare. - E sessantuno!- finì di contare la massaia. Scurpiddu, che questa volta non se l'aspettava affatto, esclamò: - Bella Madre Santissima!... ..Come può essere? Mancava un'altra tacchina. - Ma che fai? Dove le conduci queste bestie? - gli domandò la massaia un po' stizzita, Scurpiddu non sapeva che rispondere. Gli era balenato in mente il sospetto che quei di Poggio Don Croce avessero voluto vendicarsi sùbito. Ma come? Ma quando? Era stato con tanto di occhi aperti. Nella vigna, tra le ginestre, tra gli ulivi non si era vista anima viva in tutta la giornata; e lui non si era mosso da sedere su un masso per far meglio la guardia. In quei pochi minuti che era andato a leticare con la mezzadra? - Hai fatto male, - lo sgridò la massaia. - E un'altra volta, quando nella masseria vien detta una cosa, fingi di non aver sentito, o tùrati le orecchie per non sentire. - C'è qualcuno che gli vuol male a questo povero orfanello! - piagnucolò la mamma di Scurpiddu per difenderlo. - No, si distrae con Paola, con lo zùfolo, chi sa con che altro! Ma, da domani in poi, Paola resterà alla masseria, a cercar le pulci ai cani. Almeno servirà a qualche cosa! Scurpiddu si era sentito trafiggere il cuore. Seduto su un mucchio di sassi, coi gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani, singhiozzava di rabbia, senza poter piangere. In quel momento si avvicinava massaio Turi: - Manca un'altra tacchina, - gli disse la moglie. Massaio Turi stette un po' a riflettere, e domandò a Scurpiddu: - Non hai sentito nessun grido? - Niente! - C'è una volpe nei dintorni. L'ha scoperta Calcapaglia, a cui ha preso tre galline. Deve aver la tana nella vallata sotto la roccia; le fanno già la posta, lui e suo genero. E hanno visto anche i volpacchiotti. Se trovano la tana, ve li affumicano dentro. Ma le volpi sono maliziose. Intanto, giacchè ora c'è l'erba fresca nel prato vicino alla fontana, muterai pascolo. La volpe non verrà fin là, specie di giorno! - Ecco!- esclamò Scurpiddu che si sentiva giustificato. Ma il giorno dopo, lassù, senza Paola, gli sembrava di essere dimezzato. La massaia avea chiuso la tàccola in una stanza nel momento che Scurpiddu conduceva via i tacchini. E Scurpiddu era partito con un po' di broncio, perchè la coscienza gli diceva di non meritare quel castigo. Lassù, le tàccole passavano a stormi, si allontanavano, sparivano dietro le colline. Altri stormi seguivano. Scurpiddu li guardava, li guardava pensando tristamente alla prigioniera. Pensava anche alla mamma che quella mattina non aveva potuto levarsi dal letto. Dormiva in una stanza che serviva anche da riposto per i cereali. Il letto era vicino alla finestra; e negli angoli stavano ammonticchiati qua ceci, là fave secche, là cicerchia. Si saliva su per una scaletta che aveva il primo gradino così accosto al tondo della macìna delle ulive, dentro lo stanzone del frantoio, che quando la mula con gli occhi bendati faceva girare la màcina, era assai incomodo salire e scendere; mancava lo spazio, ogni volta che la mula rasentava lo scalino. Colà però la persona malata poteva riposare tranquilla. Di tanto in tanto, la massaia andava a visitarla, a portarle una tazza di brodo, a domandarle se avea bisogno di niente, a farle coraggio. - Vi raccomando quella creatura, massaia! Quasi la povera donna si vedesse proprio in punto di morte. Scurpiddu la vedeva la mattina, appena alzàtosi da letto; e la sera, fino a che la povera donna non si sentiva chiudere le pupille dalla debolezza e dal sonno. - Va' a dormire; devi svegliarti per tempo, figlio mio! E quella mattina, nel prato, Scurpiddu brontolava: - La mamma a letto... e Paola carcerata! Rimaneva a lungo con gli occhi fissi alla masseria. Poi, al passaggio di ogni stormo di tàccole che calava dalle alture del Monte, gracchiando forte e celeramente remigando con le ali, gridava ad esse per sfogo: - Paola è carcerata!... Paola! - E tu, non vai ad accovacciarti, Scurpiddu? - egli domandò, scorgendolo seduto su un sasso, vicino al cancello del pollaio. - Ora vado. Ma non si mosse, - Senti quest'usignuolo? Esso dovresti imitare invece del cane, del gatto e dei tacchini!...Neppur con lo zùfolo riesciresti!... Come non sei riuscito ad imparar bene a lèggere. - O che è stato colpa mia? - Fra giorni riprenderemo. E voglio fare una scommessa. - Con chi? - Con te. Insegnerò anche a Sbirro, il cane di guardia; apprenderà prima lui, che tu. Vuoi scommettere? Scurpiddu fece una spallucciata: - Se non sa neppure abbaiare! Abbaio meglio io: Bau! Bau! Bau!..Non è forse vero? Sbirro avea risposto dalla terrazza con voce roca e ringhiosa. Senza dubbio Scurpiddu abbaiava meglio. - Va' a dormire e non fare il buffone! La luna sorgeva lentamente dietro il dorso scuro delle colline. - Guardate, Soldato, come è grande la luna! Vi piacerebbe un pane tondo così? - Va' a dormire! Il Soldato rientrò nella stalla, per andare a buttarsi sul pagliericcio, là in fondo. Non poteva prender sonno senza sentire il rosichìo delle mule che masticavano la biada e la paglia, e lo scalpito irrequieto di esse su l'acciottolato del pavimento. Ancora non era freddo, la porta della stalla restava aperta tutta la nottata; e Scurpiddu sentì il Soldato picchiare con la mano su la groppa di una mula per farla tirare più in là, dar la voce a un'altra, accarezzare la groppa d'una terza. Scurpiddu stette un momentino fermo; in piedi. Il cuore gli batteva forte. Era risoluto; quella notte voleva fare la scoperta a cui pensava da tanto tempo: vedere il giubbone di albagio dello zi' Girolamo, col cappuccio ritto, messo a sedere sul fondo del corbello arrovesciato, e con tra le maniche incrociate il bastone di bovaro... Se non si scorgevano le gambe dello zi' Girolamo, voleva dire ch'egli era andato attorno con le Nonne. Ma bisognava aspettare fino alla mezzanotte. Avrebbe sentito suonare i cento tocchi dal campanile di Santa Maria in Mineo. Di notte, sembrava che l'orologio fosse dietro la collina di rimpetto. Non voleva andare a coricarsi. Se chiudeva gli occhi addio! Fino all'alba non lo avrebbero svegliato neppur le cannonate. Che fare intanto? Girò dietro il pollaio, tra i fichi d'India per affacciarsi sul burrone della Caldaietta dove cascava l'acqua del beveratoio che formava ruscello. Si distinguevano i sassi, i cespugli e le viottoline laggiù, ora che la luna piena era un po' alta. L'acqua cascava a piombo, nella conca della Caldaietta, e si riversava dall'orlo tra i massi in fondo alla vallata, luccicando qua e là come uno specchio. - Guarda! Due conigli che si rincorrono! E grossi! Scurpiddu tese le braccia, come per prendere la mira col fucile. Non li avrebbe sbagliati! Si udiva, a intervalli, un grido di uccello da uno spacco della roccia di rimpetto, grido stridulo rimbalzante, che sembrava quasi una risata. Scurpiddu cominciava ad aver paura di trovarsi là, solo solo, a quell'ora, con quel silenzio interrotto soltanto dal grido del fagiano che aveva il nido in uno spacco della roccia, e dall'abbaio che veniva in quel momento dal fondo della vallata e che somigliava poco a un abbaio di cane. Fece alcuni passi più in là, si sdraiò bocconi per evitare un capogiro, e sporse la testa nel vuoto. La valle si sprofondava scura scura sotto le rocce che scendevano quasi a perpendicolo dalla parte opposta. Tra il nero delle macchie e degli alberi, biancheggiavano qua e là massi piccoli e grossi, staccàtisi dall'alto, rotolàtisi per la china e arrestàtisi a mezza costa. Quel grido, che aveva dell'abbaio e del guaìto, riprendeva di tratto in tratto, ora qua, ora là, come se l'animale che lo emetteva errasse tra le siepi, tra le erbe alte e i sassi... Scurpiddu aguzzava gli occhi per indovinare che mai fossero quelle due macchie bianche che si muovevano lentamente tra gli oleastri, sotto gli olmi, e già si arrampicavano per la ripida viottola, dietro le piante di nocciuoli. Pareva sfuggissero il lume della luna, si acquattassero, uscissero d'agguato, tornassero ad appostarsi... Trasalì! Nel silenzio cominciarono a ondulare, lenti, malinconici, paurosi, i cento colpi alternati dell'orologio di Santa Maria. Tin! Ton! Tin! Ton! Mezzanotte! Si rizzò in piedi, e rifece il breve tratto dietro il pollaio, tra i fichi d'India. Doveva passare davanti a la stalla delle mule, o continuare tra i fichi d'India, diritto, e spuntare su l'agghiaccio, voltando il cantone del fienile? No; qui faceva troppo rumore con le scarpe, calpestando le erbe secche e smuovendo le scheggie di roccia sparse per terra. Il cuore tornava a balzargli così rapido, che Scurpiddu dovette fermarsi. Brividi lo scotevano dalla testa ai piedi, brividi di terrore. Ma la curiosità, più forte di ogni altro sentimento, lo spingeva avanti. Trattenendo il respiro, facendo due, tre passi, e fermandosi a spiare con gli occhi spauriti e le sopracciglia increspate, Scurpiddu era arrivato vicino alla stalla quando fu arrestato dal rumore ottuso dei passi d'una bestia - giumenta o mula? - che usciva alla chetichella da la stalla. Il Soldato forse aveva legato male la cavezza all'anello di ferro della mangiatoia, e l'animale, vistosi sciolto, andava a farsi una rivoltolata fra la polvere, là davanti... Affacciò la testa dallo spigolo della cantonata... - Ah, mamma mia! La giumenta resisteva puntando i piedi, mentre un uomo la tirava pel capestro e un altro le dava sui fianchi con la bocca del fucile. Li riconobbe; erano gli amici! - Madonna Santissima!... ...Rubano la giumenta! Scurpiddu si sentì strozzare il grido in gola. - La portano via! - balbettava sottovoce. - Portano via la giumenta!...Soldato, portano via la giumenta! E quando capì che la giumenta non poteva resistere più e che uno degli amici tentava di cavalcarla per farla camminare più spedita, si sentì sciogliere la lingua, e cominciò a strillare, nascosto dietro lo spigolo, facendosi piccino, piccino: - Soldato, la giumenta! Soldato, rubano la giumenta! Ladri!... Ladri! Soldato! Con la foga dello strillare aveva preso coraggio. Udiva la voce impermalita del Soldato che rispondeva dalla stalla; dall'agghiaccio lo zi' Girolamo gridava: - Ooh! Ooh! - per mostrare che era sveglio anche lui. Allora Scurpiddu si sentì diventare un altro, e corse dietro agli amici, gridando: - Lasciàtela! Lasciàtela! Soldato! Zi' Girolamo! Si udirono, e parve venissero dalla masseria, due colpi di fucile che rimbombarono nel silenzio, poi altri due, uno appresso all'altro... Tutta la masseria era in rumore. Chi gridava di qua, chi domandava di là: - Che è stato?... Ladri! Ladri! Soldato! Massaio! - E strilli di donne. Il Soldato, che era uscito dalla stalla e ancora non si raccapezzava, udì tra gli ulivi lo scalpito di un quadrupede e poi, a cavallo della giumenta, vide Scurpiddu che agitava le gambe percuotendo i fianchi coi tacchi per farla andare di galoppo. - Eccola...Sono scappati... Ecco la giumenta! -- gridava Scurpiddu, Dalla gioia, gli brillavano gli occhi su la faccia rossa, avvampata. - E se ti ammazzavano? - esclamò il Soldato aiutandolo a scendere di cavallo. Massaio Turi accorreva, vestito a metà, con lo schioppo in pugno, seguìto dalla massaia che voleva trattenerlo: - Lasciate andare, santo cristiano! E piangeva. Facevano crocchio gli uomini sbucati dal fienile dove dormivano insieme in quel tempo di aratura; parlavano tutti a una volta. E il Soldato, che voleva raccontar lui il fatto non riusciva a farsi ascoltare. Si udiva soltanto: - Col pericolo di farsi ammazzare! Ed era l'esclamazione ammirativa con cui egli s'interrompeva o ripigliava da capo. Gli pareva impossibile che Scurpiddu, quell'animuccia del Purgatorio, avesse potuto avere tanto coraggio e tanta audacia. Scurpiddu se ne stava zitto. Temeva che gli domandassero: - E tu che facevi là fuori, a mezzanotte? La stessa mattina, più tardi, si era saputo l'affare delle schioppettate, Calcapaglia e suo genero stati fino alla mezzanotte alla posta della volpe, - erano loro, in maniche di camicia, che si acquattavano, uscivano d'agguato, tornavano ad appostarsi, e Scurpiddu non aveva potuto riconoscerli, nonostante il lume di luna, per la distanza, - Calcapaglia e suo genero avevano finalmente visto arrivare la volpe, che andava abbaiando e uggiolando tra le macchie, e le avevano tirato addosso, sbagliandola prima, ammazzandola coi secondi colpi. - Un viaggio e due servigi! - disse ridendo massaio Turi. - Avete ammazzato la volpe, e spaventato i ladri! Calcapaglia aveva portato lassù la bestia col muso insanguinato e il fianco squarciato, perchè la massaia la cucinasse, come sapeva ben cucinarla lei. Se ne sarebbero leccate le dita domani, ch'era domenica, e lui e il genero sarebbero venuti anche per la santa messa. - Ah, ti hanno dato gli stranguglioni le due tacchine, brutta bestiaccia! - esclamò Scurpiddu, osservando la volpe intrisa di sangue, stesa per terra con le gambe irrigidite e la lingua mezza fuori tra i denti. - Ho pianto due volte per cagion tua, brutta bestiaccia! E le aggiustò una pedata, aspettando che Paola venisse a stuzzicarlo. - A Scurpiddu daremo a rodere la coda! Così erano trascorsi una quindicina di giorni, fino alla sera - No, massaia, la coda spetta a me; ne ornerò la giumenta per ricordo, - disse il Soldato che cavò di tasca il coltello. Scurpiddu volle almeno tenerla da cima mentre il Soldato la tagliava. E quando l'operazione fu terminata, sciorinò la coda per aria, trionfalmente, agitandola attorno, saltando, abbaiando, miagolando, chicchiriando; pareva ammattito dalla gioia, e tutti ridevano e battevano le mani: - Bravo, Scurpiddu! Egli aveva confidato alla mamma come si era trovato fuori a quell'ora. La povera donna, ridendo, l'aveva ridetto alla massaia; la massaia a massaio Turi che ci si era divertito e cominciò a canzonarlo davanti a tutti: - Bada, Scurpiddu! Con le Nonne non si scherza! - Se lo sa zi' Girolamo! - soggiungeva il Soldato, - viene a pizzicottarti nel sonno. No, delle Nonne non aveva più tanta paura, quanta degli amici. E stava tutta la giornata con l'animo sospeso, in mezzo al prato, tra i tacchini al pascolo. Respirava soltanto nei giorni che vedeva passare i carabinieri, parecchi ora, a due a due chi di qua per la strada del Monte, chi di là per le colline di Bardella e dell'Arcura, come tanti cani che ricercassero col fiuto. E si sentì rinascere il giorno che arrivò fino alla masseria la notizia che gli amici erano stati scovati e arrestati nelle campagne di Rammacca, lontano. Quel giorno Scurpiddu fece una diecina di capriole sul prato, e ordinò la banda dei tacchini, glù-glù-glù, e si sfiatò mezza giornata con lo zùfolo, Tiù! Tiù! Gli sembrava di essere diventato il re della contrada, libero da ogni timore; e si faceva rincorrere da Paola e la rincorreva su e giù, ruzzando su l'erba, sdraiandosi supino quant'era lungo, con le braccia aperte, e aspettando che Paola venisse a stuzzicarlo. Così erano trascorsi una quindicina di giorni, fino alla sera in cui vedendo che il tempo minacciava, egli avviò prima dell'ora, il branco dei tacchini verso la masseria. Il vento formava mulinelli, trasportando per aria pianticine strappate e polvere, e stornava i tacchini dalla via diritta. Parte di essi si era sbrancata dal lato della fontana e Scurpiddu borbottava: - Accidenti! - vedendo che non gli davano retta. Dovette spingere gli altri dietro loro. Alle prime gocce di pioggia che vennero giù, il branco prese la rincorsa. - Ooh, Ooh, ragazzo! Lasci indietro la tacchina coi pulcini! Scurpiddu credette che il mezzadro di Poggio Don Croce, venuto ad attingere acqua alla fontana, lo canzonasse a motivo della scenata della tacchina: e tirava diritto. - Ooh! Ooh! Che non senti? Scurpiddu si voltò. Per la china della strada, rasente al muricciuolo gli correva dietro, davvero, una tacchina seguìta da mezza dozzina di pulcini che pigolavano spauriti. La riconobbe subito. Era una di quelle sperdute, e si fermò, spalancando gli occhi dallo stupore quasi vedesse un portento incredibile... Sì, sì, una delle due tacchine! E sei pulcini dietro, con la lanugine bianca listata di strisce scure, che il vento agitava: - Nè rubata, nè mangiata dalla volpe dunque? Uno scherzo della mezzadra, che così faceva un bel regalo alla massaia? Non trovava altra spiegazione. E si cacciò avanti i sopraggiunti, stimolandoli con la canna. Gli pareva mill'anni di arrivare alla masseria, e non si curava della pioggia incalzante, timoroso soltanto che tacchina e pulcini non gli sparissero sotto gli occhi, come aveva udito raccontare di chiocce e pulcini fatati. E quando fu in vista della masseria, si mise a correre, gridando: - Massaia, massaia! La tacchina! Non riusciva a dir altro. - E con sei pulcini, massaia! Il branco arrivava davanti al cancello, affollandosi per entrare e ripararsi nel pollaio, e Scurpiddu lo scompigliò per pigliare in mano due pulcini e mostrarli alla massaia. - Di chi sono? - Nostri. Il mezzadro di Poggio Don Croce mi ha gridato: - Ooh! Ooh! Lasci indietro la tacchina coi pulcini! - Mi pareva che canzonasse... Invece. Li ha covati la tacchina in qualche siepe, tra le ginestre. E come sono belli! Grassi! La tacchina li conduceva qui. Hanno fame poveretti! Scurpiddu sorrideva. - Belli! Grassi! Sfido!- esclamò, - li ha allevati la mezzadra. - Chi te l'ha detto? - Eh! - fece. - Sei pulcini? Quell'arpia? Avrebbe piuttosto tirato il collo alla chioccia. Secondo la mamma di Scurpiddu, quello era un miracolo della Madonna, per giustificare il ragazzo. Chioccia e pulcini furono condotti in casa. La massaia mise un po' di crusca in un piatto, vi tritò su due cime di prezzemolo e intrise tutto con acqua. I pulcini beccavano golosamente, e la chioccia pure. - Se trovi l'altra covata, - disse massaio Turi a Scurpiddu, - te ne faccio un regalo. - Davvero, massaio? - Quando io do parola...! A Scurpiddu, dalla contentezza straluccicavano gli occhi. Pestava coi piedi, girava su se stesso stropicciandosi le mani. Sapeva lui dove andare a trovare l'altra covata! Gli pareva impossibile che la tacchina avesse ogni giorno deposto un uovo in qualche siepe e poi li avesse covati, come pretendeva la massaia. Se la mezzadra di Poggio Don Croce si era fatta coscienza di rendere una tacchina e con sei pulcini per giunta, avrebbe reso anche l'altra con altrettanti pulcini. Gli sembrava così naturale, che non vedeva l'ora di essere alla mattina appresso, e andare ad accertarsene. La giornata si levò nebbiosa e piovigginosa. Tanto meglio. Egli non doveva condurre i tacchini al pascolo. E si avviò verso Poggio Don Croce zitto zitto. La mezzadra, che stava pettinando la figlia su lo scalino della porta, fece il viso arcigno vedendolo spuntare dai melogranati che formavano quasi siepe attorno alla casa, Scurpiddu volle fare il malizioso. - Abbiamo trovato la tacchina! E fissava negli occhi la mezzadra. - Sì? Buon pro vi faccia! Scurpiddu si attendeva tutt'altra risposta. La mezzadra, con le sopracciglia aggrottate, riprese a pettinare la ragazza. - L'abbiamo ritrovata e con sei pulcini! - egli soggiunse. - Si vede che il Signore vuole aiutare le male lingue! E, dalla stizza, tirò in su le trecce posteriori, per fare la crocchia, con tanta mala grazia che la ragazza strillò: - Ahi! Vedendo che Scurpiddu restava là fermo, con le mani dietro alla schiena, la mezzadra gli si rivolse come una cagna arrabbiata: - E ora che vuoi? Scurpiddu avrebbe voluto rispondere: - L'altra tacchina. - Ma non n'ebbe il coraggio. - Niente voglio, - disse mortificato. Intanto non si risolveva ad andarsene. - L'altra tacchina,.. - biascicò. - Qual'altra tacchina? Sentiamo!- lo interruppe la mezzadra. - Quella sperduta il giorno dopo; dovrebb'essere... da queste parti. Pronunziava le parole lentamente, e aveva sul labbro il lieve sorrisino di chi sa e intanto finge di non sapere. - Che intendi dire?- strillò la mezzadra. - Niente, vado a cercarla - Va a romperti la noce del collo, tu e la tua massaia! - L'abbiamo ritrovata, e con sei pulcini, la prima tacchina! E le voltò le spalle serio, serio, quasi dopo questa frecciata si aspettasse di essere stato capito e di sentirsi richiamare. Udì borbottarsi qualcosa dietro, che non intese bene, e un po' deluso, scese verso le ginestre dalla parte della vigna, lungo il limite segnato dalle piante di àgave che incurvavano le larghe e acuminate foglie carnose, con un bel fusto ritto in mezzo che slargava in cima i rami fioriti, a guisa di braccia di candelabro Il cielo si rischiarava. Occhiate di sole facevano capolino, di fra le nuvole grigie velandosi subito e tornando a sorridere, qua e là, con vaste chiazze dorate, su le macchie luccicanti per la pioggia che le avea lavate nella nottata. E Scurpiddu, pur pensando che quella strega della mezzadra non avea voluto dargli la soddisfazione di confessargli che l'altra tacchina, era presso di lei, per scrupolo di coscienza, batteva coi piedi tra le ginestre, sciò! sciò! E guardava vicino, lontano fin dove poteva giungere l'occhio. Laggiù le ginestre finivano, il terreno si avvallava. Fitte macchie di rovi, vecchie piante di fichi d'India cingevano gli orli dove lo scoscendimento era maggiore. Tutt'a un tratto si fermò trattenendo il respiro. Gli era parso? Si udiva, ora sì, ora no, un pigolio, ma non si capiva bene da qual punto venisse. E tese l'orecchio. No, non s'ingannava, era pigolìo di tacchina. E corse verso la gran macchia di rovi che circondava un masso, a sinistra; tremava tutto dalla commozione. - Ah, birbona! Sei lì? E ficcò la testa fra i tralci del roveto, senza punto curarsi delle spine che gli graffiavano le mani e gli strappavano i capelli. - Ah, birbona! Sei lì? La chioccia, accovacciata in una buca sotto il sasso, si rizzò e i pulcini ch'ella copriva con le ali tentarono di nascondersi, pigolando in fondo alla buca. Afferrò la tacchina per un'ala e la trasse fuori. I pulcini accorsero dietro la madre. - Otto, Signore Iddio! Otto! - E l'ultimo covato aveva ancora appiccicato addosso un po' del guscio dell'uovo da cui doveva essere uscito poche ore addietro. Scurpiddu si strizzava le mani, si faceva piccino piccino; accarezzava la tacchina, palpava i pulcini. Come portarli via? Tirò fuori il davanti della camicia facendone una specie di borsa, e ve li cacciò dentro a uno e a due per volta, ridendo pel solletico che essi gli facevano con le ali e coi beccucci. La tacchina gli andava dietro a testa ritta, pigolando, quasi reclamasse i piccini. In quel punto un rovescione di pioggia cominciò a venir giù all'improvviso. Scurpiddu però non affrettava il passo, per non far male ai pulcini. Avrebbe potuto ricoverarsi sotto la tettoia del casotto delle api; ma che gl'importava di essere inzuppato dalla testa ai piedi? - Otto! E questi sono miei!...Otto!...Me li ha regalati il massaio! Se lo ripeteva, per confermare a sè stesso che il massaio avrebbe mantenuto la parola: - Otto!...E miei! Tutti miei! Il Soldato si divertiva a farlo arrabbiare dicendogli così con aria di canzonatura, tutte le volte che lo vedeva. - O che li ho rubati, forse? - rispondeva Scurpiddu. - E tu credi davvero che il massaio ti ha regalato i pulcini? Quando saranno cresciuti...Per ora fa spassare il ragazzino! E spàssati! Spàssati! - Sarà vero, mamma, quel che dice il Soldato? Ricorreva dalla sua mamma per rassicurarsi. - Làscialo cantare! - Domandatelo voi al massaio, - insisteva. - A me, mi ha risposto: Sì, sì, asino! Sono tuoi!. Ma poi si è messo a ridere. Glielo domanderete, mamma? - Appena potrò alzarmi da letto, sta' tranquillo. Gli avea risposto con un fil di voce. Ormai era convinta che da quel letto non si sarebbe più alzata viva. Medico e medicine niente. I medici che possono farci col castigo di Dio? Tastano il polso, ordinano intrugli che ci vuole un occhio del capo per pagarli; e poi?... Se il Signore non fa il miracolo, si crepa più presto; e al medico che ci ammazza bisogna dargli anche quattrini, per giunta! Nella masseria tutti la pensavano così; e la massaia affermava che certe medicine che sapeva lei, decotti di erbe e polveri di foglie secche, tostate, guarivano la gente meglio di qualunque intruglio dello speziale, se Gesù Cristo e la Madonna li benedicevano: il busilli stava qui. Se Dio non vuole... E Domineddio proprio non voleva che la povera comare Nina guarisse. - Pei miei peccati! - ella diceva. - Ma è stata la fame, massaia! Tutti i poveretti andavano via, in cerca di un tozzo di pane nei paesi dell'interno dove non avevano avuto la mal'annata... Mio marito diceva: - No, se dobbiamo morire, è meglio morire qui! - Io mi sentii prendere da una vampata di pazzia! La fame! Credetemi, massaia!... La fame! E andai via con gli altri, famiglie intere! Poi nessuno tornava... Chi sapeva la via? E senza un soldo, come avventurarsi? Facevo scrivere una lettera di tanto in tanto... anche al sindaco... Non rispondevano mai. Quando arrivò la notizia della disgrazia di mio marito... - Lo so, lo so! Me n'avete parlato tante volte. - la interrompeva la massaia. Ella sentiva bisogno di giustificarsi davanti la sua coscienza riguardo all'abbandono del figliuolo. E aveva voluto confessarsi l'altra domenica, con Don Pietro venuto a celebrare la solita messa, Scurpiddu non aveva nessun'idea del grave pericolo di perdere sua madre. Per ciò una sera, tornando alla masseria coi tacchini, non badò molto alla commozione e al turbamento della massaia che gli disse: - La tua mamma riposa: non disturbarla poveretta. Il Soldato, quella sera, non solamente non lo stuzzicò come soleva, ma dopo aver mangiato in comune con gli uomini la minestra di fave secche lessate e condite con olio e aceto, tirò fuori da una tasca un suo libro scucito e mezzo strappato, e chiamò Scurpiddu: - Vieni qua, vediamo se più riconosci un a o un b! E tutti stavano zitti attorno per sentir compitare il ragazzo. Era un bel pezzo che Scurpiddu non guardava una pagina del sillabario: pure quella sera ogni lettera, ogni sillaba, ogni parola gli tornava alla memoria, si faceva subito riconoscere, gli balzava su la punta della lingua prontissimamente. Il Soldato n'era stupito e lo stesso Scurpiddu più di lui. Il Soldato, invece di dargli i soliti scapaccioni, per chiasso, gli accarezzava la testa, lo incoraggiava con bravo! bene! E uno degli uomini che stavano là attorno, incantati, esclamò: - Ne sa già quanto il domine, e presto gli metterà la saliva sul naso. Quel contadino parlava come una volta, quando i maestri di scuola erano preti, e usavano quella sconcezza di far mettere dallo scolaro più bravo un po' di saliva sul naso del compagno negligente, per castigo. - Va' a dormire! - disse massaio Turi al ragazzo. Non sapevano come comportarsi col povero orfanello. Domani sarebbero venuti quattro manovali e il prete per portar via il cadavere di comare Nina. Massaio Turi era andato a far la denunzia della morte al Municipio in Mineo, e aveva combinato il trasporto. La massaia teneva già in pronto un cencio nero da mettere attorno al collo di Scurpiddu, in segno di lutto. Ma non volevano farlo assistere al triste spettacolo, quando i manovali si sarebbero caricato su le spalle il cataletto con la poveretta che aveva cessato di penare. La massaia si aggirava per la cucina mentre la vecchia Tegònia stacciava la farina di grano pel pane da impastare domani, e di tratto in tratto domandava alla vecchia: - Come si farà per dirgli: Tua madre è morta? - Glielo dirà il massaio. - Ah, Signor Iddio! La morta era lassù sul lettuccio, col lenzuolo tirato su la faccia e una candela della canderola accesa dappiè sur un tavolino. Aveva chiuso a chiave la stanza. E ora che Scurpiddu era andato a dormire, gli uomini recitavano il rosario in suffragio di quell'anima; la massaia e Tegònia rispondevano dalla cucina senza cessare di far le faccende. Anche lo zi' Girolamo quella sera era venuto nel frantoio con gli altri e diceva la litania, in un latino tutto suo, con voce compunta. All'ultimo, massaio Turi si rivolse al Soldato. - Domani andrai tu con Scurpiddu per tenerlo distratto e non farlo accorgere di niente. - Io gliela farei vedere l'ultima volta, - rispose il Soldato, - Tanto è ragazzo, e alla sua età non si sente gran dolore: si capisce poco. - No, no. Andrete lassù, all'Arcura, di buon mattino. Scurpiddu si era levato all'alba, e, raccolte le uova delle tacchine e delle galline dai corbelli del pollaio, le aveva portate alla massaia che già era in cucina a impastare il pane con la vecchia serva. - Dove vai? - gli domandò, vedendolo andare via. - Vo a vedere la mamma, se ha bisogno di niente. - Lasciala riposare; è troppo presto. Prendi intanto un po' di legna per ardere il forno. Scurpiddu obbedì. - E due corbelli di sansa, - ordinò la massaia. - Ti farò una bella focaccia con le ulive nere salate. Ti piace? - Chicchirichì! - rispose Scurpiddu per ringraziamento. A quell'allegria spensierata, la massaia si sentì stringere il cuore. - Ehi, Scurpiddu! - chiamò il Soldato. - Andiamo; oggi verrò con te; vo' imparare il mestiere di nuzzaru. - E la mamma non debbo vederla? - La vedrai al ritorno, - gridò la massaia dalla cucina con voce commossa. Scurpiddu esitò un momento, poi s'avviò verso il pollaio. Il sole già spuntava dall'alto della collina dell'Arcura. Lo zi' Girolamo, nell'agghiaccio, scioglieva le funi dalle corna dei buoi e delle vacche e si preparava a partire pel pascolo con le sue bestie. Rallegràti dalla frescura mattutina, i tacchini andavano quasi di fretta per la strada piana sotto gli ulivi che la fiancheggiavano formando una specie di viale. Tutta la vallata era in risveglio, piena di cinguettii, di stridi di falchetti, di gracchi di tàccole, di muggiti dei buoi che i contadini conducevano al beveratoio prima di attaccarli all'aratro. I pioppi attorno al beveratoio sembravano presi da fremiti con le foglie verdi da un lato e bianchicce dall'altro, che la brezzolina agitava, Il Soldato e Scurpiddu procedevano muti, dietro il branco di tacchini, l'uno compreso di pietà pel ragazzo ignaro della disgrazia che lo aveva colpito, l'altro col pensiero alla sua mamma non potuta vedere da ier sera. Scurpiddu ruppe il silenzio: - Quando eravate alla guerra chi sa che paura, Soldato? - Alle prime fucilate, sì, - E poi? - Chi capisce più quel che si fa? Si diventa bestie, come in una rissa. - È lontano dove si va alla guerra? - Dove ci conducono; i soldati servono per questo. Se avessi preso nuova ferma, ora sarei per lo meno caporale. - Che fa il caporale? - Comanda agli altri soldati, come tu ai tacchini. - Anche i miei tacchini fanno la guerra. Ve la farò vedere. Capobanda è valente; non si lascia mai sopraffare. Voglio chiamarlo Caporale da oggi in poi. - Tu non andrai soldato. Sei contento? - Io, io ci andrei volentieri. Vedrei tanti paesi! Al tempo che guardavo i tacchini del notaio, passavano spesso molti soldati da quelle parti. Non arrivavo neppur a contarli... più di cento alla volta. - Se tu avessi visto quando al campo eravamo migliaia e migliaia per le manovre! - Che cosa sono le manovre? - La guerra finta. Marce di qua, marce di là per pianure, per montagne, sotto la vampa del sole, sotto la pioggia! Quelle sono fatiche! Ma era anche un divertimento. - Non ammazzavate nessuno, è vero? - Se era per finta, sciocco! A metà della salita il Soldato si era fermato. - Che guardate? - Niente, - rispose. Con gli occhi avvezzi a veder bene molto lontano, egli aveva scorto i quattro manovali col cataletto e la cassa mortuaria, e il prete e il sagrestano in cotta, a cavallo, che venivano per la scoscesa di Pietre Bianche, presso il fiumiciattolo delle Balatelle; fra tre quarti d'ora sarebbero stati alla masseria. E disse sùbito: - I tacchini li condurremo di là degli ulivi del Piano del Galluzzo. C'è pascolo grasso da quel lato. Così vuole il massaio. - Gli amici, vedete, erano qui, tra questi mandorli, - fece Scurpiddu, non si rammentando più delle raccomandazioni di non fiatare dell'accaduto. - Quali amici? - Quelli che poi stavano per rubare la giumenta. E raccontò il fatto, pentendosi della sua imprudenza di mano in mano che parlava. - Zitto però col massaio, - lo avvertì; - non vuole che si sappia. Ma ora gli amici sono in carcere. Non dobbiamo più averne paura. Nel Piano del Galluzzo i tacchini si sbandarono sotto gli ulivi. Scurpiddu li rincorreva, chiamandoli per nome minacciandoli con la canna. - Lasciali pascere un po' qui. - gli disse il Soldato. Scurpiddu lo interrogava intorno a quei paesi lontani, di là del mare. Erano più grandi di Mineo? C'era la chiesa di Santa Agrippina? Il Soldato sorrideva. - C'è il duomo a Milano!... Una chiesa che ci si può ficcar dentro Mineo con tutte le sue case, le sue chiese, i monasteri e i conventi... Scurpiddu stava ad ascoltarlo un po' incredulo. - Dalla porta di mezzo, il prete che dice la messa all'altar maggiore sembra un bambino di tre anni. - Bum: - fece Scurpiddu. - A chi volete darla a bere? - Vedessi poi quante vie! Un bosco. Ci si smarrisce! - E come fanno le persone per ritrovare le loro case? - Bestia! - Parlo di chi non è nativo di là. - Il mare, è vero che è più grande della Piana? - Lo vedi il cielo? Ti pare che finisca là, su le colline: arrivi là e il cielo non finisce mai. Acqua, acqua, acqua... .come il cielo! Così è il mare. - E i tacchini? Dove pascolano? Non c'è tacchini da quelle parti? - Nel mare ci sono i pesci che brùlicano... E più se ne prende e più ce n'è. I tacchini pascolano nelle campagne come queste... Che fai? - Voglio vedere dov'è lo zi' Girolamo coi buoi. - Che te n'importa? Vieni qua. Caccia i tacchini più avanti. Tutte le precauzioni del Soldato però riuscirono vane. Egli si era steso su l'erba, fumando; e il sonno gli aveva fatto la burla di afferrarlo all'improvviso, a piè dell'ulivo, con la pipa in bocca. Scurpiddu si era affacciato dal ciglione da cui si scopriva tutta la vallata e, laggiù, laggiù, la masseria fra gli alberi e i fichi d'India. - Soldato! Soldato! - chiamò. Per la strada, vicino al beveratoio, vedeva passare i facchini di ritorno, col cataletto e su la cassa da morto, ma non distingueva chi fossero, nè che cosa portassero. - Soldato! Soldato! Venite a vedere. E mentre il Soldato si destava dal sonno e si rizzava da terra già indovinando, Scurpiddu, quasi gli occhi e la mente gli si fossero snebbiati tutt'a un tratto, con le mani tra' capelli, si metteva a gridare: - La mamma! La mamma! Correva giù per la china all'impazzata, senza ascoltare il Soldato che lo inseguiva per fermarlo, chiamando. - Mommo! Mommo! Gli sembrava sconveniente servirsi del nomignolo in quel punto. Lo raggiunse a stento. Scurpiddu gli sguizzava tra le mani dibattendosi, gridando: «Mamma! Mamma!» pallido, con gli occhi spaventati, senza una lacrima. Afferratolo per un braccio e mettendoglisi davanti, il Soldato voleva fare il severo e quasi lo strapazzava; ma gli tremava la voce: - Zitto! Cheto! Non è vero! - E allora...perchè non mi lasciate guardare? -- balbettò Scurpiddu tra i singhiozzi irrompenti. - Oh, mamma! Oh, mammuccia mia! Tutte le mattine andava via coi tacchini e con Paola; ma arrivato nel luogo del pascolo, si sdraiava per terra quasi sentisse una stanchezza interiore, un senso di abbandono. Non pensava a niente di preciso. Strappava a filo a filo le erbucce a portata di mano, ne osservava le foglioline, i fiorellini, gli steli, ma senza curiosità, così, per fare qualche cosa, per distrarsi, pareva. Non prestava attenzione a nulla; buttava via un filo d'erba, ne strappava un altro, poi un altro: certe volte stritolava le foglie delle erbe con due dita, ne faceva pallottoline, le lanciava per aria, e rimaneva assorto. Paola veniva a posàrglisi addosso, lo stuzzicava col becco, volava via, tornava, si allontanava con lunghe volate. Egli la lasciava fare, indifferente la seguiva con lo sguardo, e all'ultimo la richiamava per lisciarle le piume, con carezze lente, quasi svogliate. E durante quella specie di dormiveglia che lo teneva sdraiato là su l'erba, a intervalli, gli riappariva davanti agli occhi la triste scena di quel cataletto con su la cassa della morta, portato via da quegli uomini, e dietro, a cavallo di due mule, il prete e il sagrestano... La sua povera mamma, che se n'andava, come se n'era andata una volta, ma questa volta per sempre!... Gli pareva di sognare. E gli pareva anche, di giorno in giorno, che quella visione si allontanasse e stesse per dileguarsi. E si sentiva di nuovo solo solo, rassegnato alla sua sorte, proprio come due anni addietro, quando da Palagonía aveva preso la strada delle colline senza sapere dove andasse e perchè andasse, e massaio Turi lo aveva incontrato sul ciglione dell'Arcura e gli aveva detto: - Vuoi allogarti per nuzzaru? Infatti, una mattina, lo zi' Girolamo che menava i buoi al beveratorio, udendo il Tiù! Tiù! di uno zùfolo lassù tra i mandorli di Rossignolo, sorrise scotendo la testa: - Scurpiddu riprende a sonare. Così è la vita! I morti se ne vanno, e chi resta deve pensare ai fatti suoi. E i fatti suoi per Scurpiddu erano gli otto pulcini che venivano su vispi e grassi e si erano già rivestiti di piume. A governarli per ora pensava la massaia, con farina di ceci abbrustoliti intrisa con l'acqua, e foglie di lattuga e prezzemolo tagliuzzate finemente. - Come sono cresciuti! Quasi si confondono con quelli dell'altra covata. - Non dubitare, - rispose la massaia ridendo. - Metteremo loro il segno per distinguerli. E soggiunse: - Sei fortunato! Guarda: due dei miei hanno il torcicollo, e sarà difficile che càmpino. I due pulcini, quasi avessero il capogiro, roteavano su sè stessi, col collo contorto e la testa per aria. - Paiono ubbriachi! - disse Scurpiddu. I suoi, che tra le piume avevano ancora un po' di lanugine, diluviavano come tanti affamati. Erano tre maschi e cinque femmine. Li osservava amorosamente mentre mangiavano attorno al piatto insieme con gli altri. E se uno di essi faceva il prepotente per allontanare dal posto qualcuno dell'altra covata, dando colpi di becco a destra e a sinistra, Scurpiddu rideva: - Vorrebbe ingoiarsi tutto lui! Per distinguere le covate e far contento Scurpiddu, la massaia aveva cucito a uno stinco di tutti i pulcini di lui un pezzetto di stoffa a colore. Ora soltanto egli li reputava proprio cosa sua: e gli sapeva mill'anni di vederli cresciuti da poterli condurre in branco con gli altri a pascolare pel prato, su le alture, e addestrarli a marciare. E ruminava lunghi càlcoli. Le femmine avrebbero poi fatto le uova: egli avrebbe messo una, due covate... Ed eccolo con un branco di tacchini di sua proprietà! - Solamente... E si arrestava confuso pensando che non aveva terreni dove condurli a pascolare, nè pollaio dove accovacciarli. - Vah! Ne venderò un paio e dirò a massaio Turi: - Pago l'affitto del pascolo e del pollaio... dieci lire, quindici, quanto volete! Si sentiva le tasche ripiene di soldi e spendeva e spandeva come un riccone. - Dieci...Quindici lire! Quanto volete? In quel momento però tutta la sua ricchezza erano i dieci soldi regalàtigli dagli amici. Involtàtili in un pezzetto di carta, li aveva nascosti in un buco della parete del suo stambugio, e se n'era scordato. Facendo e rifacendo quei suoi càlcoli, gli erano tornati in mente, e mèssili nella tasca, li portava con sè, sempre avvolti con la carta. In quella tasca, oltre allo zùfolo e al coltellino col manico di ferro, Scurpiddu teneva risposti una scatoletta di latta da fiammiferi, trovata mesi addietro per terra vicino al beveratoio; refe, spago, ritagli di stoffe, e una ventina di conchiglie scavate in un sedimento di terreno argilloso dell'Arcura, di forme diverse e di varia grandezza. Nei momenti in cui non sapeva che fare, si era messo a cavarle fuori col coltellino e a ripulirle. Parecchie di esse, simili a un cornino, le aveva regalate al Soldato perchè se ne servisse da bocchini pel sigaro; parevano fatte a posta per questo. Quelle a foggia di lumaca, con bizzarri disegni, con giri dentellati, con sporgenze acute come spine, e l'interno iridato, quasi di madreperla, le conservava, senza scopo, unicamente perchè erano cosettine bizzarre. Aveva trovato una volta, a fior di terra, anche due monete antiche, due soldi vecchi, egli diceva. Ma avendole mostrate a Don Pietro, questi gli disse: - Che te ne fai? Dàmmele. E Scurpiddu gliele diede. Il Soldato e gli altri contadini, mentre Don Pietro celebrava la messa, si erano divertiti a far credere a Scurpiddu che quelle monete valevano per lo meno dieci lire l'una, e che il prete sarebbe andato a venderle in Catania, dove quelle cose del tempo dei Saraceni erano apprezzate e ricercate; e dicendo del tempo dei Saraceni intendevano parlare d'una grande antichità. Scurpiddu alzava le spalle, voleva mostrare di non credere a quel che gli soffiavano nell'orecchio; intanto si pentiva del regalo fatto, e si maravigliava che un prete che celebrava la messa fosse ladro! Lui che sapeva di poter vendere dieci lire l'una quelle monete, non avrebbe dovuto dirgli: - Che te ne fai? Dàmmele. - E quando il prete dall'altare si voltava per ripetere, aprendo le braccia: - Dominus vobiscum -- Scurpiddu brontolò dentro di sè: - Dovreste ridarmi le monete piuttosto! Dopo la messa, si era aggirato attorno al prete, per trovar l'occasione di dirglielo, aspettando anzi che Don Pietro lo avesse capito anche senza che lui gliel'accennasse. Ma Don Pietro sorbiva lentamente il caffè rimasto nella tazza in cui aveva intinto i biscotti preparàtagli dalla massaia, e di tutto parlava fuorchè delle monete. - Dobbiamo pensare alla cresima di questo ragazzo, massaia. - Ora che viene il nuovo vescovo, sissignore. - E poi alla confessione e alla prima comunione. - Ha tanti peccatacci addosso! È vero, Scurpiddu? - Io? Che peccati, massaia? Esclamò Scurpiddu stupito. - Vieni qua, - disse Don Pietro. -- Lo sai tu cosa sono i peccati? - Primo: dire bugie -- continuava Don Pietro - Secondo: rubare, prendere di nascosto roba non sua..., capisci? Bisogna renderla, se no, c'è l'inferno che ci inghiotte. - E dunque... - disse Scurpiddu, esitando. - Dice il Soldato che valgono dieci lire l'una. Sono mie le ho trovate io! Don Pietro e la massaia scoppiarono a ridere. - Anche più di dieci lire l'una! - soggiunse Don Pietro, scherzando. - Ma io non te le ho prese le monete; me le hai regalate. - Io? - protestò Scurpiddu. - Sono mie; le ho trovate io! E l'intonazione voleva significare: - Rendètemele! All'ultimo, vedendolo quasi con le lagrime agli occhi, Don Pietro aveva dovuto rendèrgliele; e per ciò si trovavano insieme con gli altri oggetti e coi dieci soldi in fondo della tasca. Quando se la metteva a tracolla, col pane e il companàtico della colazione, prima di condur via i tacchini, spesso il Soldato tentava di frugargliela. - Vediamo il tesoro, Scurpiddu! E siccome il ragazzo si scansava, stizzito, il Soldato gli ripeteva, sapendo di farlo arrabbiare: - Ora che è proprietario, Scurpiddu non dà confidenza a nessuno!... Ehi!... Proprietario! Nelle ore meridiane, li radunava all'ombra di un annoso ulivo, o di un gelso bianco che pareva un capannone con quei rami fino a terra presso il canneto di Casa di Mezzo; e lui, seduto per terra, con le spalle appoggiate al tronco, faceva il verso alle cicale che frinivano per la vallata degli ulivi, dai mandorli, dai pioppi, senza mai stancarsi fino a sera. Si sarebbe addormentato se non avesse avuto lo svago del balocco che si era costrutto giorni prima con un tubettino di canna, un pezzetto di cartapècora, due crini della coda d'una mula e un legnetto. Alla cartapècora arrotondata aveva fatto, con un ago, due fori nel centro per infilare i due crini annodati, uno da un foro e l'altro dall'altro; poi, sovrappòstala a un'estremità del tubetto di grossa canna, attorno a cui aveva già fatto un intacco e legatala bene con lo spago, annodati i due crini dal capo opposto e attaccatili con càppio al legnetto, si era messo a far frinire, con giri più o meno rapidi, il suo balocco. E all'ombra del gelso bianco, mentre i tacchini riposavano raccolti attorno a lui, mentre Paola si faceva una scorpacciata di more di gelso mature saltando da un ramo all'altro, egli si divertiva con quel balocco, e le cicale, per risposta, frinivano più forte. Spesso arrivavano fin là le grida degli uomini che incitavano su l'aia le mule a correre torno torno per trebbiare i covoni; e vedeva passare il sagrestano della parrocchia o il barbiere mastro Ciccio il Vecchio, che andavano da un'aia all'altra a chiedere le mancie di grano nuovo, come era uso, ai parrocchiani e clienti. Così avevano fatto al tempo della raccolta degli ulivi, per l'olio. E al ritorno alla masseria, egli li incontrava con le bisacche ricolme, su la mula o su l'asino, e li salutava. - Dovresti darci un bel tacchino, Scurpiddu. - Se fossero miei! Non diceva che nel branco c'erano già i suoi otto pollastroni grassi e tondi, che si distinguevano appena dai vecchi tacchini. Fra qualche mese le femmine avrebbero cominciato a far le uova; a Natale, due dei maschi gli avrebbero fruttato dieci lire. E poi!... .E poi!... Quella sera gli uomini erano seduti al fresco, stanchi della giornata di lavoro; e il Soldato vedendolo arrivare, lo aveva subito chiamato: - Ehi, Scurpiddu! Vuoi farti cavare un dente? C'è qui lo zanni. Lo zanni e la donna che l'accompagnava erano seduti su lo scalino del portone del frantoio, e avevano davanti, per terra, due cassette di legno scuro, con cigne di cuoio, e due bisaccette di tela cruda ripiene di oggetti diversi. Scurpiddu, fatti entrare i tacchini nel pollaio, si era avvicinato lentamente, con le mani dietro la schiena; sospettava qualche burla del Soldato e stava in guardia, - Vuoi farti cavare un dente? Ecco qui la tanaglia. E mostrava lo strumento. Lo zanni non si era neppure voltato, nè aveva alzato il capo. Che armeggiava con tutto quel fil di rame messo a tracolla, e quella tanaglietta a punta? Ah! Una coroncina da rosario. Le maglie coi grani di cocco si seguivano rapidamente, e la coroncina si allungava, si allungava: la medaglietta straluccicava quasi fosse d'oro, a ogni scossa. - Sì o no? - insisteva il Soldato tra le risa degli uomini sdraiati per terra. - Fatevene cavare uno voi! - rispose Scurpiddu, che si era messo a osservare più da vicino l'armeggìo delle mani dello zanni. - Vuoi rubarmi il mestiere? - gli disse lo zanni, sorridendo. Scurpiddu ebbe quasi paura vedendo le pupille nerissime tra il bianco degli occhi, e le due file di denti bianchissimi tra le labbra rosse e sottili di quell'uomo nero come il pepe, magro, con gambe lunghe e stecchite, con mani secche e pelose, il quale parlava con un accento strano, vibrante, che Scurpiddu non aveva udito mai. Ma egli ebbe davvero paura più tardi, quando nel frantoio gli uomini fecero cerchio attorno allo zanni che, posata per terra una delle cassette, spiegava: - Si nasce ceraulo; e allora non c'è animale velenoso che possa farci male. Io mi rido delle vipere, degli scorpioni, delle tarantole... Le serpi poi sono al mio comando... Tutta grazia di San Paolo, perchè son nato la notte del ventinove di giugno. Chi nasce quella notte, o nell'altra dal 24 al 25 gennaio, è ceraulo. E postesi due dita in bocca, fece un acuto e lungo fischio che gli morì tra i denti assottigliandosi, Poi alzò il coperchio della cassetta. Scurpiddu, che era salito su la base della màcina per veder meglio, alla vista delle serpi che si rizzavano snodandosi e si versavano fuori della cassetta, diè un gran strillo. Lo zanni le afferrava, se le avvolgeva attorno al collo e alle braccia, zufolando sommessamente, monotonamente, intanto che con l'indice e il pollice della mano destra prendeva una serpe per la testa facendola divincolare penzoloni, mentre con la sinistra ne impugnava un'altra pel collo a guisa di spada... . - Questa è la spada di San Paolo! Gli uomini, il Soldato, massaio Turi, guardavano sbarrando gli occhi, allargando il cerchio e poi sbandàndosi allorchè lo zanni, toltesi le serpi d'attorno al collo e alle braccia, le lasciava libere per terra. Strisciando rapidamente, e passando tra le gambe degli uomini che si scansavano, esse andavano a nascondersi negli angoli bui, fra i tronchi di ulivi ammonticchiati in un canto, o dietro gli aratri appoggiati al muro con le punte dei vomeri in giù, o tra i toppi dello strettoio lì accosto. Scurpiddu era contento di essersi messo al sicuro; volgeva però ansiosamente gli occhi da tutte le parti, e non perdeva di vista lo zanni che rimasto fermo, in piedi, con le mani in tasca e gli occhi socchiusi, pareva non si curasse di altro che di masticare, con grandissima soddisfazione, un pezzetto di tabacco in corda, nè la donna che lo accompagnava e che stava seduta per terra accanto all'altra cassetta, sul cui coperchio era incollata una rozza stampa raffigurante San Paolo con due serpi ritte dappiè ai due lati. Scurpiddu si domandava: - E ora? Le serpi rimarranno qui? Non osava rivolgere la parola a nessuno, per paura che il Soldato non si rammentasse di fargli il brutto scherzo di prenderne una e avvòlgergliela attorno al collo, come lo aveva minacciato. In quel momento ognuno badava a sè; pareva che il Soldato avesse paura quanto gli altri. Si era messo accavalcioni del becco d'una vite del torchio, e dimenava le gambe, quasi volesse sfidare le serpi a raggiungerlo lassù. Al nuovo acuto e lungo fischio dello zanni, il povero Scurpiddu allibì. Di qua e di là, strisciando, ondeggiando, le serpi accorrevano, e al monotono zufolìo del loro padrone, gli si attorcigliavano al collo dei piedi, ed egli le prendeva ad una ad una e le riponeva nella cassetta, premendone leggermente il coperchio con la mano, perchè le irrequiete non sguisciassero fuori nuovamente, - E San Paolo protegga il massaio e tutti gli uomini di questa masseria! - disse lo zanni, chiudendo a chiave la cassetta, La donna allora cavava fuori un mazzo di stampe dall'altra cassetta e gliela porgeva, perchè le distribuisse agli astanti, Tutti prendevano la figurina e davano un soldo, Scurpiddu esitava a prenderla, non avendo in tasca un soldo da dare, - A te gratis, - gli disse lo zanni, - perchè sei più magro di me, - Infatti si chiama Scurpiddu, - soggiunse il Soldato, -- Soldi però ne ha più di tutti, È proprietario Scurpiddu, - Vi adatterete a dormire con gli uomini, nel fienile; non abbiamo altro posto, - si scusava il massaio, Il posto non mancava, ma il massaio sapeva che di quella gente vagabonda era prudente non fidarsi troppo, Avevano le mani lunghe, Cavavano denti, lavoravano corone, ma erano più abili nel far sparire un oggetto, E bisognava trattarli bene; se no, c'era il pericolo di veder le biche dei covoni prender fuoco su l'aia senza che nessuno potesse mai scoprire in che modo, Già quelle facce nere, quelle figure strane e cenciose non dicevano niente di bono, La massaia si era chiusa a chiave nelle sue stanze insieme con la serva, perchè aveva paura di loro, Le avevano regalato una bella corona di cocco, sì, ma sarebbe costata troppo cara col pane, il vino e il grano che il massaio doveva dar loro domani, per levarseli di torno, Scurpiddu aveva seguìto lo zanni fino alla porta del fienile, - Volete insegnarmi a far le coroncine? - gli disse sotto voce, fermandolo per la giacca prima che entrasse, -- Dovreste vendermi la tanaglia a punta e il fil di rame e il cocco, e le medagliette, - E i quattrini chi te li dà? - rispose lo zanni - Vi dò uno dei miei tacchini, A Mineo lo vendereste cinque lire, - Ne riparleremo domani, - conchiuse lo zanni, Ma il lampo delle pupille piccole e vivide tra il bianco degli occhi, e i denti bianchissimi che luccicavano tra le labbra sorridenti su quella faccia nera come il pepe, non parvero a Scurpiddu un buon augurio pel suo affare, Come trovarli lì per lì? Aveva udito dire dal Soldato allo zi' Girolamo: - Dove nascondete il morto, vecchiaccio? Non spendete un soldo del salario, Fate almeno testamento e rivelate il nascondiglio, Dovrà mangiarseli la terra quei quattrini, vecchiaccio? - Tròvali, - aveva risposto il bovaro crollando la testa, - Se chiedessi in prestito cinque lire allo zi' Girolamo, - pensava Scurpiddu, -- Gliele renderei sùbito con le prime coroncine vendute, E all'alba andò a trovare il bovaro che, spartito il fieno ai bovi, si accingeva a spazzare l'agghiaccio, - Mattiniero! - gli disse il vecchio, - Su, dammi una mano, Scurpiddu prese la grossolana granata, che era più alta di lui, fece un mucchio di tutto il concime, ne riempì un corbello e andò a vuotarlo nel serbatoio davanti a la stalla delle mule, Il vecchio intanto rivolgeva la parola ai suoi animali, li accarezzava, li strigliava con le dita affettuosamente: - Questi sono i miei figli! Scurpiddu l'osservava senza ancora sapersi risolvere a domandargli: - Volete prestarmi cinque lire? - quando comparve lo zanni con la pipa in bocca, il fil di rame a tracolla, e in mano la tanaglietta a punta, Lavorava lesto lesto le maglie di una coroncina, annodando i grani di cocco anticipatamente infilati nel fil di rame; e intanto che le dita sembravano occupate per proprio conto, gli occhi lucidi e neri pareva contassero i capi di bestiame, e ne calcolassero il valore, - Dunque?- egli disse finalmente a Scurpiddu, - Quanto volete? - rispose il ragazzo, - Secondo, Tanaglia, fil di rame, cocco e medagline per le dieci corone? - E insegnarmi anche. - rispose Scurpiddu. - Tre lire, tutto compreso; ma in danaro sonante. Scurpiddu si grattava la testa, guardando lo zi' Girolamo. - Vuoi diventare zanni? - disse il bovaro a Scurpiddu ridendo. - Vo' fare coroncine e venderle, zi' Girolamo. - Bravo! La prima te la compro io. Scurpiddu lo trasse in disparte e gli parlò in un orecchio. Il bovaro strinse le labbra, socchiuse gli occhi e stette un momento a riflettere. - Sentite, - poi disse allo zanni. - Più tardi saremo lassù, al pascolo. Venite là, conchiuderemo l'affare: due lire. - Tre, o niente! - quegli rispose, togliendosi la pipa di bocca e facendo schizzare la saliva tra i denti. Scurpiddu tornò a grattarsi la testa e a guardare lo zi' Girolamo, implorando. - Va bene; venite lassù, soggiunse il bovaro. Fu una gran giornata per Scurpiddu. La sera, tornando alla masseria, gli pareva di possedere un tesoro con quel fil di rame e quel cocco, quelle medagline e la tanaglietta a punta. La sua prima coroncina era già fatta a metà. Egli aveva pregato lo zi' Girolamo di serbargli il segreto; e prima di arrivare alla masseria, aveva nascosto tra le erbe il fil di rame; sarebbe andato a riprenderlo più tardi, senza farsi scorgere da nessuno. Temeva che il massaio o la massaia non lo sgridassero pei quattrini che si era fatti prestare. Dopo d'aver reso allo zi' Girolamo le tre lire, avrebbe lavorato una bella corona per la massaia e gliel'avrebbe regalata. Ogni domenica poi, quando i contadini verrebbero alla masseria per la messa, egli direbbe: - Chi vuol comprare coroncine? Otto soldi l'una. - E ne guadagnerebbe quattro su ognuna di esse. Farebbe anche laccetti a maglia, per diversi usi, catenelle per chiavi, come lo zanni Quella sera non si mise a dormire se prima non ebbe aggiunto alla coroncina altri dieci chicchi d'una posta. Dall'alto del suo nido, Paola lo guardava intenta, tenuta desta dal lume - Vuoi apprendere a lavorar coroncine anche tu? Le maglie non erano uguali; bisognava impratichirsi bene. Quella prima coroncina mal fatta Scurpiddu pensava di tenerla per sè, come ricordo. E non spense il lumicino a olio, avanti di aver avvolto il fil di rame in cerchi più stretti, da riporlo comodamente nella tasca che portava a tracolla con dentro la colazione e i dieci giorni e le vecchie monete e lo zufolo e gli altri oggetti, tutta la sua ricchezza. Ogni giorno, appena arrivato coi tacchini e con Paola nel posto del pascolo, Scurpiddu si sedeva per terra, cavava fuori i suoi arnesi e si metteva a lavorare attentamente e lentamente nella prima settimana, interrompendosi per non perder d'occhio le sue bestiole, per fare qualche carezza a Paola che veniva a posàrglisi sul braccio e tentava di strappargli dalle mani, col becco, quel filo lucido che pareva attraesse particolarmente la sua curiosità. - Ti farò una bella catenina pel collo; sta' cheta, - le diceva Scurpiddu. - Parrai una signora con collana d'oro. Ma Paola si mostrava molto seccata di vedere il suo padrone che se ne stava continuamente occupato, incurante di lei. - Quante coroncine, Scurpiddu? - gli domandava lo zi' Girolamo. - Cinque. Quando avrò fatta la diecina, andrete a venderle voi, e riprenderete i vostri quattrini. - Quante, Scurpiddu? - Otto. - Fammi vedere. Bravo, Scurpiddu! - E solide! Guardate. Le stirava per mostrare la bontà delle maglie. - Per voi, sceglierò la meglio, all'ultimo. - Grazie, Scurpiddu! Scurpiddu era divenuto serio. Non si sentiva tranquillo, con quel grosso debito di tre lire addosso. E la sera d'un sabato, quando potè consegnare allo zi' Girolamo, che andava a Mineo per la vicenda quindicinale, le dieci coroncine belle e finite, coi chicchi dei paternostri e le medagliette in fondo, mise fuori un gran sospiro di sollievo. Ma passò la domenica agitatissimo. Chi sa se lo zi' Girolamo avrebbe potuto smerciarle tutte? E gli andò incontro, appena lo scorse da lontano. - Sei soldi l'una, - gli gridò il bovaro. - E col denaro ti ho comprato altro fil di rame e cocco e medagline dallo zanni che ho incontrato per caso. Ho fatto bene?... .Le tre lire me le darai un' altra volta. Scurpiddu si mise a saltare dalla gioia. Quanto fil di rame! Quanto cocco! Quante medagline! E anche del fil di ferro per le coroncine più scadenti! - Dice don Santi il merciaio che, a quel prezzo, te ne compra quante ne avrai fatte. Anche questa sembrava a a Scurpiddu una gran fortuna. Che bella idea aveva avuto d'imparare quel mestiere! Avrebbe potuto fin smettere di fare il guardiano di tacchini. No; sarebbe stata ingratitudine verso il massaio e la massaia. Gli avevano fatto tanto bene! Gli si erano affezionati come a un figlio. La massaia pensava a rivestirlo, a fargli lavare la biancheria; e il massaio gli aveva detto che l'anno venturo gli avrebbe insegnato a potare e a far gl'innesti dei peri, delle mele, dei melogranati. Il guardare i tacchini non gl'impediva di lavorare coroncine e catenelle e lacci a maglie, se voleva. E poi, ormai, gli sembrava che la masseria fosse casa sua; in quattro anni se n'era allontanato appena una o due volte, spedito a Mineo dal massaio per una commissioncina; andare e tornare; e un'altra volta per una testimonianza davanti al Giudice istruttore, insieme col Soldato. Due mietitori erano venuti alle mani una sera alla masseria, e uno era stato mortalmente ferito con un colpo di falce. Il Giudice istruttore con gli occhiali d'oro a capestro, il cancelliere che scriveva le deposizioni, i carabinieri nella saletta di aspetto avevano così atterrito Scurpiddu, che non gli era parso vero di scappar sùbito e tornare sano e salvo alla masseria. Là, quel bugigattolo accanto al pollaio era il suo palazzo, non ci entrava nessun altro. E gli otto tacchini? Se voleva, a Natale, sarebbero quaranta lire. Alti, grassi, non si distinguevano più dai vecchi, Aveva battezzato anche loro e con che nomi! Uno, Vittorio Emanuele; un altro, Garibaldi; un terzo, il Guappo, perchè presuntuoso e attaccalite, Notaio, Don Pietro, Capobanda, la Massaia e parecchi altri non erano più nel branco, erano stati venduti da un pezzo. Il branco, in due anni, si era rinnovato. Egli aveva dovuto riaddestrarlo alle marce e a far la banda e per capobanda aveva messo il Guappo, che quando cominciava a gluglugliare non la finiva più, e avrebbe voluto pure far la ruota, quasi per mostrar meglio la sua dignità; allor Scurpiddu lo toccava sul dorso con la canna e gli faceva ritirare subito le ali e il bernòccolo: - Avanti, Guappaccio! Ma ora che aveva da occuparsi con le coroncine, addio marce, addio guerra, com'egli diceva e si poteva anche aggiungere: addio Paola! Tutto si era dato a quel lavoro. - E lo zùfolo? - gli domandava il Soldato. - Non ti si ode più! Lo zùfolo rimaneva in fondo alla tasca abbandonato. E Paola volava e rivolava da un albero all'altro, si faceva portare in carrozza dai tacchini, si allontanava dal branco, e spesso, sul punto di ritornare alla masseria, Scurpiddu doveva richiamarla a lungo col fischio e gridare più volte - Paola! Ehi! Paola! - prima di vederla venire a posàrglisi su la spalla. - Hai ragione, - egli le diceva. - Il padrone ti trascura. Ma che vuoi? Dobbiamo guadagnare quattrini. Tu non ne hai bisogno di quattrini; io sì, Paola! Domani però ti farò la collana e gli anellini, uno per piede. Il giorno dopo, appena egli le infilò al collo la collana e gli anellini ai piedi, Paola diventò irrequieta; voleva togliersi a ogni costo quegli strani impacci d'addosso. Se la prendeva particolarmente con gli anellini, due semplici cerchietti di fil di rame. Si stizziva, si accaniva a dar colpi di becco ora a questo, ora a quello; e quando si persuadeva che era inutile tentar di spezzarli, si rivolgeva alla collana mezza affondata tra le piume del collo a forza di scosse e di strappate. Scurpiddu rideva: le rimetteva la collana a posto, e aggiustava gli anellini già un po' deformati. - Sta' cheta, Paola! Sembri una sposa, Paola! Paola non gli dava retta. Ripreso a inveire contro gli anellini, per essere più libera volava lontano, sur un mandorlo. E lassù, dopo un quarto d'ora, era riuscita a cavarseli. Scurpiddu la vide tornare tranquilla. Pareva gli dicesse: - Vedi se l'ho vinta io? Di tanto in tanto allungava il collo, chinava la testa, afferrava con la punta del becco la collana, la scoteva, cercava di tirarla su ma smetteva sùbito. Il giorno che Scurpiddu regalò la corona alla massaia, e si seppe alla masseria il nuovo mestiere di lui, il Soldato non gli dètte requie. - Zanni, vieni qua; cavami un dente! Vieni a cavare i denti alle mule! Per questo, marmotta, non badi più a imparare a lèggere! Te la faccio io una bella corona! Aveva legato in filza, con lo spago, zanne di animali, ossicini d'ogni specie, sassolini, e preso Scurpiddu fra le gambe, gli attaccava quella corona al collo, quantunque il ragazzo si schermisse. - Così sembri uno zanni davvero! Gli zanni, infatti, per segno della loro valentia nel cavar denti, ne portavano al collo una filza, legati con maglie di fil di ferro, come i chicchi di una corona. Una sera il Soldato gli aveva detto: - È arrivata la citazione per la testimonianza. Vedrai Catania senza spendere un soldo; sei contento, Scurpiddu? - Io l'ho già fatta la mia testimonianza. - Dovremo rifarla, davanti alla Corte d'Assise. - E chi sa dov'è Catania? Io non ci vado. - Verranno i carabinieri, e ti condurranno là ammanettato. - Malannaggia chi dà colpi di falce! Scurpiddu quasi piangeva. Immaginava che avrebbe di nuovo trovato colà il Giudice istruttore. Costui aveva voluto sapere tante e tante cose, che gli aveva messo paura con gli occhiali d'oro davanti a quegli occhi sbirri (intendeva dire scrutatori). Per ciò sul carretto che lo portava, insieme col Soldato e con altri contadini testimoni, alla stazione di Valsavoja, Scurpiddu non diceva una parola. Invece il Soldato chiacchierava per venti. - Napoli! Milano! Genova! Torino!... Quelle sono città! A Torino, neve alta così! Freddo!... Ma sotto i portici - la navata d'una chiesa, tal quale! - si passeggia come in casa... Genova? Il porto, un bosco di antenne!... Strade a scale... Palazzi!... E la galleria di Milano? Ah!... Figuratevi quattro vie col tetto di vetro e la cupola in mezzo, più grande della cupola di Santa Maria; e di qua e di là, negozi, caffè, trattorie... .Nelle sere di permesso, andavo a vedere la macchinetta che accende il gas lassù. La gente, tutti coi nasi all'aria... A un tratto uno dà fuoco alla macchinetta, che si mette a correre in giro; pare un topolino, di laggiù, che vada lesto lesto e si lasci dietro mille fiammelle!... Scurpiddu spalancava gli occhi. - Ecco il treno! - s'interruppe il Soldato. Lontano, tra gli alberi, si vedeva un pennacchio di fumo bianchiccio che correva, spariva, ricompariva. Il treno! Scurpiddu non aveva nessuna idea della ferrovia. E intanto che il carretto prendeva la scorciatoia verso la stazione. egli non perdeva d'occhio quel fumo che correva, correva come il vento. - E senza cavalli! Gli pareva impossibile. E rimase a bocca aperta, trattenendo il respiro per turbamento, all'apparire di quel mostro nero che fischiava e si avanzava, trascinandosi dietro una gran coda di carri, dagli sportelli dei quali si affacciavano tante teste! Entrò nella vettura con riluttanza, e si tenne accosto al Soldato, tenendo un'ala della giacchetta di lui. Il treno si agitò, si mosse, fischiò, prese la rincorsa. All'improvviso, gran buio! Scurpiddu diè uno strillo e si aggrappò forte forte al Soldato. - Non è niente: siamo nel tunnel, sotto terra. Non aver paura. E come ricomparve la luce, e Scurpiddu vide dagli sportelli la corsa degli alberi e delle case di campagna che pareva si precipitassero contro il treno e fuggissero via, si sentiva sbalordito, gli sembrava di fare un sogno, o di trovarsi in un mondo nuovo. Aveva dimenticato la masseria, i tacchini, Paola, le coroncine, ogni cosa; e passato il primo sbalordimento, già si divertiva di sentirsi trasportato così, a traverso quella vasta pianura, quasi a volo. E credette proprio di star per aria, quando il treno, giunto a Catania, passò su le arcate del ponte della Marina, ed egli vide laggiù tante persone tra i viali di un giardino, e, più in là il mare col porto pieno di barche e di legni. - Quant'acqua. Madonna santa! Si sentì diventare piccino piccino. In quei tre giorni Scurpiddu passò di meraviglia in meraviglia. Andava dietro al Soldato come un cagnolino, chiedendo spiegazìoni, fermandosi a ogni due passi per esaminar bene ogni cosa. - Ti piace Catania, Scurpiddu? È meglio della masseria? - È un paradisol Una compagnia di bersaglieri, coi cappelli piumati, che andava a passo di corsa gli rimase negli occhi tutta la giornata. Più tardi il Soldato lo fece assistere alla partenza di un piroscafo, su cui si imbarcavano molti coscritti. - Dove vanno? - A Napoli, a Genova. Beati loro! Li invidio! Li invidiava in quel punto anche Scurpiddu Gli sembrava che il cervello, in due giorni, gli si fosse slargato, che la mente gli si fosse schiarita. Di là, di là di quella immensa distesa di acqua, c'erano altri paesi, altra gente. E quei nuovi militi andavano a vederli, andavano a divertirsi, pensava Scurpiddu, come avrebbe fatto anche lui se avesse potuto fare il soldato. Il piroscafo, uscito dal porto lentamente, ora filava diritto, lontano; pareva una barchetta, un punto nero appena; fra poco non si sarebbe scorto più! Scurpiddu non sapeva persuadersi come mai tutta quell'acqua non traboccasse fuor della riva. A ogni ondata che andava a frangersi su i massi della diga, egli si tirava indietro. Si rattrappiva pure alla vista di quella barchetta che ballònzolava su l'acqua e di tratto in tratto pareva dovesse venir inghiottita dai gorghi che le si aprivano sotto. - Vuoi andare in barca? - gli domandò il Soldato. - No, no! Lo disse con tal accento di terrore, che il Soldato scoppiò a ridere. - Questa sera poi, - tornò a ripetergli, - dovrai baciare la coda al Leotro. Chi viene in Catania la prima volta e non bacia la coda al Leotro, paga la multa o va in carcere. - Che è il Leotro? - Quell'animale di pietra nera con quei dentoni bianchi e quella tromba, che hai visto in piazza; si chiama anche elefante. Scuirpiddu fece una spallucciata. - Di sera, perchè non ti veda nessuno. Ma il Soldato non parlava a bastanza serio che Scurpiddu non capisse ch'egli scherzava, - Voglio comprarmi un sillabario, un bel libro per imparare a lèggere, - disse Scurpiddu. E andarono da un libraio. - Di quelli con le figure, - chiese il Soldato che voleva mostrare d'intendersene. Uscendo dalla bottega, ecco di nuovo i bersaglieri. Tornavano da una marcia, polverosi, sudati, ma altieri, con le piume al vento, sempre a passo di corsa, dondolando un braccio tutti insieme. E la gente dietro, marciando anch'essa al suono delle trombe, - Vieni! Il Soldato lo prese per una mano. Era stato bersagliere, e quelle trombe lo eccitavano. Scurpiddu si mise a camminare in cadenza allegramente, eccitato pure lui. Per poco non gli sembrava di avere in testa il cappello piumato, - Dove vanno? - Alla caserma. Era stanco. Mai Scurpiddu aveva fatto tanta strada a quel modo. - Così, - pensava, - farò marciare i tacchini! E mi farò un bel cappello! I galli della masseria però non avevano piume nere alla codaNon voleva dir niente, Meglio anzi! Il gallo vecchio avea piume che sembravano d'oro. Di tutto quel che aveva visto in Catania, i bersaglieri gli erano rimasti impressi più vivamente nella fantasia. E lo disse alla massaia, e lo disse a Paola. Gli pareva di esser tornato in un posto morto, con tutto quel silenzio attorno. Aveva negli orecchi il rumore delle carrozze, e negli occhi il via vai della gente, e il mare, tutta quell'acqua che veniva a frangersi alla riva. Ora, in certe serate di vento, gli sembrava di non essere più alla masseria, tanto quel vasto stormire degli ulivi nella vallata somigliava al rumore del mare che si abbatteva su i massi della diga in Catania, Col permesso della massaia, aveva strappato ai galli del pollaio le belle piume ritorte della coda e se le era adattate al berretto capricciosamente, alla foggia dei bersaglieri. E con esse in capo conduceva i tacchini al pascolo, facendoli marciare di corsa, e suonava lui la marcia, imitando le trombe dei bersaglieri col pugno davanti a la bocca, quasi suonasse davvero una tromba. Non pensava più alle coroncine. Aveva reso le tre lire allo zi' Girolamo, e col po' di fil di rame rimastogli, si era fatto una bella catenella, a cui aveva legato lo zùfolo che ora portava in una tasca del panciotto. Ogni sera, lettura. E appena si trovava col Soldato, lo interrogava: - I bersaglieri corrono sempre così?, - Si arràmpicano come capre. Sono i migliori soldati. - E le manovre? Voleva sapere tutto della vita militare; come i soldati dormivano, come mangiavano, come si divertivano, tutto! - E il re che fa alla guerra? - Il soldato anche lui, a cavallo, coi generali. coi colonnelli, alla pioggia e al sole, dando ordini a tutti. Il Soldato descriveva le cose a modo suo, spesso esagerando un pochino. Si era trovato alla presa di Roma, davanti a la barricata di Porta Pia, ed era stato ferito leggermente a una gamba. Si vedeva ancora la cicatrice, ed egli la mostrava con orgoglio. - Se avessi ripreso la ferma, sarei andato anche in Africa. E ora forse non sarei qui, ma tra i morti, laggiù. Là sono selvaggi, neri come la pece...Sono bestie feroci; non hanno paura della morte. Questo dispiaceva a Scurpiddu: che alla guerra si dovesse morire, - A chi tocca, tocca! - diceva il Soldato, - Tanto si muore dappertutto. Tuo padre è morto cascando da un albero. Meglio alla guerra. Una palla ti fredda, e tu non t'accorgi di niente! E si fa guerra ogni giorno? - Ogni mill'anni!... C'è soldati che non hanno mai visto il fuoco. Ce n'è che sono stati dieci volte alla guerra e non hanno mai avuto una scalfittura. A chi tocca, tocca! Scurpiddu si rasserenava, quasi avesse dovuto partir domani per la guerra. A chi tocca, tocca! Dovea toccare proprio a lui? Giacchè l'idea di andar Soldato gli ribolliva nella fantasia dal giorno che aveva visto i bersaglieri. Voleva vedere un po' di mondo, come tant'altri, - e a spese del re -- soggiungeva. Per lui, come per tutti i contadini, il re era il governo. I quattrini delle tasse non se li prende il re? E se li prende per mantenere i soldati, per fare quel che gli pare e piace. Chi arresta la gente? Il re, Chi mette in carcere i ladri e gli assassini? Il re. Il re fa pure impiccare. Il padrone è lui; lo aveva detto tante volte il massaio. - Com'è il re? - domandava Scurpiddu al Soldato. - Un uomo come te e me, con tanto di baffi e certi occhi che pare ti vogliano mangiare. - Chi l'ha fatto il re? - C'è nato. Noi nasciamo contadini; e quelli nascono re. Sorte! - Ma... lui chi lo chiama per fare il soldato? - Comanda, non fa il soldato. Il figlio del re è quasi ragazzo, e intanto è generale. Sorte! Ma pure un soldato semplice può diventare generale; prima caporale, poi sergente, poi luogotenente, poi capitano, poi maggiore, poi colonnello... . - Ora che non ho ne padre nè madre, io sarò nella leva, è vero? - Ti scarteranno, se non cresci. Sei un ranocchio. Glielo diceva per ischerzo, Scurpiddu veniva su diritto come un fuso, mingherlino sì, ma forte e ben fatto. E si sforzava di prendere aria militare con quel berretto piumato che voleva essere un cappello alla bersagliera. Era però sempre un ragazzo dalla fantasia facile ad accendersi, mutabile. L'idea di entrare nella milizia ora lo spingeva alla lettura. Si immaginava, dai discorsi del Soldato, che, sapendo lèggere, lo avrebbero fatto subito caporale. E non voleva perder tempo. Un giorno Don Pietro, prima di dire la messa, gli domandò: - È vero che hai già appreso a lèggere? Sentiamo. Scurpiddu cavò sùbito fuori il sillabario, che portava sempre in tasca ed era ridotto molto male. Leggeva cantilenando, strascicando un po' le sillabe e le parole, strapazzando un po' gli accenti. E di tratto in tratto si fermava per alzare la testa e fissare Don Pietro negli occhi. - Bravo! Avanti! Bene! E Scurpiddu riprendeva a lèggere, lieto dell'approvazione del prete. - Queste qui sono le figure, - s'interruppe all'ultimo. -- Ecco il leone, ecco il bue, - Nuova-legge dello zi' Girolamo, tal quale - C'è pure... E sfogliava il libro lestamente. - C'è pure il Guappo, guardate, quando fa la ruota! Lo chiamano tacchino. È vero Soldato, che tacchino vuol dire nuzzu? Don Pietro sorrise. - Ma non si lègge cantando - gli disse; - si canta l'ufficio. Devi lèggere piano, come parli, Scurpiddu si sentì offeso. - I soldati lèggono così; mi ha insegnato lui, - rispose, additando alteramente il maestro. Ormai il sillabario egli lo sapeva tutto a memoria. E sotto gli ulivi di Piano del Galluzzo o all'ombra del gelso bianco, lo ripeteva ad alta voce, senza più guardare il libro. C'era, fra gli altri, un raccontino intitolato: La mamma è morta! che lo commoveva fortemente. Si trattava d'una bambina che chiedeva l'elemosina e rispondeva così a un signore che le domandava: Dov'è la tua mamma? Anche lui aveva chiesto l'elemosina, anni fa: e la sua mamma pure era morta! Se ne rammentava come di un avvenimento assai lontano, e che non gli aveva lasciato profonda traccia nell'animo. Certe volte - tutt'a un tratto - gli passava davanti agli occhi la rapida visione della sua infanzia, della straducola che sbucava nel piano di S. Maria, dei bambini cenciosi e seminudi o nudi affatto che facevano il chiasso, al sole, insieme con lui, insudiciandosi con la creta, con la polvere, mentre le loro mamme filavano in crocchio chiacchierando e cantando. E allora egli rideva la sua, giovane, bruna, coi neri capelli tirati in su che luccicavano al sole, lasciando libera la fronte: e gli risuonavano nell'orecchio le lunghe risate che ella faceva, e le belle canzoni che cantava con vocina limpida e intonata; una mamma, ahimè, molto diversa da quella riveduta parecchi anni dopo, invecchiata avanti il tempo, irriconoscibile, e che se n'era andata via per sempre quasi all'insaputa di lui! Visioni d'un istante, che gli facevano battere rapidamente le palpebre e tremare un po' il cuore. Poi il presente lo riafferrava, lo distraeva, coi tacchini che si azzuffavano, con Paola che si prendeva troppa libertà di vagare lontano dal pascolo, di confondersi su per gli ulivi e su pei mandorli con le tàccole selvatiche, di fare un po' la sorda quand'egli la richiamava; e anche con tutte le fantasticaggini che gli ribollivano nella mente ora che egli si sapeva possessore di una somma assai grossa per lui: quaranta lire. Otto carte da cinque, nuove nuove, ricavate dalla vendita dei suoi tacchini! Se le avesse avute nella tasca, le avrebbe contate e ricontate; ma gliele teneva in serbo la massaia, perchè lui non le smarrisse. Le contava però e le ricontava mentalmente. Con l'anno nuovo, il massaio gli avrebbe dato anche il salario: quattro piastre all'anno... .quarant'otto tarì... .quasi ventiquattro lire, oltre il mantenimento! Con esse avrebbe potuto farsi un vestito e un paio di scarpe. E poi, tra altri due anni, otto piastre... tre once e sei tarì... ..novanta lire all'anno, come il Soldato, come gli altri garzoni di masseria... se non lo prendevano nella leva. Perchè avrebbero dovuto rifiutarlo? Oltre il sillabario, sapeva anche quasi tutto a memoria un altro libro che gli aveva prestato il Soldato, l'Istruzione per le armi di fanteria. Ne capiva poco, ma non voleva dir niente. - Dovresti piuttosto imparare la dottrina cristiana, - gli disse un giorno Don Pietro. - Ti porterò il libriccino io, domenica ventura. Tu cresci come un turco. Dovrai confessarti, far la prima comunione; non sei neppur cresimato! Che ti giova sapere quante parti ha un fucile? - Per quando sarò soldato. - Bel mestiere! Mestiere di ammazzar la gente e di farsi ammazzare. Scurpiddu guardò il Soldato; toccava a lui rispondere. - E San Sebastiano? E San Martino? Non erano forse soldati? - quegli disse. - Ma erano anche santi. Tu, per esempio, non sei uno stinco di santo, tu! E ti chiamano il Soldato. Dico: bel mestiere! Per chi non vi è costretto dalla legge. Se fossimo cristiani davvero, ci sarebbe bisogno di soldati? Ognuno farebbe il proprio dovere, ognuno sarebbe contento dello stato in cui Dio l'ha fatto nascere, e si vivrebbe tutti in santa pace, Ma siamo peggio dei pagani. Il mio è mio, e il tuo è mio; ecco perchè si fanno le guerre! E con le guerre vengono poi tutti gli altri guai! Castigo di Dio! E andremo di male in peggio, figliuolo, se non si muta strada! - Il mondo è stato sempre così, caro Don Pietro!- intervenne massaio Turi, con la faccia bonaria sorridente. - Ha le gambe storte, come i cani, e nessuno può raddrizzargliele. - No, no. Il Signore perchè ci ha dato dunque la ragione? Perchè è venuto Gesù Cristo a predicare il Vangelo? Le gambe dobbiamo raddrizzarcele da noi, facendo il nostro dovere, sforzandoci di essere uomini, non bruti. Scurpiddu stava a sentire. Gli sembrava che il Soldato però non avesse saputo rispondere bene a Don Pietro, e che si fosse lasciato imbrogliare da lui. Si rammentava di aver sentito parlare di soldati del Papa. Il Soldato era stato ferito alla gamba da loro, alla presa di Roma. O allora?... Non era cristiano neppure il Papa? E non si potè trattenere dal dirlo. - Il Papa un tempo era re, - rispose Don Pietro un po' imbrogliato, - e doveva avere soldati. Ora Domineddio ha voluto che non sia più re, ed è meglio... forse. Noi dobbiamo badare ai fatti nostri. E tu bada ai tacchini, sciocco; e non dar retta al Soldato che è più ignorante di te. Scurpiddu, zitto zitto, si rimise in tasca il sillabario - Ne hai smarrito qualcuno? - gli domandò la massaia. - No: Paola...è volata via... con le altre tàccole!...E scoppiò in singhiozzi. La mattina era partito dalla masseria zufolando, con Paola su la spalla. - Oggi ti farò la carrozza, - le aveva detto per via. -- Una bella carrozza a quattro ruote. Ci pensava da parecchi giorni, e aveva preparato ogni cosa. Con le fibre delle foglie secche di fichi d'India, che sembravano finissima opera di traforo, aveva combinato la cassa, cucendola con lo spago per tenerla insieme; le ruote dovevano essere di verdi foglie carnose di fichi d'India, le due posteriori più grandi, quelle anteriori più piccole; gli assi delle ruote e il timone di canna. Vi aveva lavorato una buona mezza giornata, così intento a quel balocco, che si era quasi scordato dei tacchini e di Paola. E Paola, intanto, si era imbrancata con le tàccole selvatiche che andavano a saccheggiare le fave novelle dietro il Monte, e non era accorsa ai ripetuti richiami del padrone che avrebbe voluto far la prova di attaccarla alla carrozza. - Paola! Ehi!...Paola! Era andato di qua e di là, da un punto all'altro della collina, ripetendo quel grido che quasi imitava i gracchi delle tàccole, ma inutilmente. Aveva guardato attorno tra gli ulivi, lontano tra i melogranati e i peri di Casa di Mezzo, verso il canneto, verso il gelso bianco, laggiù... Si sentivano tubare le tortore, squittire i falchetti, fischiare merli per tutta la vallata; stormi di tàccole aliavano gracchiando, andando avanti e indietro, facendo capricciosi giri per l'aria, quasi esercizi di volo, e tornavano rapidamente verso le rocce d'onde erano partite, senza oltrepassare i seminati del Pulgaretto. - Paola! Ehi!...Paola! E non vedendola comparire, avea gridato allo zi' Girolamo che stava ritto, appoggiato al bastone, in mezzo ai buoi pascolanti, a sinistra della vallata. - Oh, zi' Girolamo!... Paola!...Avete visto Paola? - Nooo! - rispose il bovaro, prolungando la voce. Scurpiddu, dato un calcio alla carrozza, l'avea mandata per aria sfasciata. Un triste presentimento lo agitava. Gliel'avea predetto lo zi' Girolamo. - Un giorno o l'altro Paola andrà via, se non le mozzi le ali. Bestie selvatiche sono le tàccole. Non ti fidare! Indovinava sempre il vecchiaccio! Scurpiddu pensava a lui con un po' di rancore, quasi il pover'uomo, con quell'avvertimento di mal augurio, gli avesse portato sfortuna. Pure non osava credere che Paola avesse potuto fargli la partaccia di abbandonarlo! Le voleva tanto bene! L'avea cresciuta e addestrata con tanta cura! Gli teneva così buona compagnia la sera nel suo bugigattolo, quando si metteva a discorrere con lei appollaiata nel paniere infisso nel muro e che le serviva da nido! Ormai non la reputava più una tàccola, ma una persona: tanto si mostrava intelligente ed affezionata! Com'era carina - sembrava un bambino bizzoso - nei momenti che gli faceva i dispettucci di tirargli l'orecchio, un ciuffo di capelli, di strappargli di mano un oggetto, il fil di rame, per esempio, in quei giorni che egli stava occupato ad annodare coroncine e badava poco a fare il chiasso con lei! Gli teneva il broncio, si allontanava su per gli alberi attorno, accorreva con ritardo al richiamo di lui, come se volesse castigarlo... E appena si risolveva, che carezze, che vellicamenti di orecchi! E con che grazia gli si appollaiava sul braccio, piegando le gambine, talvolta mettendo la testa sotto un'ala, quasi intendesse di dirgli: - Vorrei stare qui sempre! Ci si sta così bene! - Giacchè per lui Paola parlava a verso suo, sì, ma parlava, e pure intendeva le parole di lui. - Paola! Ehi! Paola! Paola! Vide apparire di su la cima del Monte un gran stormo di tàccole che volavano fitte e facevano una macchia nera nel cielo azzurro. Scendevano, gracchiando allegre, rapidamente, verso le rocce della vallata dov'erano i loro nidi, Scurpiddu attese che gli passassero, in alto, sul capo, per chiamare replicatamente: - Pao!...Pao!... Pao!.. - mangiandosi l'ultima sillaba del nome per imitar meglio il grido delle tàccole; e facendosi visiera della mano contro il sole, guardava ansioso, se mai avesse potuto riconoscerla. E l'aveva riconosciuta dalla catenina di rame che le straluccicava al collo Allora si era messo a gridare più forte: - Paola! Pao!...Pao!.. - Ma le altre tàccole avevano circondato Paola per condurla con loro, come una conquista gloriosa, a viver libera tra le rocce. Scurpiddu notò infatti che, un istante, Paola si era arrestata, aveva piegato il volo in giù, e che le altre tàccole, stringendosele attorno, beccandola, spingendola, l'avevano costretta a tirar via, tra un clamoroso gracchìo di vittoria. Lo stormo era già lontano, e Scurpiddu, immobile, con gli occhi gonfi di lagrime, credeva di veder luccicare ancora la catenina di fil di rame al collo dell'ingrata che lo abbandonava... - Paola! - gridò con voce soffocata dai singhiozzi. Ma Paola era già sparita dietro i fichi d'India che facevano siepe su l'orlo delle rocce nella gola della Caldaietta. - Vergogna! Piangere per una tàccola? - le disse la massaia. - Non sei più un bambino! A letto, prima di spegnere il lume, Scurpiddu si sentiva solo senza Paola. Guardava il paniere vuoto infisso nel muro e crollava il capo. Pure non disperava di rivederla. - Tornerà! - pensava. - Qui stava calduccia. A una buca della roccia non saprà adattarsi certamente. Tornerà! E la mattina, avanti di avviarsi coi tacchini al pascolo, si affacciò dal ciglio del precipizio dietro il frantoio per richiamare la fuggitiva, caso mai la scorgesse. Gli rispose soltanto l'eco, due o tre volte. Scurpiddu tornò addietro a capo chino, e sfogò la stizza coi tacchini che quella mattina non andavano diritto, o indugiavano a pascolare tra le erbe ai fianchi della strada. Guappo si buscò un bel colpo di canna, Vittorio Emanuele un calcio, Garibaldi un urto con la gamba. E per via, Scurpiddu guardava in alto, osservando gli stormi di tàccole che passavano gracchiando allegramente. Ma Paola non era tra essi; l'avrebbe sùbito riconosciuta. Con un groppo alla gola, dimenticava di cavar dalla tasca la colazione; non c'era più Paola che venisse a beccargli la fetta di pane nero tra le mani. Più tardi però l'appetito si fece sentire. Scurpiddu a ogni boccone, masticando lentamente, quasi il pane o le olive nere salate avessero sapore amaro, guardava attorno, lontano, lusingandosi ancora che da un momento all'altro Paola comparisse; ma l'infamaccia, - così egli diceva internamente, - non si faceva vedere! E sarebbe stato meglio, se non si fosse fatta più vedere. Sul tardi un piccolo stormo di tàccole, sei o sette, venne a posarsi sui mandorli di Rossignolo. Una di esse si staccò dal ramo poco dopo, e si mise ad aliare sul branco dei tacchini che pascolavano. Si accostava, tornava indietro rapidamente, riveniva esitante...Era Paola, con la catenina di rame che luccicava al collo! Scurpiddu non aveva forza di chiamarla, tanto la commozione gli paralizzava la lingua, dandogli frèmiti di gioia. Due o tre volte, Paola tornò a posarsi con le altre sul ramo del mandorlo, riprese ad aliare gracchiando, pareva attendesse il richiamo; poi le compagne spiccarono il volo e la condussero via. - Infamaccia! - singhiozzò Scurpiddu. Da quel giorno in poi la infamaccia non si fece vedere più. - Ah, Madonna santa! Il tetto del frantoio era in fiamme. Vortici di fumo e scintille si spandevano attorno spinte dal vento che soffiava forte. Nugoli di fumo salivano dalla catasta di legno del cortile a cui le scintille portate via dal vento avevano appiccato il fuoco. Il fumo dagli sportelli, aveva invaso il pollaio e soffocava galline e tacchini, che si agitavano furiosamente per trovare uno scampo. - Soldato!..Massaio!... Fuoco! Fuoco! Scurpiddu urlava, chiamando aiuto. Scalzo, senza curarsi del freddo che lo gelava, corse a picchiare alla porta della stalla. E quando il Soldato, ancora insonnolito, comparve su la soglia e visto il bagliore delle vampe, si precipitò fuori, Scurpiddu andò a picchiare alla porta della masseria: - Fuoco! Fuoco! In pochi minuti, tutta la gente della masseria era in piedi, gridando, dando ordini, che, nella gran confusione, nessuno eseguiva. - Acqua! Acqua!...Una scala!...Un'accetta! Scurpiddu, imboccata la conchiglia marina, con cui ogni domenica chiamava i vicini alla messa, suonava, suonava, intramezzando l'appello con gridi prolungati: - Aiuto! Aiuto, santi cristiani! Così strillava pure la massaia, che si strappava i capelli piangendo. Il Soldato e massaio Turi, saliti sul tetto, rompevano con le scuri le travi, perchè il fuoco non si comunicasse a tutta la casa. Gli altri versavano acqua su la catasta della legna. Scurpiddu riempiva brocche nella vasca vicina, insieme con sei contadini che facevano una specie di catena, porgendosi da una mano all'altra i recipienti ripieni per far più presto. Spalancato, quasi sfasciandolo, il portone del frantoio, il vento aveva spazzato sùbito il fumo e così si era potuto vedere che il fuoco era venuto dalla cucina, il cui tetto poco dopo crollava. Crollava a metà anche il tetto del frantoio. Intanto era accorsa gente da tutte le parti. Le fiamme cominciavano ad abbassarsi. Scurpiddu, dalla vasca, guardava atterrito le due ombre nere che si muovevano sul tetto tra il fumo, agitando le braccia, facendo riluccicare le scuri a ogni colpo che davano. Tutt'a un tratto egli si ricordò dei polli e dei tacchini: - Povere bestie! E, finito di riempire la brocca che aveva in mano, in quattro salti fu al pollaio. - La chiave! La chiave! Non la trovava. Afferrò un tronco dalla catasta che era già mezza spenta, e cominciò a battere l'uscio con esso, finchè non l'aperse. Polli e tacchini sbucarono fuori con tale violenza che per poco non lo rovesciarono a terra. - I tacchini e i polli sono salvi, massaia! - si era affrettato ad annunziare. - Tegònia! Tegònia! - balbettava la massaia mezzo svenuta. La vecchia serva infatti non era con loro. Dormiva in uno stanzino, accanto alla stanza dove era morta la mamma di Scurpiddu; e, nel trambusto, nessuno si era rammentato della poveretta, che forse il fumo soffocava lassù. Scurpiddu corse di fretta dietro il frantoio, e chiamò: - Z'a Tegònia! Z'a Tegònia! La stanzetta aveva un finestrone su una piccola terrazza che sporgeva su l'abisso della roccia. Bisognava essere uno scoiàttolo per arrampicarsi, e poi, il vento spingeva il fumo da quel lato, avvolgendo la terrazza, quasi l'incendio avesse ingoiato la stanzetta e chi vi dormiva. - Z'a Tegònia! Z'a Tegònia! Oltre il fumo, c'era l'abisso che si spalancava là sotto. Per tentar di appoggiare una scala nel punto dove la sporgenza della roccia permetteva di farlo senza pericolo, occorreva spiccare un bel salto e non mettere il piede in fallo. Scurpiddu diè un'occhiata attorno. Due grossi tronchi di fichi d'India, abbattuti mesi addietro, gli suggerirono l'idea di formare un ponticello, mettendoli per traverso. Sarebbe passato su di essi, e poi li avrebbe tirati dall'altra parte. Appoggiandoli al muro, vi si sarebbe arrampicato. Se giungeva ad afferrare la ringhiera di ferro della terrazza... . Detto, fatto: due tronchi venivano trascinati con molto sforzo, buttati a traverso il profondo spacco della roccia; e Scurpiddu, curvo, con le braccia aperte per equilibrarsi, trattenendo il respiro, passava sul cedevole ponticello. Il difficile era ritirare i tronchi di là senza che il peso li facesse precipitare giù. Prima di avventurarsi, chiamò di nuovo: - Z'a Tegònia! Z'a Tegònia! Le vampe, dopo il crollo dei tetti della cucina e del frantoio, erano quasi spente, ma il fumo aumentava, e le scintille volavano portate via dal vento e piovevano addosso a Scurpiddu, scottandogli mani e faccia, Ora però che egli aveva appoggiato al muro i due tronchi, e che essi, con le loro sporgenze, gli davano agio di montare, non badava nè a fumo nè a scintille; e com'ebbe afferrato una sbarra della ringhiera, si spinse su poggiando i piedi al muro; poi saltò nella terrazza. Per fortuna i vetri erano chiusi, ma gli sportelli interni no. Con un mattone ch'era là, egli ruppe un vetro, passò un braccio nell'apertura fatta, girò il succhiello e spalancò la imposta a due bande, Un'ondata di fumo lo fece indietreggiare. Appena la stanza si fu vuotata per l'aria nuova penetrata, dentro, Scurpiddu si precipitò verso il letto, con uno strillo: - Z'a Tegònia! E scoteva il corpo della povera vecchia, che rantolava, buttata a traverso la materassa. Intanto, dalla fessura dell'uscio che dava nel frantoio, il fumo continuava a invadere la stanza! Come fare? Egli non poteva levar di peso la vecchia e portarla all'aperto. Udita sul tetto vicino la voce del Soldato e di massaio Turi che già si preparavano a scendere, Scurpiddu uscì su la terrazza e chiamò. - Che fai costì? - gli domando il Soldato, affacciandosi dall'orlo del tetto. - La Z'a Tegònia!... Venite!... .Sta per morire... Io non posso toglierla dal letto. Il Soldato si lasciò scivolare lungo il muro che non era molto alto, e poi saltò su la terrazza. Era stupito di trovare Scurpiddu colà. - Come hai fatto? - Ve lo dirò dopo. E trassero la povera vecchia all'aria aperta. Quando l'incendio fu domato, tutti erano attorno a Scurpiddu per sentirgli raccontare come si era accorto delle fiamme e come aveva fatto per salvare la Z'a Tegònia. - Questo ragazzo è la nostra buona sorte, - diceva massaio Turi alla moglie. - Senza di lui, a quest'ora, saremmo quasi all'elemosina, se pur saremmo vivi! E si asciugava le lagrime. Parecchie volte massaio Turi gli aveva detto: - Ora sei troppo grande da fare ancora il nuzzaru: per questo ufficio prenderò un altro ragazzo. - L'anno venturo, - rispondeva sempre Scurpiddu. Voleva bene ai tacchini e sapeva duro il separarsene. Il massaio non gli dava più soltanto il mantenimento e i vestiti, ma anche venti lire all'anno, che Scurpiddu metteva da parte pel tempo in cui sarebbe andato a fare il soldato, sua idea fissa. Voleva vedere il mondo, pensava a tentar la fortuna. Da che era rimasto sbalordito di Catania, e il Soldato gli aveva ripetuto che a confronto di Napoli, di Roma, di Torino, Catania era niente, Scurpiddu non vedeva l'ora di giungere ai diciotto anni per arrolarsi volontario. Aveva forse altro mezzo per vedere il mondo? E la sua fantasia si era accesa di più, dal giorno che don Corrado della Posta, com'egli chiamava l'ufficiale postale, gli aveva regalato tre volumetti, ch'egli non si stancava di rileggere, rimanendo per ore intere estasiato a osservare le figure dei monumenti delle grandi città italiane. Andato a Mineo per la festa dell'Immacolata, si era fermato davanti a l'ufficio postale e telegrafico, e aveva attaccato discorso con Mauro, il postino, che stava sull'uscio. Si conoscevano da bambini; poi si erano perduti di vista. Incontratisi per caso l'anno avanti, si erano riconosciuti con gran piacere di tutti e due. - Ricordi, quando ti davo dei pugni, perchè non volevi fare il cavallino nel piano di Santa Maria? - E io ti mordevo; ricordi? - E ora che fai? Io il postino. - Io il nuzzaru, da massaio Turi Serra. Quel giorno Scurpiddu voleva vedere il telegrafo. - Come parlano con quel filo? - Non parlano; vieni. E lo aveva fatto entrare dalla parte del cortile, col permesso di don Corrado, che giusto in quel momento trasmetteva un dispaccio. Scurpiddu non arrivava a persuadersi che con quel tic-tac si potesse mandare notizie tanto lontano. Non osava accostarsi al tavolino, quasi temesse di una diavoleria. E diavolerie ce n'erano parecchie nella stanza, attorno a un gran pilastro, nel centro, con un buco e una lente, che attrasse soprattutto l'attenzione di Scurpiddu. - È pei terremoti, - spiegò Mauro. Ma Scurpiddu capì che i terremoti li facevano là, con quel pilastro, Mauro e don Corrado. - Perchè fate i terremoti, Dio ne scampi! Don Corrado si mise a ridere. E accortosi che Scurpiddu moveva le labbra guardando gli avvisi affissi al muro, gli domandò meravigliato: - Sai lèggere? - Un po'. - E che leggi? - Il sillabario e...l'Istruzione per le armi di fanteria. - Nient'altro? - soggiunse don Corrado, ridendo per quell'Istruzione per le armi di fanteria accoppiata al sillabario. - Chi mi dà i libri? - disse Scurpiddu, - Te ne regalo alcuni io; ti piaceranno. Erano tre volumetti di lettura per le classi elementari, che non servivano più al suo figliuolo già studente di ginnasio. Una ricchezza per Scurpiddu, che non finiva di ringraziarlo. - E un'altra volta te ne darò altri, in prestito se vuoi Un contadino che aveva appreso a lèggere senza andare a scuola e che amava d'istruirsi, era caso così raro che don Corrado guardava Scurpiddu dalla testa ai piedi. Scurpiddu intanto, coi libri in mano, rivolgeva spesso gli occhi a quel pilastro che faceva i terremoti, e avrebbe voluto guardare a traverso la lente. - I terremoti stanno chiusi là? - domandò. - Sì, vuoi vederli? Non aver paura. Scurpiddu vide un pendolo che andava e veniva lentamente davanti una lastra segnata con fitte linee perpendicolari. E si voltò verso don Corrado, sorridendo d'incredulità, supponendo che egli si divertisse a dargli a intendere fandonie, - Questo dà avviso dei terremoti; ma i terremoti, disgraziatamente non li faccio io; capisci? Si chiama tromometro. Queste macchine qui, che paiono orologi, sono avvisatori, per segnar l'ora in cui un terremoto avviene, Un'altra volta ti farò vedere altri strumenti, lassù, nella torretta dell'osservatorio meteorologico. - Tromometro! Osservatorio meteorologico! Scurpiddu uscì di là con la convinzione che don Corrado avesse parlato turco e avesse voluto dargli a bere stramberie e ridersi di lui perchè era ignorante, Ma come si era poi divertito con quei libri pieni di figure! Quante cose aveva appreso! Parecchie parole non le intendeva, nè il Soldato riusciva a spiegargliele bene, quando ricorreva a lui per schiarimenti. E tirava a indovinare; capiva a modo suo. Vi si parlava di Vittorio Emanuele, di Garibaldi, di tanti altri: e poi di Roma, di Firenze, di Napoli, di Torino. E che bei monumenti. E che magnifiche chiese! Gli pareva di esservi, guardando le figure. Intanto il Soldato gli diceva che nella realtà quelle chiese e quei monumenti erano assai più belli, ma assai assai! A Scurpiddu sembrava quasi impossibile. - Qui c'è sepolto re Vittorio, - spiegava il Soldato, riconoscendo il Pantheon; - e chi ci va mette la firma in un libro più grande di un messale. Questa chiesa non è come le altre; è rotonda, con una gran buca nel centro della cupola. - E quando piove? - L'acqua va dentro, e la spazzano. - Perchè? - Perchè così. Capriccio! - Stupido chi l'ha fatta! - conchiuse Scurpiddu. - E se piove di domenica, mentre la gente ascolta la messa? Il Soldato sorrideva, crollando il capo con aria di superiorità, sentendo uscir tali osservazioni da la bocca di Scurpiddu. Il quale poi non avrebbe più dovuto essere chiamato così. A sedici anni, era divenuto muscoloso, robusto, e avrebbe avuto lanuggine e due precoci baffettini che gli avrebbero dato aspetto virile, se, secondo il costume dei contadini siciliani, non si fosse fatto radere ogni mercoledì quando mastro Ciccio il Vecchio veniva alla masseria per massaio Turi e pel Soldato. Il Soldato canzonava Scurpiddu mentre il barbiere gli insaponava il viso con lesta mano. - Badate di non sciupare il rasoio, mastro Ciccio!... Voltate il rasoio dal dorso, mastro Ciccio, per codesta lanuggine sarà lo stesso. - Badate piuttosto di non farmi qualche braciola! -- si raccomandava Scurpiddu, E aveva ragione, perchè mastro Ciccio il Vecchio, che sbarbava in paese tanti signori, soleva usare pei contadini certi rasoi che portavano via la pelle, col pretesto che la pelle dei contadini è rosolata dai sole. Coi precoci baffetti però Scurpiddu sarebbe stato parimente un ragazzo senza malizia e senza vizii. Beveva poco vino, non fumava; lavorava volentieri quando non conduceva al pascolo i tacchini. Sapeva fare tutto quel che occorreva nella masseria: ingegnoso, sollecito, allegro come quando aveva nove anni, quantunque ora non si scapricciasse più a far capriole, e quantunque avesse in testa quella pazzia, diceva il massaio, di andar soldato prima del tempo. - Hai paura che si scordino di chiamarti per la leva? Sta' tranquillo; il re non se ne scorda; piglierebbe anche me, se volessi andarvi. Carne da cannone non ne ha mai troppa! Quello stupido del Soldato ti ha sconvolto il cervello. E lui perchè non è rimasto colà, lui? Vuol dire che non gli tornava. Quasi per scrupolo di coscienza, il Soldato appunto in quei giorni non gli parlava soltanto della bella vita del soldato, ma anche dei guai che si passano al reggimento. - Tutto sta nel capitar bene. C'è della gentaccia anche tra i superiori e tra i soldati. Certi ufficiali sembra stiano là per martoriare i coscritti, per mettere con le spalle a muro tanti figli di mamme che avrebbero voluto starsene a casa loro... E certa canaglia di caporali!... E certa canaglia di furieri! Ma c'è pure molta brava gente: superiori che vogliono bene ai soldati come figliuoli; caporali e furieri che fanno proprio da fratelli... Così nei conventi di frati; se il guardiano è un buon uomo, i frati stanno bene, vivono in pace e ingrassano, tal quale! La caserma è un convento. È anche una masseria, se il massaio è una pasta di angeli, come il nostro, e se ogni persona fa il proprio dovere... Nella milizia, spalancare gli orecchi agli ordini, e acqua in bocca; ecco la ricetta per starvi bene... E non farsi prendere per pècoro, s'intende. - Oh, questo no! - disse Scurpiddu. Il massaio e la massaia però credevano che quella pazzia gli sarebbe svaporata appena arrivava il momento di metterla in atto. Invece... - E hai cuore di lasciarci? - gli disse la massaia. - Tanto, il soldato dovrò farlo per forza! - Ma potrai prendere un numero alto: potranno scartarti per un difetto che tu non sai di avere, - aggiungeva massaio Turi. - In questo caso mi scarteranno anche ora. - Mangia qui la grazia di Dio, questo buon pane di frumento, figlio mio! se ti penti dopo, non c'è più rimedio. - Quando tornerò.,., - Non ci troverai vivi; siamo vecchi! - replicò tristamente il massaio. - Ah, fosse qui la tua povera mamma! - Se il Signore non voleva che andassi soldato, me la faceva campare, massaia. Tutto è destino. E ora che le carte son pronte... me l'ha mandato a dire don Corrado della Posta... - C'è entrato di mezzo pure quello scomunicato? Don Corrado non era in odore di santità presso la massaia. Don Pietro soleva chiamarlo protestante, perchè era liberale; e protestante, per la massaia, significava peggio di turco, uomo senza nessuna religione. - Peccato! Eppure fa del bene! - aggiungeva ogni volta che le accadeva di sentirlo nominare o di nominarlo. - Ma questa volta, no. - C'è entrato di mezzo quello scomunicato? E si fece il segno della santa croce. Scurpiddu tornava per l'ultima volta coi tacchini alla masseria. Aveva indugiato lassù, quasi per dare un lungo addio a quei luoghi che non gli erano parsi mai tanto belli come quella sera. La vallata era tutta verde di seminati novelli; i mandorli in fiore. Stormi di tàccole passavano rapidi per andare ad appollaiarsi nei nidi tra le rocce. Due falchetti aliavano, squittendo, inseguendosi con lunghi zig-zag, librandosi su le ali, da sembrare due immobili punti neri nel cielo limpidissimo, dorato dal crepuscolo che accendeva una striscia di fuoco in cima alle rocce della Làmia e dietro i campanili e le cupole di Mineo. Lo zi' Girolamo scendeva per la viottola dei Saraceni, cacciandosi avanti i buoi e le vacche che facevano tintinnare i campanacci. Scurpiddu non si era mai immaginato che quel verde, quel silenzio, e quei campanacci potessero dare tanta tristezza, quanta egli ne sentiva nel cuore in quel momento. Domani sarebbe stato lontano! Domani l'altro più lontano ancora! Il suo sogno cominciava ad avverarsi. Al beveratoio s'incontrò con lo zi' Girolamo. - Parto domani, - gli disse. - Il Signore ti aiuti, - rispose il bovaro. - E a voi zi' Girolamo, che vi dice il cuore? Faccio bene? Faccio male? - Farai quel che ha già disposto Dio; non si muove foglia, che Dio non voglia! - Ma il cuore che vi dice? - insistè Scurpiddu E voleva che il bovaro intendesse: - Che vi hanno detto le Nonne per me? - Male non fare, paura non avere! - sentenziò gravemente il bovaro. - È vero, - rispose Scurpiddu. E aveva un tremito nella voce. Otto giorni dopo, Scurpiddu diventava SCAGLIO GIROLAMO nel 3°; reggimento bersaglieri, 1a compagnia. EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Luigi Capuana - Scurpiddu", Collezione: Collana i bei libri, 11. rist., 5. ed, G.B: Paravia & C. Spa, Torino, 1949 |
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